Carceri/
La “giustizia riparativa”
Uno strumento diverso, apparentemente meno coercitivo, è
quello denominato “giustizia ripartiva”. Questa
idea di giustizia si basa sull'idea della “reintegrazione
della vittima e del reo”, partendo dall'idea dell'irreparabilità
dell'ingiustizia e la creazione di nuove relazioni di fiducia.
La giustizia ripartiva mira quindi a un rincontro della persona
condannata con la persona che ha subito il danno, sottolineando
come questo riavvicinamento non possa essere compensativo o
sostitutivo del danno fatto, ma che possa creare nuove relazioni
umane tese a un reinserimento della prigioniero nella società.
I documenti di studio di questo processo individuano fasi e
strumenti su cui si basa la giustizia ripartiva. È utile
vederli sinteticamente per avere ben chiaro finalità
e metodologia si questo nuovo strumento del mondo carcere.
Le
fasi:
1) Partecipazione del reo, della vittima e della comunità
alla soluzione del conflitto.
2) Riconoscimento della vittima e riparazione dell'offesa.
3) Autoresponsabilizzazione del reo.
4) Coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione.
5) Consensualità delle parti coinvolte.
6) Confidenzialità della mediazione.
7) Volontarietà dell'accordo tra le parti
In altre parole la giustizia ripartiva mira a una forma di autodenuncia/ammissione
della propria azione, un'azione che viene svuotata di qualsiasi
carattere di analisi sociale o politica ma che, in quanto portatrice
di un danno arrecato a terzi, viene assunta in quanto tale;
quest'assunzione di “responsabilità” avviene
da parte del prigioniero in un percorso di dialogo con la vittima
(o chi per lui, come vedremo) e la comunità territoriale
di riferimento. Se colpa ho, allora devo necessariamente riconoscere
la mia vittima che non diventa solo chi direttamente colpito,
ma tutta la comunità di riferimento.
L'accento posto da questo progetto sulla dimensione “umana”
e dialogica che si viene a istituire depoliticizza tutti gli
aspetti insiti nel carcere, riduce il fatto alla sola dimensione
dell'individuo che, sempre da individuo, chiede perdono della
propria colpa. Un processo pericoloso perché annulla
la dimensione di classe che sta alla base del carcere, perché
annulla la dimensione di conflittualità e perché
rafforza l'idea che ogni processo è individuale, ogni
“reato” è solo un danno dove vi è
un colpevole e una vittima.
La società basata sullo sfruttamento è cancellata
anche dal lontano sfondo di questo teatrino. La storia del “reato”
è una storia individuale, quella del prigioniero che
si riavvicina alla vittima è storia di singoli, nessuna
dimensione collettiva, nessun legame tra l'azione e il contesto
socio-politico di riferimento. E quali strumenti si adottano
per la messa in scena di quest'opera del falso? Il progetto
di giustizia riparativa ne individua alcuni:
1. La mediazione tra autore e vittima.
2 .Le scuse formali.
3. Incontri tra vittime e autori di reati analoghi: in questo
caso, dunque, quando non è possibile l'incontro tra reo
e vittima reali, si organizzano degli incontri tra il reo e
vittime di reati simili, che hanno suppostamente vissuto una
medesima situazione.
4. Incontri di mediazione allargata, estesi ai parenti.
5. Gruppo di discussione con moderatori.
A questo si aggiunge una ridefinizione del lessico durante questi
incontri dove i prigionieri diventano “ospiti” della
struttura detentiva e i secondini “operatori/assistenti”.
Un linguaggio che lava la sua facciata conflittuale per mettere
in scena la finzione del carcere come luogo della riappacificazione
dei confitti sociali e del perfetto reinserimento del prigioniero.
Ovviamente oltre a queste belle parole, vi è da tenere
in considerazione i primi effetti già visibili dell'applicazione
di questo progetto. I detenuti che ne prendono parte iniziano
ad accedere con maggiore facilità ai pochi benefici che
il carcere concede, assumono sempre più la logica della
propria colpevolezza e della necessità di vivere il carcere
come una giusta pena. Si crea così un'ulteriore differenziazione,
un'ulteriore spaccatura nel corpo detenuto che ha come suo obiettivo
quello della frammentazione del sociale e della prevenzione
di ogni forma oppositiva e conflittuale verso il sistema di
ingiustizia che ingabbia.
In sintesi, questo strumento mira a: far accettare il concetto
di “giustizia”; confinare il fatto a un rapporto
tra reo e vittima dove lo Stato sparisce, relegando il tutto
a un piano di “ordine sociale” senza alcuna dimensione
politica; spaccare il corpo detenuto tra chi accetta questa
via, ottenendo qualche beneficio, e chi no e viene ulteriormente
isolato.
Anche in questo caso siamo al momento in una situazione di sperimentazione,
tra cui troviamo il nuovo carcere di Nuchis (uno delle nuove
strutture costruite con il Piano carceri) che da qualche anno
porta avanti questo progetto insieme alla cittadina di Tempio,
denominato “ristorative city”, la città della
redenzione e della riappacificazione.
È tuttavia necessario, proprio perché ancora in
forma sperimentale, analizzare questa pratica che, ammantata
da una patina umanitaria e sociale, rischia di diventare un
importante strumento di annichilimento delle lotte.
Laura Gargiulo
Fest“A” 2017/
Colpa di Vasco?
Colpa dei Rossi. Come a Kronstadt 1921 e a Barcellona 1937.
Allora erano state le armate bolsceviche e poi quelle staliniane
a mettersi di traverso al procedere della rivoluzione libertaria.
Lo scorso 1° luglio è bastato un Vasco Rossi in concerto(ne)
nella vicina Modena a metterci in difficoltà con la nostra
festA 2017, programmata nella consueta Casa del Popolo “Cucine
del Popolo” a Massenzatico, frazione di Reggio Emilia.
La temuta paralisi del traffico (in parte avvenuta la sera precedente)
non c'è stata il sabato, ma le notizie diffuse anche
dai Tg di venerdì sera hanno fatto sì che un certo
numero di persone, che ci avevano segnalato la loro venuta,
ci abbiano scritto per disdire. Ci siamo ritrovati in una settantina.
Positivi i due dibattiti dopo le relazioni di Carlotta Pedrazzini
su Emma Goldman e l'anarco-femminismo e di Paolo Finzi sul pensiero
anarchico di Fabrizio De André; conviviale la cena; davvero
notevole il concerto conclusivo di Alessio Lega.
C'era anche, con il suo banchetto di autoproduzioni, Federico
Zenoni (che, tra l'altro, realizza i “segnalibri”
su “A”).
Un grazie ai cucinieri del popolo e alle compagne/i reggiane/i
della Federazione Anarchica di Reggio Emilia, come sempre fraterni
e sorellerne (non si dice, ma si capisce).
|
Massenzatico (Reggio Emilia, 1° luglio 2017 - Da sin. Carlotta Pedrazzini (redazione di “A”) e Maria Matteo (Federazione Anarchica Torinese - FAI) durante il dibattito su Emma Goldman e l'anarco-femminismo |
Da segnalare una (quasi) paginata su “Il Manifesto”
del giorno prima, piena di simpatia e di rispetto per gli anarchici
e per “A”. Il giornalista Angelo Mastrandrea ha
sottolineato, tra altre cose positive, che in comune con il
“quotidiano comunista” abbiamo l'età. Tutti
e due nati nel 1971. E tutti e due ancora vivi e ormai vicini
ai 50 anni. Un'età più che rispettabile, nel campo
dell'editoria non di regime.
Sul reato di tortura/
La nuova legge azzeccagarbugli
Carmelo Musumeci è da molti anni un nostro collaboratore
fisso, con la sua rubrica “9999 fine pena mai” (presente
anche su questo numero).
A Carmelo non si può dire che manchi la voglia di
dire la sua su molte “cose”. Sulla legge sulla tortura
ha scritto una valida denuncia/testimonianza, che pubblichiamo
qui nella rubrica dei Fatti&Misfatti: in questo caso, sicuramente
un misfatto. Vediamo perché.
È stato da poco introdotto il reato di tortura, che mancava
nel nostro Codice Penale. Il nuovo articolo, 613-bis c. p.,
recita quanto segue:
Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con
crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile
trauma psichico a una persona privata della libertà personale
o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo,
cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata
difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro
a dieci anni se il fatto è commesso mediante più
condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante
per la dignità della persona”.
Qualcuno mi ha chiesto cosa penso di questa legge. Di solito,
prima di pronunciarmi, leggo, rifletto e poi scrivo. Ora che
mi sono documentato, penso sia meglio un vuoto legislativo che
una legge “azzeccagarbugli”. Infatti, secondo me,
ci sono più probabilità di scrivere una buona
norma quando ancora non c'è piuttosto che modificare
una cattiva norma esistente.
Dopo quasi 30 anni dalla ratifica della convenzione ONU e dopo
tre condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo,
l'Italia ha approvato una legge che punisce il reato di tortura.
Nessuno sembra essere contento di questa norma, ma ciò
non è una novità nel nostro paese. Quello che
mi ha fatto amaramente sorridere è che alcuni lamentano
che si tratti di una legge che criminalizza le Forze dell'ordine.
Personalmente credo che questa norma tuteli più le Forze
dell'Ordine che i cittadini.
Con questa legge lo Stato italiano può torturarti una
sola volta e non punire nessuno perché il torturato dovrebbe
dimostrare che la violenza si sia perpetrata con più
condotte. E come si dovrà comportare il giudice se venissi
torturato un'ora, un giorno, un mese, un anno con una sola condotta?
Non vorrei proprio trovarmi al suo posto... oddio, a dir la
verità, non vorrei trovarmi neppure al posto del torturato,
ma purtroppo mi è capitato spesso. Buona parte della
mia vita l'ho passata in carcere e ne ho prese tante fin dalla
prima volta che ci sono entrato.
Era l'ultimo giorno dell'anno 1972, da pochi mesi avevo compiuto
diciassette anni. Iniziò tutto all'ora di pranzo per
un piatto di patate. Quel giorno il cibo era più scarso
degli altri giorni. Alcuni ragazzi incominciarono a battere
i cancelli e a urlare: Abbiamo fame... vogliamo mangiare...
fame... fame... fame... Per solidarietà anche i miei
due compagni di cella, Nunzio e Daniele, iniziarono la battitura
al cancello. Si scatenò l'inferno! I detenuti maggiorenni
ci vennero dietro a battere e a urlare e tutti gli altri tre
piani parteciparono alla protesta. Come accade in questi casi,
quelli dei piani di sopra facevano casino senza sapere il motivo
per cui era iniziata la protesta.
Arrivò un esercito di guardie insieme al brigadiere.
Lui era il responsabile dei detenuti minorenni. Fu subito davanti
alla mia cella. Che cazzo avete da sbattere... smettetela
subito di fare casino... altrimenti vi porto alle celle di punizione.
Gli risposi male. Il brigadiere non se l'aspettava. Non
se l'aspettavano le guardie. Non se l'aspettavano neppure i
miei due compagni di cella. Prendete quel bastardo e portatelo
alle celle. Le guardie aprirono la cella. Mi presero di
peso e mi portarono fuori.
Io non feci in tempo a mettere i piedi per terra che mi trovai
in fondo al corridoio e poi nel gabbione all'entrata delle celle
di punizione. Mi scaraventarono lì dentro. Sapevo cosa
mi aspettava. Non diedi loro la soddisfazione di far decidere
come e quanto picchiarmi. Lo decisi io. Dissi: Non mi fate
paura! Poi aggiunsi: Guai a voi se mi toccate. Non
mi toccarono con un dito, ma con pedate, calci e pugni. Il primo
pugno mi colpì in bocca. Poi mi saltarono addosso insieme
e mi arrivò una grandine di pugni, calci e scarpate.
Caddi per terra. Mi picchiarono come belve. All'inizio per rabbia,
poi per divertimento. Provai a rialzarmi un paio di volte.
Quello che mi faceva più male era l'umiliazione di non
riuscire a prendere le botte stando in piedi. Ogni volta che
riuscivo ad alzarmi da terra le guardie riuscivano a picchiarmi
meglio e mi sbattevano di nuovo per terra a forza di calci e
pugni. A un tratto decisi che forse era meglio essere picchiato
stando a terra. Mi misi a testuggine con la testa appoggiata
ai ginocchi, con le gambe e le braccia piegate per proteggermi
il viso. Mi accucciai in un angolo del pavimento.
Mentre mi picchiavano, riuscivo a urlare: Vigliacchi, schifosi,
bastardi. Figli di puttana. Una guardia riuscì a
piantarmi un calcio in bocca. Mi scappò una smorfia di
dolore più terribile delle altre. Sputai sangue dalla
bocca. Per qualche secondo smisi di gridare. Il tempo di riprendere
fiato. Se avessi finito d'insultarli forse avrebbero smesso
anche di picchiarmi, ma l'istinto era più forte di me.
Iniziai di nuovo a insultarli. La rabbia mi dava la forza di
gridare.
Mi sbatterono come uno straccio da una parte all'altra della
cella. Dentro la mia testa vedevo le stelle coperte a tratti
dal sangue che mi usciva dal naso. Ad un tratto, sentii la voce
del brigadiere: Portatelo alla balilla... portate quel piccolo
bastardo alla balilla... e legatelo... se no l'ammazzo con le
mie mani. Poi le guardie mi ripresero di peso e iniziarono
a trascinarmi nella cella dove c'era il letto di contenzione.
Ne avevo sentito parlare. Ebbi paura. Non ero mai stato legato
prima. Appena vidi il lettino di ferro con le spalliere tutto
intorno ebbi paura della mia paura.
Intanto sentivo dolore in tutte le parti del corpo. Ero sfinito.
Mi afferrarono e mi misero nel letto di contenzione. Nonostante
cercassi di dimenarmi come una sardina, riuscirono con facilità
a legarmi i polsi e le caviglie. Mi crollò subito il
mondo addosso. Provai a liberarmi, ma agitarmi non serviva a
nulla perché le cinghie di cuoio ai polsi e alle caviglie
si stringevano ancora di più. Ero sconfitto e umiliato.
Le guardie chiusero la cella e se ne andarono. Stetti legato
in quel letto di contenzione per sette giorni.
Concludo con un'ultima considerazione personale su questa legge:
è stato molto difficile condannare le violenze delle
Forze dell'Ordine perpetrate a pacifici cittadini durante il
G8 di Genova nel 2001 davanti agli occhi del mondo, a giornalisti
e alle televisioni. Vi potete immaginare come sarà ancora
più difficile quando le violenze accadranno tra le mura
di un carcere o di una caserma, con una legge azzeccagarbugli
come questa appena approvata!
Carmelo Musumeci
ergastolano non più ostativo
Carcere di Perugia
Spazi/
Un laboratorio culturale
L'8 aprile 2015 un gruppo di studenti universitari occupò
uno spazio in vicolo santa Caterina – la viuzza medievale
che collega largo Richini a corso di Porta Romana, a due passi
dall'Università Statale. Nacque così LUMe, acronimo
di Laboratorio Universitario Metropolitano: uno degli spazi
più belli e interessanti nel panorama milanese delle
occupazioni, che negli ultimi anni ha sofferto di numerosi sgomberi
e difficoltà.
Nel corso del tempo, LUMe si è fatto notare soprattutto
per la ricchezza della programmazione musicale – in particolare
con dei magnifici appuntamenti di jazz il mercoledì sera,
nella straordinaria atmosfera della cripta – e per altri
progetti molto vitali. Avendolo frequentato di tanto in tanto,
mi sono deciso a fare qualche domanda più formale ad
alcuni ragazzi del collettivo. In particolare, mi interessava
l'inversione di tendenza che hanno messo in atto: pur avendo
un solido approccio politico alle questioni urbane, la loro
forza di impatto sta nell'offerta culturale. A LUMe si respira
davvero l'aria felice di un rinnovamento; e cosa più
importante, si respira aria di libertà.
Mentre saliamo le strette scale di pietra dell'ambiente, Gregorio
riassume la storia del palazzo di vicolo Santa Caterina. “Da
quanto ci risulta, nei tempi andati lo stabile fu la canonica
della chiesa, e poi un'osteria. Si dice anche che sia stata
l'Osteria della luna piena dove finisce Renzo nei Promessi
sposi”, sorride. Il dettaglio fa parte del folklore
del luogo, e sembra piacere parecchio ai ragazzi. “Nel
passato recente non sappiamo bene quali siano state le sue traversie.
Quando siamo entrati era abbandonato circa da nove anni e mezzo,
e l'unica cosa certa è che versava in una situazione
pietosa. I muri bucati, macerie dappertutto, uno spazio in pieno
abbandono”.
Sembra difficile crederlo, benché le tracce di usura
permangano qua e là: ora tutto esprime grande ordine
e cura. “L'entrata della cripta era ricoperta di macerie”,
spiega Gregorio. “E nell'ingresso posteriore c'era un
tetto di lamiera caduto”. Hanno sistemato tutto da soli,
cimentandosi nei lavori più disparati, in totale autonomia.
“Io studio Storia ma ho fatto volentieri l'elettricista”,
ride Gregorio. “Ho imparato un sacco di cose”.
Nel suo recente libro Abitare illegale, Andrea Staid
esplora le modalità informali di abitazione che allargano
e ridefiniscono il concetto occidentale di “casa”:
dai campi rom e sinti alle wagenplatz berlinesi, passando per
le classiche occupazioni urbane. Una militante milanese da lui
intervistata rivendica un'idea importante: occupare significa
anche mostrare il bello di un posto, prendersene cura ed esserne
orgogliosi. Benché LUMe non sia uno spazio abitativo
ma un laboratorio culturale, non è difficile percepire
lo stesso spirito.
Ci accomodiamo in cerchio in una stanza luminosa al terzo piano,
piena di libri, con la finestra che guarda sul vicolo sottostante.
Siamo a due passi dalla Torre Velasca e dalla Statale; ma Milano
sembra al contempo lontana e vicina. È raro vedere il
centro a quell'altezza: e una delle caratteristiche più
affascinanti di LUMe è la verticalità. Lo spazio
conta tre piani più i sotterranei dove si svolgono gli
spettacoli musicali e teatrali.
Per cominciare, mi fate il punto della storia?
Gregorio: Tutto nasce dal fu Collettivo Dillinger dell'Università
di Milano. Nel 2014, dopo un paio di mesi di lavoro nell'università,
abbiamo capito che era un po' dura comunicare con gli studenti.
Allora abbiamo pensato di occupare un posto: sia per la nostra
organizzazione, sia per creare dei contatti più stabili.
Abbiamo scelto questo spazio principalmente perché di
fianco alla Statale. Andando avanti, abbiamo iniziato a ospitare
concerti jazz, dibattiti, laboratori... Ci siamo allargati,
soprattutto prendendo contatti con la Civica di Musica, l'Accademia
di Brera e la facoltà di Scienze Politiche. Insomma,
abbiamo deciso di fare cultura per comunicare con gli studenti
universitari. Da allora il laboratorio è completamente
autogestito dai suoi componenti, che hanno partecipato attivamente
a sistemare tutte le parti dello stabile. Di nuovo, abbiamo
fatto tutto da soli e ne andiamo fieri.
Questo è un elemento molto interessante. Di solito
il processo è inverso: c'è un richiamo politico
di base, di movimento, su cui poi si innestano delle attività
culturali. Invece per voi è stato il contrario, da quanto
ho capito.
Giorgio: Esatto. Invece di dire alla gente, Vieni
e ti facciamo attacchinare manifesti, cerchiamo di trovare
un equilibrio fra l'aspetto politico e quello culturale-creativo.
Quindi le persone vengono spesso qui con una finalità
magari individuale, ma frequentare questo posto porta a generare
una forma di responsabilità ed educazione politica. Io
ad esempio sono entrato in LUMe con Pietro e Giovanni nel settembre
2015. Abbiamo un blog che si chiama Altrementi; avevamo bisogno
di uno spazio dove organizzare riunioni di redazioni e altro
– ma ci siamo fatti assorbire in fretta. Fino all'anno
scorso lo spazio veniva gestito a 360 gradi con una grande assemblea
per tutti gli eventi. A giugno 2016 abbiamo deciso – vista
l'esplosione dello spazio e l'interesse di tante persone nell'Università
– di strutturare il lavoro per tavoli. Poi ogni due-tre
mesi c'è un'assemblea plenaria.
Quali sono i tavoli e di cosa si occupano?
Giorgio: I tavoli di lavoro sono quello politico, VoLUME
(che gestisce il jazz e il progetto omonimo sulle creative commons),
LuME Teatro, LumeTeca (relativo al cinema, che ha creato un
docufilm su Shakespeare e uno sul primo anno di LuME), e infine
il tavolo artistico e di design appena nato (che si occuperà
anche della riqualificazione di alcuni spazi di questo luogo,
ancora non sfruttati al meglio). In aggiunta c'è Conserere,
un laboratorio musicale di improvvisazione estemporanea. I tavoli
peraltro si incrociano fra loro e collaborano: ad esempio quando
siamo confluiti tutti nella manifestazione C'è chi
dice no del referendum di dicembre, organizzata dal tavolo
politico.
Vi faccio una domanda da avvocato del diavolo. Questo
posto è magnifico, ma visto che è strutturato
su tre piani e un po' vecchio, non è che c'è il
rischio che ci cada addosso?
Pietro: Questi locali sono in piedi dal '600. Ma a parte
discorsi di questo tipo, c'è stato un ragazzo che ha
fatto una perizia e una tesi di laurea sugli edifici della zona
rassicurandoci sulla tenuta. Non ci sono crepe; non ci sono
segnali evidenti di pericolo. Abbiamo anche sentito amici architetti
e ingegneri: al netto delle condizioni, la struttura è
vecchia ma molto solida, anche per la presenza di un pilone
centrale. Insomma, puoi stare tranquillo.
Da amante del jazz e frequentatore dei vostri mercoledì
sera, non posso che chiedervi com'è nata l'idea di far
partire queste serate.
Andrea: LuME Jazz nasce da un'idea mia e di Federico,
un clarinettista. La sfida era di fornire uno spazio dal basso
per dare ai musicisti la possibilità di esprimersi davanti
a un pubblico davvero interessato, un pubblico autentico. Durante
gli aperitivi nessuno ti ascolta, spesso; e invece da noi nella
cripta si crea un silenzio interessato che è una condizione
ideale. Il tutto uscendo dalle logiche del circuito commerciale.
Il luogo ha condizionato
Ma perché proprio il jazz? In genere nei centri sociali si è sempre suonato punk-hardcore, ska o più di recente rap ed elettronica.
Andrea: Sì, è vero. Ma proprio questo è il punto: volevamo proporre qualcosa di nuovo. Come programmazione musicale jazz non siamo una mosca bianca a Milano, ma siamo all'avanguardia. Prima di noi, l'unico centro sociale che facesse jazz era il Pianoterra all'Isola. Inoltre siamo stati i primi a far suonare gli studenti: ecco il punto. Anche per coerenza con la nostra impostazione universitaria. Questo ha creato poi un giro più ampio, visto che gli studenti conoscono altri artisti più anziani e così via. Inoltre, anche per questioni strutturali, la nostra cripta nel centro storico non si presta a dei rave; il luogo ha condizionato anche la scelta musicale, e in effetti è perfetto per il jazz.
Gregorio: Non solo. Di nuovo, la scelta della musica è servita anche come traino per far rientrare il movimento nel mondo universitario, che dopo l'esperienza dell'Onda ha arrancato parecchio. Parlare di politica partendo dalla musica: un approccio sempre militante, diverso.
Secondo voi qual è il punto di forza di queste serate?
Pietro: Milano offre diverse opportunità culturali e professionali; ha tante accademie di teatro, scrittura, musica e così via. Quello che manca – in un momento dove il mondo del lavoro culturale e artistico è molto contratto – è proprio uno spazio dove esibirsi, dove mettersi in gioco. Uno spazio dove musicisti, attori o pittori possano crescere e confrontarsi, per fare la cosa che vogliono fare ma non possono fare altrove – magari perché c'è un pubblico disattento, o perché è una cosa organizzata da professionisti... Invece il nostro pubblico è attento e curioso.
Andrea: La cosa però non è stata decisa a priori. Il bisogno si è creato da solo strada facendo, a volte anche inconsapevolmente, a costruire il contenitore in cui tutte queste cose sono fiorite. Il luogo stesso, come ho detto, ha agito sui nostri spunti.
Pietro: Inoltre nella jam session di jazz si realizza perfettamente la nostra idea di socialità. È un gesto di collaborazione autonoma, dove ognuno fa la sua parte liberamente ma in vista di una cosa collettiva – la musica, appunto.
Sul sito del laboratorio – lumelaboratoriouniversitariometropolitano.wodpress.com
– campeggia in evidenza una magnifica citazione di Primo
Moroni. Vorrei riportarla per intero a mo' di chiusura, perché
trovo descriva benissimo quanto LUMe e altri spazi del genere
stanno cercando di fare a Milano oggi: resistenza culturale
attiva e gestita dal basso, in autonomia e libertà:
“I luoghi oggi sono determinanti, nel senso che fuori vi è un processo di sussunzione complessiva della vita e delle economie, della cultura: tutto è merce. Poi ci sono dei luoghi, invece, dove questo viene rifiutato. Io credo che questa sia una fase in cui chi ha la capacità, la credibilità, la soggettività di avere luoghi, può non tanto fare progetto esclusivamente politico, a mio modo di vedere, almeno in questa fase, quanto invece fare un'altra cosa che è strategica e indispensabile: trasformare quei luoghi in centri di ricerca, o per lo meno una parte della loro attività destinarla alla formazione e alla ricerca. Se il sapere è diventato una merce produttiva, direttamente in quanto tale, o inglobato nella macchina, nella tecnologia o nell'informazione, che è la sua estensione più grande, si devono fare di nuovo scelte esistenziali ma se la scelta esistenziale non è nutrita da una cultura sofisticata e complessa, cioè di continua produzione e autoproduzione, la scelta si limiterà a produrre solo disagio esistenziale. Dalla rivolta esistenziale all'autoproduzione del soggetto c'è un passaggio strategico che è la capacità di impadronirsi di strumenti di conoscenza diversi che permettano di decodificare, di destrutturare, di far saltare lo schema avversario: altrimenti senza questa fase di accumulazione primitiva culturale di saperi non ne viene nulla.”
Giorgio Fontana
Ma
la Digos ha spento il LUMe
Martedì 25 luglio, al mattino presto,
la polizia ha sgomberato l'occupazione del LUMe a Milano.
Un altro spazio non-allineato è stato chiuso e
(nelle intenzioni dei tutori dell'ordine e dei loro mandanti)
messo a tacere. Noi avevamo già impaginato questa
intervista agli occupanti del LUMe e abbiamo deciso di
mantenerla come segno di solidarietà con gli occupanti
e di protesta contro questo ennesimo attacco a chi fa
cultura fuori dagli schemi di regime. |
Milano, 30 maggio Casa della Memoria/
102 anarchici italiani nei lager, anzi 115, anzi... (e un'arpa magica)
Una cinquantina di persone ha presenziato, lo scorso
30 maggio, a Milano, alla Casa della Memoria, alla presentazione
della prima ricerca storica sugli anarchici italiani internati
nei lager nazisti, pubblicata nel numero di aprile 2017
della nostra rivista.
|
Da
sinistra: Dario Venegoni, Paolo Finzi, Franco
Bertolucci
(foto di Pierpaolo Casarin) |
Prima dei due anarchici, Franco Bertolucci (al microfono)
della Biblioteca “Franco Serantini” di Pisa
e Paolo Finzi della redazione di “A”, è
intervenuto Dario Venegoni, presidente dell'Associazione
Nazionale Ex-Deportati nei lager nazisti (ANED). Venegoni
ha sottolineato la necessità di proseguire la ricerca,
approfondendola, e ha stimolato Bertolucci a farsene carico.
Ha inoltre fornito notizie su altri anarchici italiani
internati, che si aggiungono a un'altra dozzina nel frattempo
“scoperta” da Bertolucci.
|
Roberta Pestalozza (foto di Pierpaolo Casarin) |
L'arpa, magistralmente suonata da Roberta Pestalozza,
e le due canzoni (una proveniente dai lager) da lei interpretate,
hanno saputo aggiungere una bella dose di sensibilità
e commozione. Quando l'emozione non ha voce, ancora una
volta la musica sa come proseguire il discorso. Alla fine,
qualche classica canzone anarchica ha coinvolto una piccola
parte del pubblico. Grazie Aned, grazie Roberta.
|
Emma
Goldman/
In Italia? Mai, ma per il regio prefetto...
Nella sua lunga vita l'anarchica lituana Emma Goldman è
stata in numerosi paesi, mai nel nostro.
Eppure un telegramma prefettizio all'attenzione del ministro
Bocchini, capo dell'Ovra - la polizia segreta fascista - segnala
che Emma Goldman tra la primavera e l'estate del 1928 avrebbe
attraversato l'oceano, dagli Stati Uniti alla Francia, “con
lo scopo di esplicare più facilmente attività
deleteria a danno del regime. Pregasi disporre attiva vigilanza,
fermo e perquisizione personale e bagagli, qualora rientrasse
Regno, informandone questo ministero”.
Chi si è occupato di storia, sa quanto i fantasmi anarchici
abbiano fatto passare notti insonni alle persone preposte alla
sicurezza del Regno. E quanti omonimi di Malatesta o di altri
abbiano avuto problemi, fermi, arresti a causa della leggerezza
con cui tanti sbirri hanno svolto il loro lavoro.
Un altro documento del 1939 (un anno prima della sua morte in
Canada) segnala Goldman nell'elenco delle “persone ritenute
capaci di commettere attentati od atti inconsulti” del
Ministero dell'Interno. Un bell'onore per chi mai pose piede
in Italia.
Grazie, per questa documentazione (trovata presso l'Archivio
di Stato di Livorno, Fondo Questura, Cat. A2, “Progetti
di attentati”, 1935-1943) a Marco Rossi, autore di numerosi
libri e (anche) nostro collaboratore.
Val Bormida/
La lotta continua
La Val Bormida non riesce proprio a trovar requie. Sovrastata da volontà politiche ed economiche nemiche, continua ad essere minacciata dalla costruzione di una discarica in zona Sezzadio che rappresenterebbe una vera e propria bomba “ecologica”, una minaccia costante alla naturale rete di origine sorgiva, riserva d'acqua della valle stimata capace di soddisfare in caso di bisogno attorno alle 200.000 persone. Da più di un lustro la popolazione è scesa in lotta decisa, sostenuta dall'impegno fattivo di numerosi sindaci e amministratori presenti nei comitati di lotta contro la discarica. Nonostante abbia messo un grandissimo impegno per far rispettare i suoi sacrosanti diritti di non essere impestata, inquinata, assoggettata, grandi interessi extra valle e potenziali business dei rifiuti incombono, minacciando i diritti e le giuste rivendicazioni dei valligiani, contrastanti con quelli di importanti politici e amministratori di zona, che invece si trovano schierati dalla parte degli aspiranti inquinatori.
Già nel maggio 2015, sul n° 398 di questa rivista (maggio 2015), con un servizio dal titolo Quel valico non s'ha da fare, avevo svolto un'ampia opera d'informazione sulla situazione della Val Bormida. Con quel servizio ci eravamo lasciati con la positiva approvazione, da parte della regione, di importanti norme attuative del PTA (Piano di tutela delle acque) che lasciava ben sperare sull'auspicata salvezza della falda acquifera naturale. Purtroppo, com'è loro costume, i sinistri affaristi contro l'ambiente hanno continuato a premere e a “convincere” i loro “sodali politici” in loco, per proseguire a tentare di impinguarsi sulla pelle degli abitanti.
Nel frattempo, proprio lo scorso 11 luglio, nel mondo della gestione dei rifiuti è scoppiato un vero e proprio terremoto giudiziario scatenato dalla procura di Brescia: 3 arresti e 26 indagati nell'ambito di un'inchiesta che coinvolge Lombardia, Piemonte e Liguria, compresa proprio anche la minacciata discarica di Sezzadio. Coinvolti dirigenti e amministratori, tra cui Rita Rossa, ex presidente PD della provincia di Alessandria, che col suo comportamento ambiguo, favorevole alla costruzione della discarica per conto della ditta Riccoboni implicata era e rimane nel mirino della contestazione politica dei comitati di lotta della val Bormida.
La questione continua dunque a non essere risolta, nonostante le denunce e la forte opposizione. Fortunatamente la popolazione continua ad opporre una strenua resistenza, con l'aumento della determinazione di lotta dei comitati. Secondo la testimonianza di Urbano e Pierpaolo, due compagni particolarmente presenti fin dall'inizio della lotta, si è verificato un aumento della partecipazione dal basso ed un ampliamento degli obbiettivi. Si è passati da una fase embrionale di movimento, che contava sulla presenza particolarmente combattiva di attivisti dei comitati sorti ad hoc, a una partecipazione più allargata, che oltre ai comitati di base e ai sindaci ha coinvolto associazioni di coltivatori, scuole ed altre agenzie territoriali.
La lotta, nel frattempo, è pure diventata un importante punto di riferimento non solo per il territorio della Val Bormida, ma ha trovato l'appoggio e la solidarietà sia del movimento NoTav della val Susa sia del NoTerzoValico; anche perché la discarica dovrebbe raccogliere rifiuti, particolarmente tossici, della lavorazione per la messa in opera del Terzo Valico, una linea in costruzione ad Alta Velocità che dovrebbe consentire di potenziare i collegamenti del sistema portuale ligure con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e con il resto d'Europa.
Ora non si contesta più solo la discarica, bensì l'intera politica di sfruttamento territoriale che coinvolge quella valle e la Valle Scrivia. Da lotta per obiettivi meramente territoriali si è trasformata velocemente in una visione del rapporto uomo/ambiente e in una proposta di politica ambientale alternativa a quella del potere vigente inquinante. Due grandi manifestazioni a carattere non violento, una nel giugno 2016, l'altra nel giugno 2017, oltre ad aver mostrato una grande partecipazione della società civile, con anarchici, sindaci, scuole di ogni ordine e grado e tanti cittadini, hanno soprattutto dimostrato adesione e consenso dal basso alle istanze portate avanti dai comitati.
Chiarissime le parole che Urbano Taquias, portavoce dei comitati di lotta, ha lanciato dalla sua pagina facebook il 27 luglio scorso: «Siamo pronti a continuare la nostra lotta. Non abbiamo mai creduto nei politici amici e tanto meno che qualcuno ci poteva dare una mano. Noi i Comitati di Base della Valle Bormida siamo i garanti delle nostre falde acquifere e della salute e la difesa del nostro territorio. La nostra forza viene dai cittadini, dagli agricoltori e dalle donne e uomini che non vogliono vivere in ginocchio e che non hanno paura delle multinazionali dei rifiuti e tantomeno del Cocif Terzo Valico e neppure di quello della Regione Valmaggia con le conferenze sulle cave per il Terzo Valico nella nostra Provincia.»
Andrea Papi
www.libertandreapapi.it
140 anni fa, la Banda del Matese/
Il documentario (che verrà)
È in realizzazione un documentario dal titolo
San Lupo e la rivoluzione che non fu, sulla Banda
del Matese ed il suo tentativo insurrezionale nel 1877.
Le riprese sono iniziate a giugno e si concluderanno entro
fine anno, per la regia di Fabiana Antonioli (autrice
di Il segno del capro) e la produzione di Filmika,
grazie alla comunità di San Lupo, al comune e ad
alcuni sponsor locali.
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Benevento - Il gruppo Sancto Ianne durante le riprese del documentario |
Il documentario nasce da un'idea di Bruno Tomasiello,
autore del saggio: La Banda del Matese – 1876/1878
– I documenti, le testimonianze, la stampa dell'epoca,
pubblicato nel 2009 dall'editore Galzerano.
Bruno ha raccolto l'invito dell'amministrazione comunale
di San Lupo a realizzare, proprio quest'anno per il 140°
anniversario, qualcosa che valorizzi e faccia conoscere
il tentativo insurrezionale avvenuto nel Matese. Nessuno,
fino ad oggi, aveva mai realizzato un documentario su
quei fatti da offrire a studiosi e appassionati.
All'interno del documentario, le musiche dei Sancto Ianne
e di Benito Merlino, le grafiche di Fabio Santin, le testimonianze
(tra gli altri) di Elisabetta Graziosi, Vittorio Giacopini,
Giuseppe Galzerano.
Fabiana Antonioli
fabiana.antonioli@filmika.it |
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