dibattito società
Meticciato cibernetico
di Andrea Papi
Siamo sempre più immersi in un sistema di vita ipertecnologico, che avanza con una tale velocità che fatichiamo a percepirlo. Secondo il nostro collaboratore, questo cambia in profondità il senso e i modi della nostra prospettiva rivoluzionaria libertaria. È un processo irreversibile, con il quale ci si deve confrontare. Senza nostalgie luddiste.
Il mondo è ormai sommerso dall'incessante avanzare di una tecnologia elettronica sempre più sofisticata. Tutti noi “comuni mortali”, pur avendone una percezione minima, ne siamo comunque subissati. Per deliberato autoritarismo o per auto/esclusione siamo appositamente lasciati fuori da quel gioco di potere avvolgente, intricatissimo reticolato invisibile, che sottende all'immenso intreccio elettro/tecno/cratico del web, la rete per eccellenza che ci vorrebbe perennemente interconnessi per riuscire a controllarci e dirigerci al di là delle nostre percezioni e volontà. Per quanti sforzi possiamo tentare di fare, siamo sempre più invischiati e, giorno dopo giorno, stiamo perdendo pezzi di autonomia. Avvisaglie in tal senso ci giungono quotidianamente.
In America ci sono chiari segnali che non funziona la strategia per difendere i posti di lavoro, tanto strombazzata da Trump sia durante la campagna elettorale sia da quando si è insediato come presidente. La minaccia di tassare con dazi esosi le industrie che si vorrebbero trasferire in altri stati, dove il lavoro costa molto meno che in patria, provocando disoccupazione, in effetti non fa espatriare le produzioni, a danno però dell'occupazione al di là delle aspettative trumpiane. I soldi destinati alla delocalizzazione, infatti, vengono investiti in robotica e automazione, a spese della manodopera tradizionale. “Il problema è generale (...) l'agenzia Reuters diffonde un'indagine della PwC fra i chief executive americani, secondo cui l'80 per cento delle aziende Usa che vogliono tagliare gli organici hanno l'intenzione di sostituire uomini con robot, computer, intelligenza artificiale (...) l'occupazione umana viene minacciata e distrutta più dall'automazione che dalle delocalizzazioni nei paesi emergenti ... alla fine ci saranno meno posti di prima (...) bisogna ridurre i costi, per essere competitivi” (Federico Rampini, “la Repubblica”, 30 marzo 2017).
Anche in casa nostra sta prendendo piede una simile prospettiva, seppur molto più contenuta. La piccola e lenta ripresa economica che ha cominciato a prospettarsi nel nostro disastrato “belpaese”, considerato dai più la “cenerentola” dell'occidente industrializzato, sembra irrimediabilmente segnata da caratteristiche molto simili a quelle americane. “Nel primo trimestre dell'anno gli ordinativi, grazie alle misure Industria 4.0, sono aumentati del 22,2 per cento sul mercato interno (...) ma proprio questa tendenza ha un riflesso preoccupante: se venisse confermata nei prossimi mesi si profilerebbe una ripresa senza creazione di posti di lavoro (...) oggi le imprese sembrano guardare più alle macchine che agli uomini (...) le aziende si ristrutturano, introducono nuove tecnologie e il vecchio capitale umano non è più utilizzabile” (Roberto Petrini, “la Repubblica” 3 maggio 2017).
Salti di qualità
L'invadenza tecno/elettronica che stiamo subendo ha più
di un aspetto portatore di mutazioni qualitativamente incidenti,
in alcuni casi particolarmente inquietanti. Almeno per chi aspirerebbe
a un'emancipazione libertaria. È notizia del 7 aprile
2017 (Andrea Tarquini su “la Repubblica”) che la
svedese Epicenter, che fa soldi ospitando migliaia di aziende
di information technology e startup, ha proposto, su base strettamente
volontaria, un trattamento molto particolare. Una siringa con
un microago inietta in pochi secondi, tra il pollice e l'indice,
un microchip non più grande di un chicco di riso.
Da quel momento non sei più lo stesso: con quel microchip
puoi timbrare il cartellino, aprire porte, azionare stampanti
e computer, pagare la spesa avvicinando la mano a un lettore,
oltre a renderti potenzialmente reperibile ovunque. Soprattutto
ti permette di interagire direttamente con le macchine dell'azienda.
Inizi così a trasformarti volontariamente in uomo/cyborg.
Da rilevare che già nei primi giorni ci sono state 150
entusiaste adesioni operaie volontarie.
Il 23 aprile, sempre su “la Repubblica”, è
uscita un'intervista a Bryan Johnson, fondatore e ideatore di
Kernel, una startup hi-tech che lavora a impianti cerebrali
per integrare l'intelligenza umana e quella artificiale. “L'intelligenza,
in tutte le sue forme, è la risorsa più grande
e potente esistente nell'universo conosciuto (...) è
alla base di ogni nostra attività (...) dalla naturale
simbiosi tra l'intelligenza umana e quella artificiale passa
il futuro dell'umanità (...) il primo passo è
aiutare chi soffre di patologie neurologiche come Alzheimer,
Parkinson, epilessia e depressione, mentre nel lungo termine,
il nostro focus sarà mettere a punto piattaforme e strumenti
che ci aiuteranno a incrementare le nostre capacità cognitive
ed esplorare le potenzialità umane”. Una visione
avveniristica e futuribile, che ha già in atto diverse
applicazioni. Fra l'altro sta mettendo a punto un piccolo chip
da impiantare nel cervello, disegnato per acquisire, interpretare
e modificare i segnali elettrici generati durante l'attività
cerebrale, al fine di consentire una comunicazione diretta tra
noi e i computer.
C'è
un salto di qualità in questa azione strutturalmente
invasiva della sfera antropologica che ha potenti risvolti socio/politici.
Mentre la sinistra, in totale agonia, si sta scannando sui propri
fallimenti, la protesta sociale non riesce a superare il limite
di sfogare la propria rabbia e l'opposizione in generale, limitandosi
a snocciolare lunghe sequele di denunce della conduzione del
potere, ha ormai smesso di porsi seriamente il problema di proporre
alternative all'esistente, i nuovi sistemi di dominio, al contrario,
stanno approntando le utopie che ci ingloberanno. Usufruendo
di questa tensione di trasformazione ipertecnologica, hanno
preso in mano il cambiamento come elemento determinante del
divenire delle cose, occupandosi proprio di gestire la tensione
utopica che una volta era prerogativa della propensione rivoluzionaria.
La personalità elettronica degli automi
A 65 chilometri da Seul sta sorgendo in tempi record la nuova avanguardia in costruzione della dimensione socio/spaziale del futuro in divenire: Songdo, la città dell'utopia tecnologica. Una smart city (città intelligente) che si estenderà su circa 600 ettari strappati al Mar Giallo da Gale International, gigante americano delle costruzioni, pensata progettata e attuata come spazio sperimentale totalmente interconnesso, dove i movimenti di ogni individuo verranno raccolti e catalogati da potentissimi server in agguato costante. All'apparenza la tecnologia superinnovativa applicata si mostrerà al nostro servizio, supplirà automaticamente alle incombenze quotidiane e sarà rispettosa dei parametri ecologici. In realtà saremo noi al suo servizio, super controllati dal nuovo orwelliano “grande fratello tecnologico”, che ci programmerà la vita verificando che seguiamo “felicemente” il “meraviglioso” percorso predisposto per noi.
All'inizio di quest'anno, nel gennaio 2017, il Parlamento Europeo ha votato sul tema dei diritti per i robot (2015/2103 INL) dando via libera a norme che regolano la “personalità elettronica” degli automi, etica del lavoro e codice sociale in cima alla lista. Con 17 voti favorevoli, 2 contrari e due astenuti, si è dato il via libera all'estensione di alcuni diritti alle macchine, nella figura di ciò che viene chiamata “personalità elettronica”. Si tratta del primo passo di un iter che porterà alla formulazione di una carta dei diritti pensata per coprire diverse tematiche, che vanno dalla responsabilità dei robot in alcune occasioni (per lo più incidenti), perfino all'analisi etica di certi comportamenti, che vedono gli automi anche possibili vittime di bullismo da parte degli umani. Le istituzioni stanno creando nuove legislature per proteggere il capitale automatizzato da sabotaggi “umanoidi”.
Negli stessi giorni in cui veniva diffusa mediaticamente questa notizia è circolata l'informazione che Bill Gates, fondatore e presidente onorario di Microsoft, sta proponendo di tassare i robot, l'automazione in genere, le aziende che li costruiscono e quelle che li installano, perché sono i nuovi mezzi di produzione che stanno sostituendo la manodopera operaia in via d'estinzione, per destinare questi fondi ai sussidi della gigantesca disoccupazione che si sta creando. Non farlo significherebbe lasciare completamente gratis un larghissimo margine di guadagno ai profitti capitalistici, dilatando al massimo le diseguaglianze sociali già di per sé insopportabili. C'era bisogno di uno degli uomini più ricchi al mondo, un superprivilegiato, per sollevare un tale problema? Avrebbero dovuto farlo i sindacati proletari, che forse lo avrebbero posto in un modo più rispondente ai bisogni sociali.
Questi sono solo alcuni, quelli che ritengo particolarmente rilevanti, dei tantissimi aspetti della mutazione di cui siamo protagonisti consumatori. Un passaggio a tutti gli effetti epocale, da una condizione esistenziale incentrata sull'uomo ad una che ha come epicentro una sistematica mescolanza in divenire tra uomo e macchina. Un intreccio tra componenti umane e componenti robotiche. Una specie di “meticciato cibernetico”, in cui stanno acquistando progressivamente prevalenza gli ingredienti tecno/informatici. Tutto ciò non può non avere grandi rilevanze in ogni campo e ambito che ci riguarda, da quello politico a quello economico e sociale.
Mutazioni profonde
Innanzitutto dobbiamo tener conto che la robotica tecno/elettronica è qualcosa di diverso e molto più complesso della robotica meccanica ipotizzata nella prima metà del secolo scorso. Una macchina è comunque sempre una struttura su cui si può intervenire, il cui comportamento dipende dalle leggi della meccanica. La si domina, la si dirige e la s'imposta. Ben altra è la situazione con ingegneria e tecnica elettronica, che realizzano sistemi e apparati hardware sofisticati, impostati in modo tale che non si può intervenire se non eseguendo percorsi informatici predisposti. Con essi l'essere umano non può che avere un rapporto di dipendenza e adeguamento. Per come è impostata, l'elettronica di cui fruiamo crea subordinazione, mettendoci in una condizione di grande dipendenza di fronte agli strumenti tecno/informatici che dobbiamo usare.
La massiccia invadenza tecnologica che stiamo subendo è così destinata a determinare mutazioni profonde, perché crea distacchi ancora più grandi e abissali tra chi conta e chi no, tra chi ha e chi non ha, tra chi incide e chi subisce. Due mondi separati tra i quali praticamente non c'è più possibilità di contatto, mentre le distanze assumono dimensioni oltre quelle spaziali. La tecnologia infatti viaggia in rete e si muove nell'etere in modi per noi invisibili. Riusciamo a captarne i movimenti soltanto con strumentazioni adeguate attraverso simboli iconici che appaiono negli schermi dei computer, dei tablet, degli smartphone. Si tratta di astrazioni, di simboli visivi funzionali a renderci leggibili le risultanti di quei movimenti invisibili, che altrimenti non comprenderemmo e non saremmo in grado di seguire. Inoltre, con l'intelligenza artificiale, che è la capacità degli automi di elaborare e comprendere autonomamente e ha già diverse applicazioni, l'indipendenza delle macchine da noi e di converso la nostra dipendenza da loro progrediscono di giorno in giorno.
Sarebbe inefficace tentare di contrastare semplicemente attaccando o rifiutando. La diffusione di cellulari, smartphone, pc e quant'altro è sempre più massificata in tutto il mondo e non sembra esserci una volontà dal basso generalizzata che rifiuti quest'inarrestabile processo o ne saboti l'uso. Il luddismo, che all'inizio del XIX secolo si propose di sabotare e distruggere le macchine dell'industrialismo avanzante, non appare oggi praticabile se non da un'esigua minoranza totalmente ai margini. Fallì allora e fallirebbe adesso.
C'è inoltre una questione ineludibile: la tecnologia che ci viene propinata è anche portatrice di un immenso patrimonio di saperi e conoscenze che, come tutti i saperi, è potenzialmente indirizzabile in maniere differenti, addirittura opposte, da quelle ora impiegate. Come già Bookchin aveva ipotizzato nel 1965 (Post-scarcity anarchism) non bisognerebbe più porsi esclusivamente come reazione di contrasto, ma cominciare a pensare di agire per la diffusione e la condivisione di questi saperi estesi a tutti/e, lottando con determinazione perché uso e applicazione delle nuove tecnologie cessino di essere mezzi di oppressione e sfruttamento, cominciando invece a pensarli e costruirli come strumenti del benessere collettivo e individuale, oltre che della tutela dei contesti e dei territori.
Andrea Papi
www.libertandreapapi.it
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