Un disco che non c'è
Vi segnalo un disco che non c'è. C'è una storia,
c'è del materiale scritto, ci sono canzoni, ci sono persone
che hanno lavorato con amore a raccogliere pezzi e rimetterli
insieme. Non è un disco, ma non importa: lo metto qui
dentro lo stesso. Sarebbe sbagliato restare zitti, aggiungere
silenzio.
Il mio 25 aprile quest'anno l'ho passato in una sala pubblica
di Chioggia, il paese dove sono nato. Moira Mion e Gualtiero
Bertelli, sul palco, raccontavano la storia del Cencio Fófe,
papà della zia Erminia e nonno del Meme mio cugino, e
del Barenon – un cason da pesca (una casa comune piantata
in secca nel mezzo della laguna di Venezia, base per le barche
e l'allevamento degli avannotti). Insomma, è venuto fuori
che il Cencio in Barenon nascondeva chi dalla guerra scappava.
Un toco de polenta e un fià de minestra per i ragazzi
disertori e per altri ragazzi partigiani, un riparo per una
famiglia ebrea in fuga dall'orrore.
Anche a casa mia si sono raccontate press'a poco le stesse storie:
mio nonno deportato a Klagenfurt, la casa di Chioggia abbandonata
per paura dei bombardamenti, un viaggio avventuroso in carretto
e in barca verso Boccasette, sul delta del Po. Mia mamma mi
ha raccontato spesso dei suoi incontri di bambina con ragazzi
disertori in fuga, con gente disperata cui la guerra aveva portato
via tutto, coi partigiani silenziosi - ricordava una carezza
dolce sulla testa, una stella appuntata sul bavero, il fucile
strappato via ai fascisti.
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Cencio con altri pescatori del Barenon |
Il papà di Meme e il mio erano fratelli nati a distanza
breve che hanno condiviso le difficoltà della vita in
paese, strappati troppo presto dai banchi di scuola e poi costretti
all'emigrazione per il lavoro negli stabilimenti di Marghera.
La loro una vita con i figli piccolissimi da crescere in un
ambiente estraneo a soli sessanta chilometri da dov'erano nati,
una distanza che adesso appare irrisoria ma che non lo era affatto
alla fine degli anni Cinquanta, quando soltanto chi poteva permetterselo
girava in bicicletta e non c'erano tante corriere in giro. Si
sono ritrovati scaraventati nel mondo nuovo di una città
vorace che stava mangiandosi la campagna crescendo velocemente
di case, strade e ondate migratorie.
A volerla dire tutta, i due fratelli hanno condiviso anche il
destino di finire sotto terra prima del tempo, tutt'e due malati
di malattie che fino a prima del processo del Petrolchimico
non si osava chiamare per nome, eredi anche loro come tanti
altri compagni di lavoro di un'eredità di morte portata
dai lunghi anni di convivenza proprio con quelle sostanze chimiche
che, stando alla réclame, avrebbero invece dovuto portare
un'eredità di progresso e benessere e schei a Mestre,
a Marghera e all'Italia intera.
La mamma di Meme, per lui e per voi “la Popi“ ma
per me “la zia Erminia“, era molto amica della mia:
come i mariti avevano avuto destini simili, studi interrotti
perché bisognava dare una mano in famiglia, il mestiere
di casalinghe svolto col sorriso ma inghiottito in silenzio
come un boccone amaro, anni e anni di lavoro nero in casa (la
zia a montare pezzi di lampadari, mia mamma a impirare perle)
per procurarsi quegli spiccioli necessari per il pane e il latte
di tutti i giorni.
La storia che Meme racconta cammina all'indietro: parte dai
quaderni dove la zia Erminia negli ultimi anni annotava ricordi
e aneddoti - sapete, quelle schegge di passato che ti si conficcano
dentro con l'età. In un mucchietto di pagine la zia aveva
raccolto come una specie di documentario personale sul Novecento
che lei aveva attraversato. Solo lei poteva organizzarsene delle
proiezioni riservate ed esclusive, lei protagonista piccola
di una storia minima divisa tra la calle e la barena: la sua
era una famiglia di pescatori di sopravvivenza - orate branzini
e bisati per il mercato a Venezia, restava il mangiare dei poveri,
schile moeche anguele e marsioni sono diventati solo di recente
cibo ricercato per le tavole dei signori.
Quella che adesso si identifica come povertà, nelle nostre
famiglie è sempre stata cosa normale. Cosa normale invece
non erano i fascisti, che a Chioggia sono riusciti a distruggere
violentemente la giunta municipale e le organizzazioni dei lavoratori
per mezzo di persecuzioni, ferimenti e devastazioni. E cosa
ancora meno normale erano i soldati tedeschi.
La guerra è costata al paese centinaia di morti, di dispersi
in battaglia e di feriti, migliaia di senzatetto e di sfollati
a causa dei bombardamenti. Opporsi ai fascisti era pericoloso:
la famiglia Baldin è stata sterminata per aver dato ospitalità
ad alcuni soldati alleati, eppure lo si faceva, ciascuno resisteva
come poteva, offrendo una solidarietà spontanea, silenziosa,
fatta seguendo l'istinto.
Moira e Gualtiero qualche sequenza di quel documentario privato
sono stati capaci di ricostruirla, ce l'hanno mostrata con tutta
la delicatezza e il rispetto possibili. La storia del Cencio
e del Barenon è stata un pretesto per riflettere, per
stringere mani, per abbracciarsi in un giorno speciale dove
si festeggia una liberazione di tutti costruita attraverso la
liberazione di ciascuno.
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Nuovo Canzoniere Partigiano |
Marola
Se siete di quelli convinti che oggi 2017 un nuovo anzi Nuovo
enne maiuscola Canzoniere Partigiano sia cosa noiosa o ridicola
e inutile, vi dico che avete torto e vi invito a smettere di
leggere. Cambiate pagina, dai.
Questo mese vi racconto di un gruppo di ragazzi vicentini che
riescono a portare dell'aria nuova a questo 25 aprile: gli hanno
regalato un respiro giovane, una luce che fa bene al cuore.
Un disco così, sebbene breve (o forse, proprio perché
breve – ti resta in bocca voglia di berne ancora) aggiunge
alla festa della Liberazione dal fascismo un significato particolare.
Sei canzoni soltanto, registrate in presa diretta e tutte passate
per il cuore prima di trasformarsi in canto e suono. In mezzo
c'è una canzone non tradizionale che hanno scritto loro,
partigiani di oggi, a ricordo di un eccidio ad opera dei soldati
tedeschi avvenuto tra le loro colline: una storia arrivata qui
ed ora nel racconto di chi c'era, di chi ha visto, di chi non
è capace di dimenticare né di lavarsi via tutto
il sangue dai ricordi.
“Con queste canzoni vogliamo provare ad avvicinare i giovani
di oggi ai coetanei di allora per salvaguardare un pensiero
di giustizia e libertà, un germoglio di condivisione
e impegno civile“ – dicono. Anch'io trovo sia importante
mantenere vivo il ricordo: certo questi ragazzi non possono
avere vissuto l'esperienza diretta del fascismo, ma come me
(anch'io nato a guerra finita) se lo sono ritrovati come polvere
nera e amara mescolata al pane nei discorsi in famiglia.
Polvere nera e amara mescolata anche al nostro nutrimento preferito
di ventenni: la musica. Quando avevo vent'anni c'era chi cantava
sopra i palchi che non c'erano né sogni né futuro
– canzoni simili senz'altro piacevano ai nuovi padroni
che, per convincerci meglio ci hanno allontanati dalla piazza
a spintoni e poi a manganellate e poi a gas lacrimogeni e pallottole
sparate ad altezza d'uomo. A volte hanno usato anche le bombe.
A volte ce l'hanno fatta. Altre volte no.
Voglio abbracciarvi e ringraziarvi uno a uno Silva, Andrea,
Francesco, i due Alberto e Maurizio. Vi chiedo: non smettete
di cantare, tenete duro. Le vostre voci, quella polvere nera
riescono a mandarla via.
Contatti: cercateli su bandcamp e via facebook. Nota conclusiva,
giusto per ribadire che i confini tra gli stati non servono
a tenere rinchiusi i pensieri: il ricavato della diffusione
del disco contribuisce a finanziare il progetto “Un ospedale
per il Rojava“ (www.mezzalunarossakurdistan.org/un-ospedale-per-il-rojava/).
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Lalli e Stefano Risso - la copertina del cd |
Un tempo, appena
Quella di “Un tempo, appena“ è una Lalli
come non la conoscevamo ancora. Anzi no, non è così:
c'è come una scia di profumo dolce, una traccia sottile
che abita l'aria di queste canzoni e scatena i ricordi in una
corsa all'indietro, facendomi riflettere e prendendo piano piano
coscienza che no, Franti non è affatto cosa di ieri.
Ascolto e capisco che i vecchi discorsi vecchi non lo sono affatto:
che il tempo passa sì ma lo si vive comunque –
un po' spostati, come dentro a un'illusione, qualcuno, altri
ancora come una condanna, un cancellarsi di rassegnazione un
pezzetto alla volta ogni giorno.
Dentro a queste canzoni facce ben conosciute, dita che suonano
e voci che cantano da una vita intera. Nessun sogno, nessun
futuro: che bugia terribile ci avevano raccontato. Ecco un sogno
nuovo ed ecco, del sogno di allora, un futuro possibile. Questo
progetto è una dimostrazione concreta che la strada non
finisce, che non si smette di andare, di andare, non importa
se avanti o in un'altra direzione. Che non si smette di cercare
e ricercare, di imparare, raccogliere, sperimentare, scambiare
e stupirsi.
Lalli e Stefano Risso collaborano dai tempi di “All'improvviso
nella mia stanza“ (2002), e con questo lavoro insieme
spostano decisamente il modo di costruire canzoni. Lo spostano
in avanti, e lo spostano di lato – è come una mossa
imprevista sulla scacchiera, una mossa mai tentata prima. Hanno
attraversato una porta aperta tra il dove si era prima, e un
altro posto ancora tutto da mappare.
Stefano è partito dal solo suono del contrabbasso lavorando
di fantasia e intraprendenza, registrandone la voce e poi manipolandola
fino ad ottenere un ambiente sonoro dove quasi non se ne avverte
più il suono originale. La curiosità come cibo
come l'aria come benzina, vediamo dove si va ora, non a seguire
ma a disegnare un sentiero tra l'erba nel bosco, verso una cima
che non si vede ma sì, lo sai che c'è, là
in alto, più su.
Lalli aggiunge a queste musiche i testi e la sua voce per far
arrivare ciascuna canzone ad una casa inaspettata. Una maniera
nuova per accoglierci, per raccontare le storie e le emozioni
che ci attraversano, nel nostro essere e nel nostro tempo. Non
racconta di sé: lei prende le parole che hai dentro e
le dispone in forma di magia.
Ricca di sonorità bizzarre ed inconsuete, questa è
un'opera coraggiosa e sorprendente, libera di una libertà
grande, gioiosa, esagerata. A momenti si piange di commozione,
come se si fosse ritrovata inaspettatamente in fondo a un cassetto
una fotografia di tanti anni fa. A fine disco resti a guardarti
le mani e non sei più arrabbiato con questo tempo che
passa, mai stanco, inevitabile, sempre sordo ai tuoi richiami.
Una versione di questo disco è uscita qualche tempo fa
su vinile per l'indie inglese Black Cat Records; il cd raccoglie
altri cinque pezzi ed è realizzato da stella*nera in
collaborazione con Silentes, Dethector e le edizioni Bruno Alpini.
I piloti non devono morire
Il titolo viene da un'osservazione amara. Autunno 2014, il pilota francese di F1 Jules Bianchi è vittima di un incidente in corsa. I mass media si precipitano a darne notizia nelle prime pagine. Negli stessi giorni un gruppo di giovani partigiane Curde cade in combattimento a Kobane contro l'Isis, ma questa notizia viene completamente ignorata.
Il libro è una collana di momenti di rabbia, di disperazione, di incazzatura totale. Parole come pietre, come bastonate, come pallottole, come schegge, come fuoco. Parole che si trasformano in stormi d'uccelli neri ad oscurare il cielo. Parole come presagi urlati a volume infinitamente più alto di quello del televisore.
Il libro è pioggia di parole che dura una notte intera, a ingrossare fiumi, ad agitare onde, ad alimentare infiltrazioni, a provocare frane dentro in testa.
Giuliano Bugani è operaio di fabbrica, di cinepresa e di penna – autore di documentari controversi. Questo è il suo secondo libro di poesie, ed esce con la complicità del solito ed imprendibile Bruno Alpini.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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