Sul gommone del Capitano
Daniele Sepe e la sua ciurma
Una barca si aggira per il golfo...
Una barca si aggira per il golfo di Napoli come lo spettro
che si aggirava per l'Europa. È una barca pirata eminentemente
musicale, ma non è di certo l'Olandese volante (anche
perché - come scherzava mestamente Woody Allen - “ogni
volta che ascolto Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia”).
Si tratta di un vascello, anzi nello specifico del grosso gommone
di un musicista italiano, napoletano, proletario, buffone e
incazzato, insomma di un pirata moderno: si tratta del “Capitan
Capitone” e della sua ciurma “I fratelli della costa”.
L'apparenza - quando suonano dal vivo - è scalcagnata,
rappezzata, caotica: un palco invaso da cantori e strumentisti...
ogni tanto trionfa una voce per un minuto, abbozza una romanza,
ma subito un coro viene a sovrastarla, un motto di spirito la
schernisce, una presa per il culo, una “jastemma”
la ridicolizza. Non c'è modo si star seri su quella barca,
anche se il gioco di fondo è serissimo: qui si gioca
alla rivoluzione, e lo si fa suonandola.
Il pubblico si diverte, si sbraccia, si sporge, il palco è
così affollato e ribollente che c'è l'impressione
che si perda il confine fra musicanti e pubblico. E in effetti
si perde, perché il pubblico canta assieme ai musicisti,
che invece a volte si perdono per un (calcolato?) gioco teatrale.
È evidente che sul palco ci siano dei professionisti
che conoscono il loro mestiere, ma è anche evidente che
in quel momento tirino a dimenticarselo e farsi prendere dal
gioco. Si sfiora qualche momento di pura goliardia, si intonano
cori e facezie - “Lota, lota” che pare a Napoli
sia il non plus ultra dell'insulto, per il fonico che comprensibilmente,
in tutto quel bordello, si è perso un'entrata e non ha
aperto un microfono - ma è proprio allora che il Capitano
in persona, che era seminascosto nel mezzo, si affaccia sul
proscenio e tira un pistolotto iper-politicizzato da vero “cattivo
maestro” del “bel tempo andato” sulle lotte
operaie perse fra la movida e lo spritz... Chi lo direbbe che
quel pazzo con bandana e Ray Ban a goccia è un genio,
un ormai maturo enfant prodige della musica italiana?
Chi lo direbbe che questa è la più recente personificazione
di Daniele Sepe?
Daniele Sepe (il Capitano) mi dice: il pretesto è quello
di raccontare una storia buffa che però è una
specie di “ritratto di lotta di classe”. Il problema
è che, fino a quando io ho fatto dischi para-militanti
- perché non vanno mai letti solo sotto il profilo della
militanza - parlavo sempre allo stesso pubblico: un pubblico
in qualche misura già acquisito, con cui non è
necessario usare l'escamotage della buffoneria, di certa cialtronaggine,
però correvo anche il rischio di diventare retorico.
Invece per riuscire a mascherare le questioni serie e importanti,
devi ricorrere innanzi tutto alla commedia, infatti la prima
persona che a me viene in mente quando penso a questi due dischi
è il regista Mario Monicelli, che nei suoi film parlava
di argomenti importanti e arrivava a tutti, al contrario di
quei pallettoni di Antonioni, che se li andava a vedere
solo l'intellettuale di sinistra...
Come il sassofonista divenne prima autore e poi capitano
Dovremmo dare per scontato che in Italia non c'è bisogno
di parlare di Daniele Sepe... ma mo' faccia finta di niente
e in tre righe vi rinfresco la memoria. Daniele, classe 1960
e diploma in flauto al conservatorio, ha esordito a soli sedici
anni partecipando a uno dei dischi più importanti degli
anni '70 “Tamurriata dell'Alfa Sud” degli 'E Zezi:
che nel catalogo “sacro” dei Dischi del Sole e per
il folk italiano fu una rivoluzione che comportava che anche
parlando di morti sul lavoro e storie operaie si potesse (e
forse si dovesse) ridere e ballare.
Turnista di pregio per la pagnotta e autore di album ambiziosi,
fra il progressive e il jazz, la sua creatività è
un marchio che s'imprime su tutta la fucina napoletana degli
anni '90, a metà dei quali comincia a non essere più
solo un artista rispettato, ma diventa ambito da registi cinematografici
e teatrali, mentre generosamente si spende per ogni dove. I
suoi album cominciano ad alternare una facondia compositiva
degna di Frank Zappa (da sempre suo ispiratore) con una sorta
di riproposizione ragionata del canzoniere ribelle internazionale,
ricomposto con gusto, ironia e follia. Con questi repertori
torrenziali gira concentricamente per l'Italia, suona ovunque,
partecipa e appoggia lotte e rivendicazioni.
Il suo talento nessuno osa discuterlo, ma la radicalità
dei suoi discorsi gli attira più di una noia e gli fa
rompere qualche rapporto: celebre a un certo punto una diatriba
violenta contro Roberto Saviano e i suoi sostenitori. Daniele
è tanto creativo quanto virulento e, trascinato dalla
foga, ha la polemica facile, tanto che - nel mio piccolo - anch'io
mi sono guadagnato più d'una stoccata da lui.
Pazienza, da un genio questo ed altro... così, quando
qualcuno m'ha fatto presente che sarebbe stato importante prima
o poi parlare dei suoi dischi su questa rubrica non mi sono
tirato indietro, ma ho detto «sicuro che a lui faccia
piacere?», «questo è il numero, telefonagli».
«Ale', come stai, sei a Napoli?» rispose lo sciagurato
come se nulla fosse «ci mangiamo qualcosa assieme? se
vuoi domani io suono, vieni a trovarci!»
Dai “Fratelli della costa” a “I parenti della sposa”
Daniele Sepe - Io penso che parlo sempre delle stesse
cose, racconto sempre le stesse storie che riguardano la distanza
fra la giustizia e la legge, che guarda caso è anche
l'argomento della pirateria o quello di Robin Hood. Gli eroi
popolari son sempre stati dei fuorilegge, nessuna canzone popolare
è dedicata allo Sceriffo di Nottingham. L'argomento mi
sta a cuore, come sta a cuore a qualunque anarchico, perché
la bandiera nostra deriva, almeno simbolicamente, dal Jolly
Roger, quindi per me è la metafora di una sorta di Primissima
Internazionale della Storia, fatta da gente di razze diverse
e religioni diverse, la prima bandiera che ha sventolato sulle
lotte operaie e anche la prima occupazione di fabbrica, perché
occupare la nave è occupare la fabbrica. Però,
per la loro connotazione grottesca, quella dei pirati è
anche una storia divertente.
Alessio - E anche questo è un tuo marchio compositivo,
però sia il primo disco del Capitone che questo secondo
non sono più opera tua e di un gruppo di collaboratori
fissi, ma piuttosto di una più trasversale banda di artisti
dell'area napoletana, tutti attivi in proprio, che, coordinati
da te, collaborano a questo progetto. Dalle copertine è
sparito il tuo nome e campeggia solo quello di “Capitan
Capitone”.
Daniele - Il primo disco è nato per gioco. Ho
mollato il gommone a novembre, non avevo un cazzo da fare, e
così ci siamo chiusi dieci giorni in studio senza avere
nulla di pronto, per scrivere le canzoni là, tutti insieme.
Tutti noi facciamo musica da una vita - chi da diec'anni, chi
come me da più di quaranta - e mi ero reso conto che
molti di loro avevano una presa enorme sulla città: i
Foja o La Maschera sono gruppi fortissimi, che magari fanno
anche 5.000 persone a serata, Claudio Gnut ha un pubblico che
lo segue e lo ama... Il problema è che in tutto questo
spappolamento, in cui la questione territoriale si è
chiusa in se stessa, queste realtà al di fuori della
città non hanno riscontro, siamo in una situazione un
po' medievale: fra le mura della città sei il re, fuori
dalle mura sei uno straccione qualsiasi. Noi abbiamo approfittato
del fatto che io, venendo da un'altra generazione, ho un nome
spendibile a livello nazionale e ci siamo messi assieme per
vedere di fare una cosa che provasse a rappresentare unitariamente
una buona parte di ciò che viene fatto a Napoli.
[A questo punto mi sono rivolto al resto della “ciurma”
che gozzovigliava fra le prove e il concerto]: e dunque pensate
di aver prodotto una buona sinfonia dei rumori della città?
Tutti - «Sì, la cosa esiste!»
Alessio Sollo - [Onestamente io non lo conoscevo, ma
sono rimasto colpito dalle sue poesie ironiche e malinconiche
che, con grande musicalità, sposano “l'aria 'mbarsamata”
di Di Giacomo a un mondo popolato di reietti della società
e dell'amore... poi però sul palco con la ciurma questo
delicato poeta si trasforma in un emulo del punk e sbraita senza
maniche, invasato dallo spirito dei Clash, nda]. Anche
dal punto di vista dei rapporti umani, negli ultimi anni tutte
le situazioni musicali si erano un po' isolate. Questo progetto
multiforme ci ha dato molto di più della musica, ci ha
dato il senso dello stare insieme, del preoccuparci reciprocamente.
Domani esce il disco di Tartaglia? Siamo tutti dietro a lui,
a preoccuparci, darci una mano. Questa cosa era impensabile
qualche tempo fa, si è interrotta la sensazione che la
musica fosse stare ognuno nel suo orticello.
Daniele - Una volta fatto 'sto disco quello che ci ha
stupito è che, in brevissimo tempo, alcuni pezzi come
“Le range fellon” sono entrati nell'immaginario
dei bambini. Io mi son ritrovato, ai primi concerti del Capitan
Capitone, con torme di bambini che venivano vestiti da pirati
a cantare le canzoni a memoria, compresi i vari turpiloqui!
Mi ha fatto proprio piacere, perché con questo progetto
pensavo di raccogliere le tante cose che avevo fatto, invece
mi sono trovato a seminare. L'altro giorno poi siamo andati
a fare un'intervista in TV, e una giornalista - che credo avesse
letto il comunicato stampa dove c'è scritto che il matrimonio
del Capitano si trasforma in una sorta di esproprio proletario
- forse senza rendersi conto, ha ripetuto “esproprio proletario”:
chissà da quanto tempo questi termini non venivano detti
in televisione. Di nuovo m'ha fatto piacere.
Dal Capitone a Sepe e ritorno
Nel frattempo mi pare che tu, Daniele, abbia ripreso anche a fare il jazzista, con un importante progetto con Stefano Bollani?
Daniele - Il jazz l'aggia sunà pe' forza perché suono 'stu cazz 'e sassofono: se avessi suonato la chitarra elettrica avrei fatto l'heavy metal e mi sarei divertito molto di più! Mo' è un anno che collaboro con Bollani, ed è una bellissima esperienza, con onestà devo anche dirti che era un po' di tempo che collaboravo con collettivi musicali in cui, per estrazione, studi ed età, ero il più preparato, invece in questa esperienza mi sono ritrovato con gente che suona meglio di me, quindi ho dovuto ricominciare a studiare lo strumento: niente di meglio per ringiovanire a 57 anni.
Ma quel linguaggio, il primo amore della tua formazione, possiede ancora dei codici almeno linguisticamente rivoluzionari? E il pubblico che lo ascolta con quale spirito viene?
Daniele - No, no, quella è una battaglia persa, ormai il jazz è totalmente istituzionalizzato, è cambiato totalmente il mondo, dagli anni di Archie Sheepp, di Mingus, delle black panthers, di quello che mi appassionava da ragazzino... Oggi non è proprio più così: il jazz è diventata una musica “perbene”. Però con Bollani, che è una persona che condivide con me molte visioni non solo musicali, ci fermiamo e, a metà del concerto, io faccio per 10 minuti un comizio su quella che è la storia del jazz, quindi mi trovo di fronte un pubblico borghese e gli racconto che quelli che sono i loro eroi - Bessie Smith, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, Lester Young - erano ricottari [magnaccia], puttane, drogati, alcolizzati «noi stiamo suonando musica magnifica creata dal sottoproletariato urbano» dico «così, quando oggi viene Keith Jarrett e vi dice che non dovete accendere una sigaretta o fotografare, dovete ricordarvi che quella musica è nata nei bordelli e, per quanto lui sia un grande, dargli fuoco al pianoforte!».
Alessio Lega
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