rivista anarchica
anno 47 n. 417
giugno 2017






Una specie esagerata di etichetta indipendente

Alla fine di febbraio 2016 un gruppo informale di ragazze e ragazzi ha invitato Dethector e me presso la libreria Ubik di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso. Volevano incontrarci per sapere, tra le molte altre cose, che cos'è e come funziona una non-etichetta discografica: conoscevano le etichette indipendenti, le major ovviamente, ma non una non-etichetta. Volevano sapere da noi non tanto chi siamo, ma perché siamo così, cosa ci spinge a essere come siamo, perché facciamo certe scelte e non altre. Volevano sentire direttamente dalle nostre voci le nostre storie, cose che da una ricerca su internet (tendiamo a restare un po' sotto l'orizzonte) non si riescono granché a chiarire. Erano piuttosto curiosi, ci hanno intrappolato per ore e noi ci siamo stati volentieri. Con grande sorpresa nostra e degli organizzatori all'incontro si è presentata parecchia gente, anche venuta dai paesi vicini. Mi sono poi ritrovato in una situazione simile il fine settimana successivo: sono stato invitato presso la sede del Germinal di Trieste e al circolo “Emiliano Zapata” di Pordenone a raccontare grosso modo le stesse cose ad un pubblico di ragazze e ragazzi altrettanto curiosi. Stessa identica cosa solo qualche tempo fa, allo spazio Loup a Mori, alle porte di Trento.
Dethector ed io siamo buoni amici e compagni da tanti anni, come magari già saprete da qualche tempo abbiamo deciso di fare cose insieme. Siamo separati solo da una dozzina d'anni, lui è a metà dei quaranta io sui tardi (molto molto tardi) cinquanta, quindi abbiamo storie lunghe: lui uscito veloce dall'adolescenza intestardito a mandare avanti un centro di distribuzione punk in mezzo alle montagne del Cadore poi a suonare coi Detriti poi a mettere in piedi incontri attività seminari rassegne laboratori concerti, io a bazzicare collettivi teatrali e musicali di base poi nelle prime radio libere poi fanzinaro poi fiancheggiatore della stampa anarchica.
La mia collaborazione con A/Rivista anarchica risale al 1984: oltre allo scriverci sopra ci tenevo a dare un qualche sostegno economico, ma non potevo permettermelo. Quindi, ho messo a disposizione dei miei compagni quello che sapevo fare: mi è sempre piaciuto bazzicare giri di musicisti, scrittori, disegnatori così mi sono improvvisato editore e produttore discografico. La cosa ha funzionato, non senza una certa sorpresa personale: nel corso degli anni mi sono ritrovato con le mani e il cuore in mezzo a tanti progetti, ho curato e pubblicato parecchie cose (opuscoli, libri, dischi, cassette, cd) e raccolto parecchi soldi. Tolte le sole spese vive, è finito tutto nei fondi neri di questo giornale.

Si può sfuggire alle gabbie del mercato

Se, come s'è detto, l'anarchia è un'idea esagerata di libertà, nelle nostre intenzioni una non-etichetta discografica è una specie esagerata di etichetta indipendente ed autogestita: è prima di tutto indipendente dai soldi, dai distributori e dai negozi, perché i materiali che produce non vengono posti in vendita, né diffusi commercialmente, neanche nei cosiddetti circuiti alternativi.
Una non-etichetta discografica è anche indipendente dai giornalisti e dalla stampa specializzata perché non compra spazi pubblicitari nelle riviste musicali né manda copie saggio per le recensioni.
Una non-etichetta discografica non ha una sede né soldi, funziona a colletta e nei ritagli di tempo libero: per noi è così. Non c'è un programma, un calendario, delle scadenze: in un anno possono uscire una, due, tre cose, oppure nessuna. Si può decidere di lavorare da soli oppure in collaborazione con altri individui e collettivi: noi l'abbiamo fatto ripetutamente e felicemente con l'editore imolese Bruno Alpini ed il Centro Stabile di Cultura di Schio, solo a dirne un paio. E con la rivista Aparte, per dirne tre.
Non ci si è mai preoccupati di questioni di stile espressivo: si spazia dalla canzone d'autore alla musica di ricerca, e sono state curate e pubblicate raccolte piuttosto eclettiche con contributi di artisti provenienti da un po' tutto il mondo. In una non-etichetta discografica non ci sono contratti da far firmare ai musicisti: si decide insieme cosa fare e come farla, si può cambiare idea fino all'ultimo momento e anche dopo (ad esempio: mandiamo delle copie saggio a questo e a quest'altro). Non tanto per risparmiare quanto per rispetto si tende a non intervenire nel merito della qualità tecnica delle registrazioni da pubblicare. I rapporti con tutti fino ad ora si sono mantenuti cordiali, ottimi e pacifici; c'è stato qualche scazzo isolato, questo sì, ma non è davvero mai successo di litigare.
Per finire, ma non è la cosa meno importante, si cerca di realizzare le nostre uscite al costo più basso possibile, e vogliamo che siano belle da ascoltare ma anche belle da guardare, da leggere e da toccare. Vogliamo usare la nostra creatività come arma contro chi ci vuole in silenzio, immobili, rassegnati, spenti, chiusi in casa con il telecomando della televisione in una mano e uno smartphone nell'altra. Vogliamo mostrare che si può sfuggire alle gabbie del mercato intrecciando reti di collaborazione e scambio e sostegno reciproco. Vogliamo mostrare che è possibile lasciare un segno. Ci voleva proprio una non-etichetta discografica per diffondere queste registrazioni avventurose, frutto di collaborazioni ed amicizia, una celebrazione di scoperta e divertimento. Musiche che si sono nutrite di abbracci sguardi e sorrisi, intreccio di gioia e complicità, realizzate e documentate con tutt'altri presupposti che il lucro.

La piccola orchestra degli Improvvisatori di Valdapozzo

Una pratica di libertà

“...Improvvisare è una pratica di libertà, di creatività e autocontrollo. È la pratica del qui e ora, dell'immediato; dell'errore e della sua gestione positiva. L'improvvisazione è l'arte di chi si vuole prendere rischi, di chi vuole guardare oltre. È l'arte dell'imperfetto. L'improvvisazione usa il testo scritto come un mezzo, non guarda al testo come a un fine. Insegna ad ascoltare, obbliga alla ricerca di una relazione profonda con l'altro. Chiede attenzione totale e continua. Chiede partecipazione e convinzione: chiede di crederci. Chiede di credere in sé stessi. Non si può insegnare, ma ci può insegnare. Esistono tecniche legate all'improvvisazione, ma l'improvvisazione non è una tecnica. È usata in molti generi musicali, ma non è un genere. È un approccio all'arte, e quindi alla vita...”

Sono parole di Luca Serrapiglio, docente presso il conservatorio Antonio Vivaldi di Alessandria, che alcuni anni fa aveva proposto un laboratorio d'improvvisazione all'interno dell'offerta formativa della scuola di musica per adulti del conservatorio stesso. Un laboratorio aperto a tutti, musicisti e non musicisti, allievi della scuola ed esterni. Aperto anche a chi non avesse alcuna idea di come suonare uno strumento. Con l'idea di “suonare, prima di imparare a suonare”.

Continua Luca: “...Iniziai questo percorso didattico senza sapere dove mi avrebbe portato, quanto avrei imparato. Ma avendone chiari molti scopi. Una pratica musicale che sviluppi la capacità di ascolto e di relazione. Una pratica volta allo sviluppo della creatività, in una società che tende a reprimerla e oscurarla. (...) In una società in cui tutto deve funzionare alla perfezione, in cui tutti abbiamo un ruolo preciso e il risultato deve essere garantito, la libertà, anche di sbagliare, fa paura...”.

Quando ho conosciuto Nicola Guazzaloca ho proprio pensato che mi sarebbe piaciuto avere un telecomando tipo film di fantascienza per togliermi di dosso trenta/quarant'anni, e pure abitare a Bologna invece che a nord del Po, tutto per potermi iscrivere alla scuola popolare di musica Ivan Illich e frequentare le sue lezioni. Lui penso che sia uno tra gli insegnanti di musica più affascinanti che conosco: suona il pianoforte in maniera sbalorditiva, ti mette addosso agitazione e stupore che messi insieme sfociano in uno sbigottimento allegro, in una sorpresa continua – e a me piacciono le sorprese, specie se belle. Nicola mi piace restare ad ascoltarlo anche quando non suona, ad esempio mi sono ritrovato più volte a sentirlo parlare delle cose che combina, dei suoi progetti che se ci pensi proprio così strampalati non sono, dei concerti che va a fare e dei dischi che pubblica in giro per il mondo, e mi viene sempre un po' da ridere.
Sì, perché sembra che nei suoi racconti la musica prenda consistenza tutt'intorno come per un qualche miracolo sinestetico, una nuvola di riflessi colorati che prende forme come d'animale, vero oppure inventato, e poi scompare e poi riappare - come in un cartone animato. Succede anche quando parla di sé, le sue chiacchiere un po' musica lo sono, musica strana che diventa lampi, che gli gira e rigira intorno, vortici fumosi e fughe improvvise di suono. Vedi che la musica schizza via dalle sue mani che gesticolano.

La piccola orchestra degli Improvvisatori di Valdapozzo
Filastrocche alla rovescia

Leggete qui, a proposito di improvvisazione, cosa ne scrive lui stesso: “...Perché dedicare tempo ed energie ad una pratica musicale inclassificabile, marginale e controproducente in termini professionistici? Intanto, mi sembra che il professionismo non sia necessariamente un valore positivo se le nostre scelte, le nostre idee, sono limitate e indotte dalle regole di un mercato ben lontano dalla visione che ho cercato di comunicare. Sono convinto che la musica debba essere libera e che libere debbano essere le idee. Ricordo le filastrocche alla rovescia di Gianni Rodari, con le quali mostrava che molte delle cose in cui crediamo si possono reinventare, per guardare diversamente alla realtà. La realtà è soprattutto immaginata: si inventano motivi, significati e valori astratti, che originano culture e visioni differenti. Questi valori, queste idee, incidono nella nostra vita e la regolano in modo concreto e forse un piccolo esercizio di rivoluzione musicale potrebbe cambiare qualcosa nei modi di vedere, di pensare, nel mondo che innanzi tutto abbiamo in testa...”.
Ecco, mi piace la sua visione dei mondi sonori come zone di ricerca, in equilibrio instabile tra avventura e godimento. E ditemi poi se sbaglio, per tutti le ragioni che vi ho detto, a ritenere che la scelta di far condurre il workshop a Nicola sia stata felice. Gli incontri si sono tenuti a Valdapozzo, in campagna fuori Alessandria: hanno partecipato musicisti di diversa estrazione e abilità, nonché non-musicisti curiosi. Una piccola folla di sognatori entusiasti. Gli Improvvisatori hanno documentato l'attività e, rastrellata una colletta, hanno raccolto alcuni segmenti sonori che abbiamo pensato poi di pubblicare insieme. Il disco in sé non si presta ad essere raccontato, o descritto, se non attraverso i ragionamenti che hanno portato a questi incontri felici. Penso possano servire, piuttosto, alcune osservazioni e commenti dei vari partecipanti – li ritrovate tutti nel libretto. Per ascoltare, sia queste parole che questa musica, serve attrezzarsi di curiosità: l'idea è quella di mettersi a fare una bella scarpinata in montagna, l'acqua fresca non mancherà di certo lungo il percorso, basta riempire la borsa di buonumore e il resto verrà da sé.

“...Tutti possono fare musica. Se fossero altri anni, sarebbe un perfetto motto punk. Qui, invece, al posto di borchie e eroina ci sono focaccia, salame (per qualcuno vegan) e Ennio 41 (grappa artigianalmente casalinga sotto i cui influssi, si dice, sia stato registrato il disco). Una variante più casereccia e allegra. Anche più anarchica: ognuno è libero nell'estremo rispetto dell'altro. Tradotto musicalmente: puoi suonare anche se non lo hai mai fatto, basta che ascolti te stesso, gli altri e la musica...” (Francesco Asti, sax tenore)

“...Mescolare gli ingredienti con pochi elementi: infinite combinazioni. L'arte della pasta con il pomodoro e l'alternarsi delle stagioni che dettano legge sul da farsi. Così mi sento ai fornelli della musica sempre sperimentale...” (Rita Giusti, voce)

“...Sono Gianluca, a volte vengo da Ascoli, altre direttamente da San Francisco. Vorrei ricordare ai giovani la bellezza, l'importanza e l'utilità della musica che suoniamo. Insegno alla scuola primaria e già lì ne butto il seme...” (Gianluca Varone, sax tenore)

“...Ciao a tutti sono Ennio la mia storia è molto semplice: ho cominciato a suonare la tromba da ragazzo con una piccola banda di paese, poi servizio militare ed eventi vari mi hanno costretto ad abbandonare la musica. Un giorno grazie ad una mia carissima amica ho ripreso a suonare, io non conoscevo il discorso improvvisazione per me la musica era quella chiara, scritta e precisa, altro per me non esisteva, ma da quando ho cominciato a frequentare il conservatorio di Alessandria ho scoperto un nuovo mondo musicale, l'improvvisazione. Il momento culminante è stato quel weekend del seminario quando ho incontrato persone che non conoscevo ma che senza timori né vergogne o paure mi sono trovato con la mia tromba immerso in un gruppo il cui l'unico desiderio è suonare. Grazie ragazzi...” (Ennio Capaldi, tromba)

“...Una piazza, un crocicchio: qualcuno chiacchiera; in un angolo si bisbigliano parole dolci, dall'alto si intonano canti e qua e là si urlano ingiurie. Ci si sposta e si trova, o ci si perde con gioia; si cammina, si corre, si inciampa e si cade - ci si guarda da lontano, o ci si tiene per mano...” (Luca Bernard, contrabbasso).

Informazioni e contatti: Scuola popolare di musica “Ivan Illich” - via Giuriolo, 7 40129 Bologna - www.spmii.it; Associazione culturale Valdapozzo - strada Vallerina, 21 15044 Quargnento AL - www.valdapozzo.org; Luca Serrapiglio lunaima@yahoo.it; Nicola Guazzaloca nicolaguazzaloca@gmail.com.

Lance D'Boyle (1940-2017)

...e anche Lance se n'è andato via

Mi ritrovo ancora a ritagliare su queste pagine un po' di spazio per ricordare un vecchio compagno che ci lascia. Vecchio per modo di dire, perché Gary Robins, meglio conosciuto come Lance D'Boyle, tra noi giovani punks era felice. Tra noi si trovava bene, e noi ci si trovava bene con lui a condividere birre e tè che non spegnevano affatto la nostra sete di libertà. Certo, anagraficamente Lance apparteneva più alla generazione dei nostri genitori, ma lui era uno di quelli che da qualche parte dentro in testa aveva continuato ad avere sempre vent'anni. Press'a poco vent'anni li avevo io quando, 1979, ho ascoltato uno dei primi dischi delle Poison Girls, il gruppo da lui fondato insieme a Vi Subversa – la sua compagna d'una vita. Li ho incontrati entrambi più volte nei miei primi viaggi oltremanica, lui piuttosto schivo ma sempre così gentile e disponibile, curioso ed attento nell'ascoltare le mie domande e meravigliosamente fuori di testa nelle sue risposte, che farciva di battute.
Un umorismo graffiante che ci lasciava dentro il segno: era la sua maniera di insegnarci a non avere paura. Lance del gruppo era il batterista, ma era soprattutto l'anima creativa. Se vi capita, andate a riascoltare qualche loro vecchia canzone: vi sorprenderà senz'altro la voce di Vi, ma fate caso a quei colpi sui tamburi – ciascuno una martellata vibrata con gioia alle fondamenta del sistema, sempre una risata addosso, sempre uno sberleffo. Anarchico, ribelle e sognatore ha arricchito il punk inglese della sua poesia e del suo sconfinato senso di pace.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it