tennis
Il rovescio
scritti di Sergio Giuntini e di Monica Giorgi
Uno studioso della storia dello sport ricorda la Coppa Davis 1976. Non perchè sia stata l'unica vinta degli azzurri. Ma per le polemiche che la precedettero e l'accompagnarono, per la legittimazione che di fatto si dette alla dittatura del generale Pinochet. Segue la tennista (anarchica) Monica Giorgi, che ricorda tra l'altro le discussioni con Adriano Panatta. E si spinge ancora più indietro a quando nel 1972 in Sudafrica indossò quella maglietta antirazzista e fu espulsa per due anni dalle gare internazionali. E quando fece vincere la divina Lea Pericoli, abbandonando il campo prima di un match-ball a proprio favore.
Ma a vincere fu Pinochet
di Sergio Giuntini
È stata l'unica vittoria italiana nella
prestigiosa gara internazionale.
Ma il fatto che si tenne in Cile, nel terzo anno dell'era del
dittatore Pinochet, provocò polemiche, fece schierare
contro numerose forze politiche, intellettuali, ecc. E mise
in luce le ambiguità del PCI. Gli azzurri parteciparono
e vinsero indossando una maglietta rossa.
Recentemente l'editoria ha dato alle stampe ben tre lavori relativi
alla Coppa Davis vinta dall'Italia quarantuno anni fa. Sei
chiodi storti. Santiago 1976, la Davis italiana di Dario
Cresto-Dina. 1976, Storia di un trionfo. L'Italia del tennis,
Santiago e la Coppa Davis di Lucio Biancatelli e Alessandro
Nizegorodcew. Coppa Davis 1976 una storia italiana di
Lorenzo Fabiano. Tre testi dignitosi, impegnati nel difficile
tentativo di mantenere in equilibrio il piano agonistico dell'evento
e quello del contesto nel quale si realizzò quel famoso
e celebrato successo tennistico italiano. Più d'impianto
giornalistico-narrativo i primi due, di taglio maggiormente
storico il terzo. In questo spazio, ritornando su quella Davis
italiana, cercheremo di riportarne alla memoria soprattutto
la dimensione politica interna.
L'impegno generoso e combattivo espresso da alcune componenti
della società italiana per impedire che la nostra nazionale
tennistica prendesse parte alle gare di finale a Santiago del
Cile e, nel contempo, i repentini cambiamenti di rotta che il
PCI compì nella fase d'avvicinamento alla finale cilena,
indebolendo irrimediabilmente il “Fronte del No”.
Sconfitta nel 1960 e 1961 dall'Australia, l'Italia del tennis
unicamente nel 1976 riuscì a iscrivere il proprio nome
nell'Albo d'Oro della Davis. Un successo estremamente difficile
non tanto sotto il profilo tecnico quanto per il “dove”
fu ottenuto.
Dopo aver eliminato Polonia, Jugoslavia, Gran Bretagna e i “maestri”
australiani a Roma (3-2), gli “azzurri” si trovarono
a dover affrontare in finale a Santiago la “sorpresa”
Cile, giuntavi per il forfait politico dell'Unione Sovietica
rifiutatasi d'incontrare i tennisti del dittatore Augustin Pinochet.
In quest'ottica pertanto anche per l'Italia quella Coppa Davis
divenne una questione politico-diplomatica assai complessa.
Da un lato, adottando lo stesso comportamento dell'URSS, si
sarebbe obiettivamente danneggiato lo sport nazionale privandolo
d'un possibile prestigioso alloro; dall'altro, boicottando l'evento,
si potevano delegittimare a livello internazionale i militari
golpisti che l'11 settembre 1973 avevano rovesciato il governo
del presidente socialista Salvador Allende.
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Santiago del Cile, 1976 - Paolo Bertolucci e Adriano Panatta durante la Coppa Davis |
“Significa sostenere il boia Pinochet”
Attorno al tennis prese così a “giocarsi”
nel nostro Paese una partita per la democrazia anche più
importante e decisiva, essendosi creato un vasto versante di
protesta che investì in pieno il mondo dello sport e
le istituzioni. Ad attivare la contestazione fu per prima la
sinistra extraparlamentare, e già il 30 settembre 1976
la società sportiva romana “Giovanni Castello”
- vicina alle posizioni di “Lotta Continua” - lanciò
il seguente appello che delineava i nodi del problema: “Accettare
di andare in Cile significa in questo momento sostenere il boia
Pinochet, contribuire a fare uscire la giunta dall'isolamento
[...]. Al popolo cileno non interessa l'Insalatiera ma il sostegno
e la solidarietà dei lavoratori di tutto il mondo. Mobilitiamoci
per impedire l'incontro Italia-Cile! Isoliamo anche nello sport
i paesi fascisti”.
E analogamente il popolare gruppo musicale cileno degli “Inti
illimani”, allora in esilio in Italia, diffuse questo
comunicato che incitava al boicottaggio: “Il Cile è
un falso finalista. Santiago offre la possibilità di
una povera vittoria sportiva e di un'amara Insalatiera. Noi
crediamo che non giocando in Cile la squadra italiana otterrà
una vittoria sportiva ma anche di civiltà e solidarietà
umana. Sono mani cilene che applaudiranno questo gesto, sono
mani pulite di uomini, donne e bambini che credono e lottano
per i valori che il popolo italiano difende e ha consacrato
nella Costituzione della Repubblica”.
Sotto questa spinta proveniente dal “basso”, il
movimento prese a estendersi progressivamente toccando un po'
tutt'Italia: vertici dei partiti, CONI, federazioni sportive
nazionali, forze sociali e sindacali, gli organi televisivi
e la stampa non poterono più stare a guardare, attendere
ulteriormente prima di schierarsi. Un significativo impulso
venne, il 29 ottobre 1976, dal portavoce dell'Associazione Italia-Cile
Ignazio Delogu e dagli enti di promozione sportiva UISP, CSI,
AICS che a Roma, dove si era costituito un “Comitato per
il Boicottaggio dell'incontro Italia-Cile”, annunciarono
per il novembre successivo un ampio ventaglio di manifestazioni
pubbliche.
Contrari al viaggio cileno si dichiararono pure esplicitamente
la CGIL, la UIL, la Federazione unitaria lavoratori metalmeccanici
e, con varie sfumature, quotidiani come “Tuttosport”,
“Il Messaggero”, “l'Unità”, “l'Avanti!”;
il giornalista del TG2 Giuseppe Fiori, l'attore Ugo Tognazzi,
i registi Gillo Pontecorvo - ex buon tennista - e Dario Fo,
il cantante Domenico Modugno che compose la musica e cantò
- su testo invero non indimenticabile di Clai Calleri - un brano
intitolato “Coppa Davis” nel quale erano riepilogate
le ragioni d'un eventuale boicottaggio: “La sorte della
Coppa è controversa/ c'è chi vuol che si vada
e viceversa/ io sono per il No anche se poi/ sono sportivo come
tutti Voi./ Ma purtroppo per il tennis/ e per la Coppa Davis/
un solo guaio c'è/ e si chiama Pinochet [...]/ L'incontro
Italia-Cile è solo una partita che vincere potremo/ se
resteremo qua./ Ma che facciamo? Andiamo da quel fascista/ e
gli diciam “Senor hasta la vista!”/ e poi prendendo
in mano la racchetta/ dimentichiamo tutto così in fretta...”.
Incerte sul da farsi erano “La Gazzetta dello Sport”
e la neonata “la Repubblica” che, col suo fondatore
Eugenio Scalfari, si domandava retoricamente se non fosse il
caso di porre la questione dei diritti umani oltreché
per Santiago del Cile anche per la Repubblica Democratica Tedesca
comunista. E conseguentemente arrivò a proporre un equidistante:
“Né Cile, né Berlino Est”.
Favorevoli tout court alla finale si dichiararono invece
il “Corriere dello Sport”, “Radio Montecarlo”,
Indro Montanelli e il più famoso giornalista italiano
specializzato in tennis: Gianni Clerici, il quale definiva i
contestatori “Balilla Rossi”. Allora in forza a
“Il Giorno”, egli entrò in conflitto con
il collega Giulio Signori dimettendosi dalla testata. Dimissioni
subito rientrate grazie all'intervento del direttore Italo Pietra,
che lo invitò a più miti consigli garantendogli
la presenza da inviato a Santiago. Per quanto riguardava i partiti,
la DC s'indirizzò subito verso la soluzione accomodante
seppur impraticabile del “campo neutro” trovando
un imprevedibile alleato nel giornale romano di sinistra “Paese
Sera”.
L'ondivago PCI
Sempre contrario alla trasferta rimase viceversa il PSI, mentre
un PCI “ondivago” non mostrò altrettanta
fermezza. L'atteggiamento che andò definendo “in
corsa” il partito di Enrico Berlinguer risulta tra i più
problematici da decifrare. Ricordato che la strategia berlingueriana
del “compromesso storico” traeva origine giusto
dalle riflessioni innescate dal colpo di stato in Cile, anche
alla luce di tali considerazioni si deve probabilmente inquadrare
la cautela e lo stravolgimento di linea operato dai comunisti
italiani (dopo che Giancarlo Pajetta, all'abbrivio del dibattito
nazionale, aveva ufficialmente sostenuto a nome del partito
di volere dare un <<giudizio sui generali, e far sapere
al popolo cileno che siamo solidali con lui>>) in ordine
alla partita in Cile.
A questo riguardo Ignazio Pirastu - parlamentare sardo molto
amico di Berlinguer nonché responsabile per lo sport
del PCI - nel 1996 è venuto rivelando l'intenso lavorio
sotterraneo che si ebbe nei giorni precedenti la finale: <<Pietrangeli
- disse - si stava battendo come un leone in favore della partecipazione
italiana [...]. Berlinguer ne era rimasto colpito.
Lui, Enrico, era dubbioso dall'inizio su quel boicottaggio,
ma alla metà di novembre mi chiamò e mi fece sapere
che la direzione clandestina del partito comunista cileno suggeriva
di non insistere nella campagna contro la Davis. Avevano avuto
segnali forti di una reazione anche popolare al boicottaggio,
mentre intorno a Pinochet si stava compattando un inatteso consenso
nazionalistico [...]. Queste notizie ci fecero cambiare rotta
e rimuovemmo ogni ostacolo alla partenza della squadra>>.
Tale versione trova conferma nelle memorie dell'ambasciatore
italiano a Santiago del Cile Tommaso Vergottini. Un abile diplomatico
che convinse i deputati del PCI Guido Calvi, Vittorio Origlia,
Sergio Segre a intercedere, appunto, presso Berlinguer, affinché
si desse luogo a uno “scambio” tra partecipazione
“azzurra” alla finale ed espatrio garantito a due
dirigenti del partito comunista cileno (Victor Canteros e Ines
Cornejo) e ad alcuni oppositori discendenti da emigrati italiani.
Nel merito Vergottini annotò nei suoi diari: <<È
evidente che il governo cileno ha un vivo interesse alla disputa
della finale della Davis a Santiago [....] per ovvi motivi di
immagine [...]. I dividendi che si ripromette di conseguire
saranno tanto maggiori quanto più insistente e clamorosa
sarà la campagna contraria [...], a mio subordinato parere
siamo in condizione di trarre partito da questo interesse del
governo cileno. Per esempio, un collegamento tra la Coppa Davis
e la liberazione dei detenuti di origine italiana>>. Tant'è,
producendosi in una sorta di “contrordine compagni”,
il 27 novembre 1976 - nel corso d'uno speciale del TG1 (”Nazionale
italiana in Cile?”) condotto da Arrigo Petacco con in
studio Carlo Della Vida, Orlando Sirola e Nicola Pietrangeli
- Pirastu dovette esercitarsi in questa serie di contorsionismi
verbali che preludevano all'ormai prossimo mutamento di linea:
<<Noi siamo dell'avviso che la squadra non deve andare
a giocare la finale di Coppa Davis in Cile, ma se doveste partire
saremo i primi a fare il tifo>>. Le parole di Pirastu,
che affermavano “tutto e il contrario di tutto”,
significavano di fatto qualcosa di più d'un semplice
incoraggiamento. Rappresentarono un autentico lasciapassare
che indebolì enormemente il fronte del No. Mai prima,
come in occasione di quel Cile-Italia tennistico, la sinistra
italiana - storica e non - fu tanto vicina a far prevalere nel
Paese l'idea che il boicottaggio sportivo potesse costituire
uno strumento democratico di potente pressione politica.
Ma la spiazzante mossa del PCI, il suo realismo politico coniugato
con la tradizione togliattiana che faceva del partito uscito
dalla “svolta di Salerno” una grande forza di “responsabilità
nazionale”, sparigliarono completamente i giochi togliendo
le “castagne dal fuoco” a compagine governativa,
CONI e FIT. I tre autentici beneficiari del colpo di scena berlingueriano.
Così il ministro degli esteri Arnaldo Forlani, che con
notevole “ottimismo della volontà” già
ai primi d'ottobre dava per certa l'andata in Cile, quando a
dicembre ciò si concretizzò poté opporre
alle veementi critiche provenienti dalla sinistra extraparlamentare
proprio l'alto “senso di responsabilità”
dimostrato dal PCI.
Una teoria per certi versi accolta pure dal quotidiano “Lotta
Continua”, che l'8 dicembre 1976 fornì questa lettura
politica dell'intera vicenda: <<La cosa è perfettamente
riuscita e le responsabilità di questo ricadono, in buona
parte, sul PCI [...]. Il fondo viene toccato da “l'Unità”
di oggi che così titola: “Il governo condanna Pinochet
ma lascia che si giochi a Santiago”; se le parole hanno
ancora un senso un titolo del genere significa solo voler stemperare
lo sdegno degli antifascisti offrendo come contropartita la
“condanna” verbale di un regime nazista ad opera
del ministro dello Sport e dello Spettacolo di questa nostra
Repubblica.
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Paolo Bertolucci, Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta |
“Il potere logora chi non ce l'ha”
Quello che si ricava da una simile posizione è innanzitutto
la riconferma della subalternità, senza appello, a cui
Andreotti può (peraltro agevolmente) ridurre il PCI,
e di quale sia il costo che il “governo delle astensioni”
richiede ai suoi sostenitori. Ancora una volta, e su un episodio
non certo marginale, la DC riesce a logorare il PCI e il suo
patrimonio storico>>.
L'orientamento tenuto nei confronti della finale di Coppa Davis
in Cile e le “giravolte” del PCI venivano insomma
interpretate come un riflesso indiretto della “politica
dell'astensione” con la quale Enrico Berlinguer aveva
consentito s'insediasse un “monocolore” democristiano
presieduto da Giulio Andreotti: l'inventore del celeberrimo
adagio, maliziosamente sottinteso nel pezzo citato, secondo
cui “il potere logora chi non ce l'ha”. E mentre
il 19 dicembre 1976, a Santiago, Adriano Panatta, Corrado Barazzutti,
Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli levavano in cielo un trofeo
facilmente conquistato con uno schiacciante 4-1, sempre “Lotta
Continua”, rinfocolando la polemica tutt'altro che sopita,
pubblicava in prima pagina un articolo parimenti emblematico
che rovesciava il risultato acquisito sul campo: “Chi
ha veramente vinto la Coppa Davis? Pinochet batte Italia cinque
a zero”. Ma non basta. Quella finale cilena riservò
un ulteriore colpo di coda. Adriano Panatta, che professava
idee di sinistra vicine al Partito socialista, volle lasciare
un segno almeno simbolico su quell'incontro con un gesto obiettivamente
provocatorio. Un intento che, nella sua biografia scritta con
il giornalista Daniele Azzolini, il tennista romano ha spiegato
così:
<<Il doppio ebbe una sua storia. Fu il match della maglietta
rossa. Fresca di bucato, attillata come andavano allora, con
il marchietto dello sponsor italiano ben in vista; ma rossa,
decisamente rossa. Si sarebbe potuto dire, “sin troppo
rossa”. Terminai la vestizione quasi di soppiatto in un
angolo dello spogliatoio, poi mi parai d'improvviso davanti
a Bertolucci, seduto poco distante intento agli affari suoi.
“Eh?” gli feci [...] dai il massimo. Mettitela anche
tu”. “Io? Sei matto”. “Ma è una
provocazione, no? Sai le facce che faranno?” [...]. Fra
le tante note contrapposte di quelle giornate così particolari,
la maglietta rossa fu a suo modo la sintesi, forse originale,
magari banale, dei miei pensieri, del mio stato d'animo. Vado,
provoco, vinco. Il rosso non era davvero il colore di moda in
quei giorni, nel Cile dei fautori di Pinochet, di chi ricordava
il presidente Allende ucciso dal golpe [...]. Da quel punto
di vista fu un colpo da matto, un'evidente provocazione, e Bertolucci
non aveva del tutto torto. “Se ci va bene, ci sparano.
E se ci va male, non lo voglio neppure immaginare”. Andò
bene, e nessuno ci sparò.>>
Folle o calcolato, impegnato o goliardico che fosse quel gesto
“panattiano” continua a far discutere, come quella
vittoria che, a distanza di oltre quarant'anni, resta una
delle pagine più controverse e dibattute nella storia
del tennis e dello sport italiani.
Sergio Giuntini
Azzurra e anarchica:
ricordi di una tennista
di Monica Giorgi
L'opposizione alla partecipazione italiana alle
partite in Cile, per protesta contro il regime di Pinochet.
Il dialogo con Adriano Panatta.
E quando nel 1972 giocò in Sudafrica con una maglietta
antirazzista e fu sospesa per due anni dalle partite internazionali.
E quella volta che sul punto di vincere contro Lea Pericoli
depose la racchetta, le lasciò la vittoria e fu “accusata”
di lesbismo.
Ricordi di un'azzurra di tennis, oltre quarant'anni fa. Anarchica.
Allora e ora.
Fu una delusione quando nel 1976 l'Italia di Coppa Davis perse
l'occasione di non partecipare alla finale di Santiago per aggiudicarsi
il prestigioso trofeo. L'Italia lo vinse confermando i pronostici
che la davano nettamente favorita sulla squadra cilena. Il campo
decretò un inequivocabile 4 a 1: così, per la
prima e fino ad ora unica volta, l'Italia tennistica inscrisse
il proprio nome sull'insalatiera d'argento. Ma tutto l'evento
decretò altresì un riconoscimento di legittimità
alla criminale e sanguinaria giunta militare di Pinochet.
Avevo discusso animatamente con l'amico campione Adriano Panatta,
che si dichiarava socialista, per dissuaderlo a partire e convincerlo
del valore incommensurabile di una partita non giocata in quel
contesto, rispetto ad una prevedibile vittoria senza obiezioni
che quel contesto riconosceva.
Le cose andarono come andarono e una maglietta rossa indossata
da Adriano durante il match finale non diradava la nebbia della
delusione. Non tanto verso l'ambiente del tennis, risaputo ricco,
palesemente attaccato ai suoi privilegi e intrinsecamente pervaso
da quell'aria di superiorità che il privilegio istituito
consente, quanto verso l'amico, campione indiscusso e acclamato.
L'interesse del giocatore di tennis professionista aveva prevalso
in gran parte sul dilettante socialista d'opinione. L'amico
restò tale e tale restò la più contrariata
delle delusioni.
Che pretesa! - dico oggi. Perché allora non mi capacitavo
all'idea che la cosa giusta da fare in tal frangente non fosse
quella che io mi aspettavo e che avrei fatto senza ombra di
dubbio, se fossi stata al posto dell'amico campione. Oggi quella
contrarietà si è dischiusa in un'intelligenza
dell'altro da sé meno intemperante.
Quei tempi, a metà circa degli anni '70, combaciavano
con i più belli della mia carriera di tennista e, non
per caso credo, con i più intensi del mio impegno politico
da anarchica innamorata. Che sono tuttora, ma con anima più
meditativa, di compiuta settantenne, rispetto all'abbagliante
ardore di quella focosa giovinezza in cui ero immersa e resuscitata
nell'irruzione gioiosa del femminismo. Era Il personale è
politico del movimento delle donne a starmi a cuore, ad
attrarre la mente.
Per questo riservavo assai poca attenzione alle posizioni assunte
dai partiti e dagli organismi di potere. Ai loro opportunismi
di potere preferivo confutare in presenza, discutere, confliggere
con amiche, amici e perfino nemici purché in presenza,
a faccia a faccia e non lasciare alla ragion di stato la competenza
simbolica che si guadagna nei contesti viventi.
Ricordo ora come allora Giorgio Napolitano quando, alto esponente
del partito comunista, non disse una parola, dico nemmeno un
accenno velato di umana pietà, per il suicidio di Jan
Palach – il giovane si dette fuoco come atto estremo di
protesta all'invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1969.
Il futuro presidente della Repubblica italiana seppe giustificare,
da rigoroso politico di stato, la presenza dei carrarmati sovietici
secondo i calcoli di un preciso equilibrio territoriale delimitato
dalla cortina di ferro.
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Roma, Foro Italico, 1970 - Monica Giorgi agli Internazionali |
Due paia di piedi, bianchi e neri
Di questo volevo ragionare, dell'efficacia del sottrarsi in
atto e senza pretesa di farne modello, ma scommessa su cui puntare.
In realtà, mi ero già messa alla prova dei fatti
in due competizioni tennistiche datate proprio intorno a quegli
anni: a Johannesburg nel '72 durante la Federations Cup l'analoga
femminile della Coppa Davis e in occasione dei Campionati italiani
del 1971, disputati sui campi dell'aristocratico circolo delle
Cascine a Firenze.
Furono due gesti diversi nei modi ma non per sostanza –
sapere effettivamente fino a che punto avrei accantonato me
stessa, per l'altra cosa che mi batteva in cuore.
“No al razzismo” sottoscriveva l'immagine di due
paia di piedi, bianchi e neri, in equivocabile posa d'amore,
stampata sulla maglietta. La indossai per giocare l'incontro
di doppio contro l'Australia sul campo centrale della capitale
sudafricana. In pieno regime di apartheid, il mio sguardo si
soffermò sul settore riservato alle black people;
tra me e loro qualcosa fu avvertito, qualcosa ci attraversò.
Accadde pure, come era prevedibile, che la Federazione sudafricana
inoltrasse alla Federazione italiana tennis, e suppongo attraverso
quella Internazionale, un rapporto riguardante il mio comportamento.
Scattò la squalifica: per un periodo non inferiore ai
due anni mi fu vietato di partecipare a competizioni nazionali
e internazionali, sia individuali che a squadre perché
indegna di rappresentare l'Italia tennistica.
Beh, ne fui orgogliosa. Non avrei mai potuto vincere contro
l'Australia, ma volevo giocar bene. Le disparità tennistiche
con le avversarie erano insormontabili e giocar pulito a quel
punto mi fece intravedere la miniatura di una coppa inossidabile...
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Lea Pericoli e Monica Giorgi alla fine degli anni '60 |
Gandhi, l'amore, “le palline di Lesbo”
Istintiva e d'acchito, l'altra prova fu meno ragionata, più personale e politica: rinunciare ad affermarsi.
Così, sul 5-3, 30-15 a mio favore nel terzo, decisivo set, a due punti per aggiudicarmi l'incontro di semifinale con l'avversaria e amica di sempre, pluricampionessa italiana, riconosciuta e ricordata nel mondo del tennis come la divina, contro la quale non avevo mai vinto in singolare, uscii dal campo. Rinunciai ad una quasi certa vittoria che non avrebbe aperto, nel caso di averla realmente portata a termine, l'orizzonte di possibilità di mettere al mondo altro da sé. Si sarebbe parlato e scritto sulla stampa sportiva di un risultato a sorpresa e la cosa sarebbe finita lì.
In verità mettermi alla prova dei fatti conservava qualcosa di molto vicino al dover fare la cosa giusta. C'era un insaputo che premeva: che effetti avrebbe sortito la rinuncia? Ebbi guadagni simbolici e materiali inaspettati.
Dai titoli dei giornali emerse qualcos'altro dal “chi ha vinto e chi ha perso” con i soliti, per quanto specialisti, commenti su una partita di tennis giocata. Emerse nella forma del fraintendimento - la verità è sempre un po' più in là e al di qua del punto assodato. Si ispira a Gandhi per protestare meglio, scrisse il Corriere dello Sport; Per amore si ritira la Giorgi, titolò il Guerin Sportivo. E non mancò la patinata rivista pornografica, di cui ho dimenticato il nome, con un più che allusivo Le palline di Lesbo.
Ricavai dei soldi dall'amministrazione editoriale della rivista perché ritirassi la denuncia nei suoi confronti. I soldi mi servivano e fui ben contenta di prenderli. Resi noto però, chiarendo e precisando con la cerchia di amiche e amici, compagne e compagni di ideale, mio riferimento politico privilegiato, il senso di quella denuncia. Non mi sentivo offesa dall'allusione lesbica, ma dalla fallocratica intrusione consumistica con cui proditoriamente e in termini sessisti veniva fissato quel segreto che non ha nome...
Guido Oddo, telecronista ufficiale dell'epoca, mi interpellò in presa diretta, con l'intenzione di mettermi in imbarazzo, attraverso un perentorio: «Non credi di aver sfavorito l'altra finalista che incontrando te avrebbe avuto più possibilità di aggiudicarsi il titolo di quante non ne abbia con Lea Pericoli?» «Per il fatto stesso che esisto e respiro sto togliendo dell'aria anche a te», dissi e me ne andai disinvolta.
Sono andata fuori tema. Ma come raccontare oggi le circostanze di quei tempi vissuti e ancora così vivi di una Davis tutta da perdere?
Monica Giorgi
Leggere la coppa Davis 1976
A.
Panatta con D. Azzolini, Più diritti che rovesci.
Incontri, sogni e successi dentro e fuori dal campo,
Rizzoli, Milano 2009, pp. 119-121.
S. Giuntini, La “Davis” italiana del 1976,
in Aa.Vv., Sport e società nell'Italia del 900
a cura di S. Battente, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 2012, pp. 233-245.
L. Biancatelli, A. Nizigorodcew, 1976, storia di un
trionfo. L'Italia del tennis, Santiago e la Coppa Davis,
Lit Edizioni, Roma 2016.
D. Cresto-Dina, Sei chiodi storti. Santiago 1976, la
Davis italiana, 66tha2nd, Roma 2016.
L. Fabiano, Coppa Davis 1976 una storia italiana,
Edizioni Mare Verticale, Grancona 2016.
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