terremoto
Lo scuotimento dell'antico
di Francesca Palazzi Arduini
Terremoto e spopolamento dei territori. Un'analisi di lungo periodo sulle conseguenze delle recenti scosse sismiche. E del modo in cui lo Stato ha affrontato problematiche vecchie e nuove.
Il sisma che ha colpito l'Abruzzo
e L'Aquila nel 2009 e poi le scosse del 2016, che hanno profondamente
lesionato molti paesi rurali degli Appennini di Lazio e Marche,
sono eventi spesso presentati dai mass media come cause di “svuotamento”
dei piccoli centri abitati di quelle zone. In realtà,
purtroppo, l'evidenza delle condizioni di scarsa manutenzione
degli abitati, proprio per questo pesantemente colpiti, sottolinea
una situazione di spopolamento dei territori come fenomeno già
da tempo presente, che ha radici antiche, e del quale il terremoto
è l'ultimo atto.
Spopolamento che inizia con le migrazioni dei contadini e proletari
italiani di un tempo, e prosegue col migrare dei disoccupati
di oggi verso le coste, i grandi centri urbani, italiani e non.
Proprio per questa onda lunga, la parola d'ordine in bocca a
tecnici e politici, “ricostruzione”, se non ripensata
come atto di coscienza delle cause dello spopolamento, difficilmente
può portare ad un arrestarsi delle partenze.
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Amatrice (Ri), 30 settembre 2016 - Gaetano, pompiere casertano,
passeggia tra le viuzze secondarie del paese (Foto
di Matthias Canapini) |
“Svuotare le coste e riportare le persone sulle montagne”,
scrive Franco Arminio1, “la
genesi delle nuove comunità” c'è chi titola
sulla stampa per celebrare l'arrivo dei boscaioli rumeni e delle
pastore etiopi sulle montagne del Casentino e del Trentino.
Riflessioni e articoli che vogliono confrontarsi con la parola
“comunità”, come fosse possibile ricrearla,
mentre il panorama politico pianifica un sempre minor peso delle
periferie rurali. Prova ne è la montagna (appunto) di
complicazioni burocratiche creata agli stessi abitanti delle
zone terremotate, che hanno patito un inverno di impotenza organizzativa
disastrosa per sé e le proprie piccole realtà
contadine.
Rurale, dal latino rus: campagna. Se si guarda una mappatura
delle aree rurali italiane, quelle più a rischio di estinzione
sono proprio quelle situate sulla colonna dorsale del Paese.
“Qui parlo di Sud, ma il tema dello spopolamento non è
il tema del Sud, è il tema delle montagne”, scrive
Arminio. Eppure nel centro Italia è anche l'entroterra
collinare a subire il colpo. Lo ha confermato sin dalla fine
degli anni Novanta un dossier molto ricco di dati, il “Rapporto
sull'Italia del disagio insediativo, 1996/2016” che indica
i piccoli Comuni sotto i cinquemila abitanti come protagonisti
del progressivo spopolamento: è vuota, come minimo, una
casa su tre. In alcuni comuni sono vuote oltre la metà
delle abitazioni. Nelle Marche sono 45, il 18,8% dei comuni
a rischio spopolamento, ma in altre Regioni è anche peggio:
Molise, Calabria, Sardegna, Basilicata, Abruzzo, e poi anche
Campania, Umbria, Piemonte, Liguria. Una strage cui solo alcuni
piccoli centri, turistici e fortemente caratterizzati, resistono.
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Amatrice (Ri), 30 settembre 2016 - Veduta della strada principale del paese. In piedi è rimasto solamente il campanile (Foto di Matthias Canapini) |
Realtà e paesaggi bucolici (degli spot)
Eppure, ad esempio nella mia regione, le Marche, la superficie
agricola utilizzata, SAU, nell'entroterra è altissima
e offrirebbe molte possibilità di sussistenza locale,
se non fosse che il modello agricolo è completamente
cambiato a causa dell'industria alimentare.
Si tratta di un antico e ora tecnologico metodo di predazione.
Nelle Marche la dimensione delle aziende agricole è perciò
aumentata nel tempo da otto ettari a dieci ettari. Nella nostra
provincia, Pesaro e Urbino, le piccole aziende familiari di
dimensione sino a due ettari sono diminuite di quasi la metà
in soli dieci anni, quelle di dimensione sino a dieci ettari
sono diminuite di oltre il venti per cento, ed anche quelle
da dieci a trenta ettari sono diminuite del quattordici per
cento; un valore niente affatto trascurabile che segnala l'abbandono
di pratiche colturali artigianali in favore della concentrazione
in mano ad aziende più grandi in grado di creare un'economia
di scala, e trarre utili anche se il prezzo della materia prima
è bassissimo.
Sentirete parlare, in spot pubblicitari campagnoli, dei “nostri
piselli”, dei “nostri pomodori”, delle “nostre
mucche” ritratte come bestie felici, brade, con sfondo
agreste. La realtà, invece, anche quella “cooperativa”,
è molto meno vicina ai paesaggi bucolici degli spot.
È la realtà di un'economia latifondista tecnologizzata,
passata dai mezzadri ai “terzisti”, con l'eccezione
dei presidi di agricoltura biologica che restano però
uno spigolo e debbono confrontarsi con lo sfruttamento del territorio
in forme industriali anche per altri aspetti: territori spopolati
come siti ideali per localizzare discariche, inceneritori, cave
e cementifici.
Che l'Italia sia “il giardino d'Europa” è
un detto che si potrebbe trasferire alle realtà rurali
come “giardino delle città”, un giardino
che serve però ad appoggiare il pattume, far pisciare
il cane, e solo saltuariamente scattare una foto e fare una
grigliata.2
Anche la struttura di potere fiscale sui territori, col Patto
di stabilità, si è modificata: oggi resta molto
meno ai cittadini di quanto si paga in tasse, e ciò che
arriva è pesantemente finalizzato ed indirizzato (come
nel caso del ritorno in contributi per lo sviluppo dell'UE)
a politiche preconfezionate, gestite in accordo col potentato
amministrativo regionale.
In sostanza: solo il tre per cento delle entrate delle province
resta sul territorio.3
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Il rapporto sull'Italia del disagio insediativo lancia l'allarme sullo spopolamento nei municipi sotto i 5mila abitanti: “In 25 anni un residente su sette se n'è andato. Due anziani per ogni giovane. Vuota una casa su tre” |
Dinamiche virtuose e clientelismi
Dalle province sono state trasferite alla regione molte attività
per le quali la gestione sul territorio permetteva maggiore
autonomia decisionale (strade ex Anas, formazione professionale
e lavoro, trasporto pubblico locale, protezione civile, difesa
del suolo, fiumi e torrenti minori, agricoltura, caccia e pesca
nelle acque interne, edilizia pubblica, servizi sociali, beni
e attività culturali, turismo) in settori politicamente
strategici per il consenso. Alla provincia invece, nonostante
il taglio netto dei finanziamenti, resta la responsabilità
di provvedere a settori quali la rete e l'edilizia scolastica,
le strade provinciali (gestione e manutenzione), l'ambiente
(ma VIA e VAS passano in regione), l'urbanistica, l'assistenza
tecnico amministrativa agli enti locali.
È stato da subito possibile notare un degrado dei servizi
per la completa assenza di investimenti che sarebbero necessari
proprio per scongiurare l'abbandono dei piccoli centri dell'entroterra:
impossibilità di affrontare emergenze neve o dissesto
idrogeologico, frane di cinte murarie prive di manutenzione,
frane di strade (nella mia provincia, ad esempio, sono censiti
oltre 628 chilometri quadrati di aree soggette a frana), emergenza
freddo negli edifici scolastici, collegamenti bus medievali,
crisi idriche estive, bracconaggio, scarsissimo controllo delle
nocività ambientali.
Il volontariato e la sussidiarietà sociale sono per questo
molto presenti sui territori già da prima dei terremoti,
perché fare le cose “gratis” ormai è
l'unica soluzione in comuni senza soldi; anche in questo caso
si creano sia dinamiche virtuose che clientelismi, questi ultimi
rendono la “comunità” ancora più chiusa
e impermeabile a necessarie contaminazioni culturali.
“L'Italia interna ha bisogno di persone, deve trovare
e incoraggiare le persone che contengono avvenire.” E
invece sentite spesso parlare sulla stampa di piccoli paesi,
le classiche quattro case, che inscenano proteste per l'arrivo
di ospiti profughi: la paura del tracollo di un equilibrio già
corroso dalla senilità, dall'isolamento, è altissima
e tramanda xenofobia, e la xenofobia la creano le stesse scelte
politiche di chi pubblicamente si fregia di combatterla.
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Percentuale di comuni montani con meno di 10.000 abitanti con presenza di disagio sul totale dei comuni montani con meno di 10.000 abitanti
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Comunità ruscello e comunità pozzanghera
Ricordiamo anche che lo Stato ha proposto, mentre orchestra di privatizzare ogni servizio pubblico (in primis acqua, gestione rifiuti e sanità), un bonus per i piccoli comuni: più finanziamenti in cambio della fusione in agglomerati nei quali le spese amministrative siano ridotte all'osso. Ma meno burocrati non significa una visione meno burocratica delle politiche territoriali.
In Italia tra il 2009 e il 2017 si sono fusi o sono scomparsi 122 comuni. E molti altri spariranno. Sui comuni fusi cadranno contributi, re-immissioni di quelli della pedagogica UE, con una pedagogia basata sul grande sviluppo industriale al quale i progetti per l'Italia rurale fanno da contorno, con poco più dell'undici per cento di “agricoltura biologica” (di varia qualità) sul terreno rispetto a quella chimica.
Non è un caso che in molti piccoli comuni si viva ancora della vicinanza a imprese nocive alla salute; l'Italia rurale diventa terreno di accoglienza per ciò che alla città serve. I colonizzatori si presentano con specchietti e perline, per farci passare il tempo: il termoriscaldamento per gli inceneritori, i marciapiedi nuovi pagati dai cavatori, le sale multimediali coi video dei mulini bianchi.
Così, quando leggo nei forbiti Piani strategici di sviluppo che il comune si doterà di un'aula didattica per i giovani del paese “fornita di una stampante 3D”, penso di nuovo alle parole di Arminio sulla capacità di vivere la realtà: “Ci sono servizi inutili e lavori che non servono a niente. Bisogna partire da chi c'è in un certo luogo e da chi potrebbe arrivare. E allora ecco che si ragiona su certi servizi e su certi lavori. Magari in un paese serve un barbiere, non serve un centro di documentazione per lo sviluppo locale”.
C'è, anche secondo me, la necessità di capire cosa veramente ci appartiene come valore, in una sorta di basicità, di frugalità, di semplicità: “I paesi devono produrre cibo di altissima qualità, i paesi vanno concepiti come farmacie: aria buona, buon cibo, silenzio, luce”.
C'è l'importanza del riflettere sul valore principale, le relazioni. C'è il desiderio comune, ce ne accorgiamo perché seppur distanti pensiamo le stesse cose, di essere capaci di creare nuovi equilibri: “Ci vuole una comunità ruscello e non una comunità pozzanghera”, per andare verso una società diversa da quella in cui “un quintale di grano costa meno di un shampoo dal parrucchiere”.
Queste riflessioni segnano una linea del dubbio, un punto di domanda che segue per tutta la vita chi abita i territori spopolati o dello statistico “disagio insediativo”, una linea che percorre sotterranea le teorie sulla Decrescita come quelle della Transizione, le attività di Genuino clandestino di oggi come quelle del primo biologico e biodinamico italiano: come possiamo far stare assieme buone abitudini e tradizione al di fuori di un modello patriarcale, e sfuggire proficuamente alla retorica della politica?
Alle scosse da sotto terra possiamo rispondere con l'emersione di queste domande, alla frantumazione proviamo ad opporre una visione d'insieme.
Francesca Palazzi Arduini
- Franco Arminio, poeta e scrittore, vive a Bisaccia, un piccolo
paese in provincia di Avellino; dal suo blog, comunità
provvisorie, sono anche tratte le frasi che troverete
in chiusura dell'articolo. In particolare del “paesologo”
Arminio ho tratto frasi da “Appunti per chi si occupa
di sviluppo locale”.
- La battuta è di Alessandra Daniele, che trovate con
le sue “Schegge taglienti” su carmillaonline.com.
- Il dato proviene dalla Assemblea dei presidenti di Province,
febbraio 2017.
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