rivista anarchica
anno 47 n. 419
ottobre 2017





California 1967/
50 anni fa i Diggers, tra arte e sovversione

Tra le ricorrenze del 2017 oltre al macigno del secolo trascorso dalle due rivoluzioni russe (chissà perché di quella di marzo non si dice mai niente) e al quarantennale dell'ultima abortita insurrezione europea (tutta italiana, non sto parlando dei punk inglesi) ci sono pure i cinquant'anni della Summer of love, ritenuta a ragione o a torto ipocentro del sisma culturale che dalla costa occidentale degli Usa propagò nel mondo intero onde sussultorie di pacifica liberazione individuale e collettiva - oppure di sfacelo a base di sesso, droga & r'n'r, a seconda dei gusti.
Il saggio di Alice Gaillard (Diggers: Rivoluzione e controcultura a San Francisco 1966-1968, Nautilus, Torino 2016, pp. 184, € 15,00) corredato di un'ampia documentazione grafica e di un'esauriente introduzione storica agli eventi del 1966-67 (superflua per gli appassionati di vetuste culture alternative, necessaria per chi sia a digiuno dei varî Kerouac, Marcuse e Ginsberg), è focalizzato su un piccolo gruppo di attivisti, i Diggers, insediato a San Francisco e precisamente nel quartiere di Haight Ashbury.
Il nome, copiato dagli zappatori espropriatori inglesi del XVII secolo, non stava a indicare alcun ritorno alla terra, ma simboleggiava l'urgenza di dare una risposta concreta alle prorompenti esigenze di una gioventù proiettata verso l'esplorazione di spericolati sentieri esperienziali. Nati all'interno del Mime Troupe, collettivo dedito a un teatro-guerriglia di derivazione brechtiana, si diedero ad espanderne e radicalizzarne le tecniche mettendo completamente in discussione la separazione tra vita reale e performance secondo una prospettiva individualista e libertaria.
Mentre il Mime Troupe prima e poi l'ALF (Artist Liberation Front) si adoperavano per «portare il teatro, la pittura, la musica verso la gente, in particolare chi abita nei quartieri non privilegiati», i Diggers si chiedevano: «poiché la promessa del teatro è sospendere l'incredulità dello spettatore riguardo a quello che vede e permettergli di entrare in un quadro in cui gli viene proposta un'altra realtà per la durata dell'opera, perché non estendere questa sospensione nella realtà della vita di tutti i giorni e cancellare i confini tra spazio pubblico e spazio privato, e recitare in modo che emerga il nuovo mondo che si augurano di far nascere?»
L'enunciato potrebbe sembrare fumoso e invece questi freaks estremisti organizzarono in una spontanea collettività pasti gratuiti, cure mediche, negozi free (nel doppio senso di “libero” e “gratuito”) in cui ribaltarono l'idea di merce, e una lunga serie di life-acts, dove vita, strada e rappresentazione scenica cercavano di fondersi per entrare in sintonia con quella luminosa e variopinta rivoluzione psichedelica.
Il contesto che aveva permesso la nascita di questa esplosione di creatività era formato da una serie di elementi che ne determinarono l'enorme successo di immagine. Si affacciavano in simultanea nel paese più ricco del mondo l'esigenza di una sessualità più libera, l'insofferenza per una società che discriminava apertamente i suoi componenti dalla pelle scura, il rifiuto dell'aggressione armata al Vietnam e, non meno importante, l'affermarsi presso i giovani ribelli di un prodotto sintetizzato nei laboratori svizzeri della Sandoz nel 1938 e divenuto celebre come LSD. Oggi sappiamo che parte delle energie che fecero soffiare un po' ovunque il vento di Haight Ashbury – qui da noi furono i capelloni gli apostoli del verbo fricchettone – ne avrebbero presto decretato il declino.
Durissimo fu l'impatto con l'incontrollabile mostro della spettacolarizzazione, orde di giornalisti e di turisti in caccia di hippy ruspanti, mercificazione e prostituzione dilaganti in un'atmosfera tossica dove a marijuana, LSD e mescalina si aggiunsero oppio ed eroina, con il conseguente proliferare di spaccio e malavita. Come riportato nei documenti in appendice, già nell'estate del 1967 i Diggers intuirono come quel grande movimento in piena espansione cominciasse a barcollare e in che misura il festival di Monterey, sua massima celebrazione, costituisse in fondo l'atto conclusivo della sua fase più vitale e l'inizio di epoche virate in toni cupi. Ma a quel punto i Diggers erano già diretti altrove.

Giuseppe Aiello


Arte ir-ritata/
Roba da matti

La creatività è una risorsa vitale indispensabile per noi esseri umani, grazie alla quale, da sempre, siamo riusciti a re-immaginare e quindi re-inventare noi stessi. In virtù di questa caratteristica, o predisposizione, abbiamo portato modifiche e cambiamenti nel mondo intorno a noi fin dalle origini più remote della nostra presenza come specie animale umana. Ma è interessante notare che gran parte delle zone di maggiore interesse per la presenza di arte rupestre si trova in luoghi dove l'umanità di allora ha trovato ostacoli ai suoi spostamenti. Sembra che il ritrovarsi a ridosso di queste soglie – masse oceaniche, catene montuose – abbia intensificato la produzione simbolica, come se questa avesse la possibilità di aiutare nel superamento del limite.
L'arte ir-ritata (Sensibili alle foglie, Roma, 2017, pp. 127, € 16,00), curato da Nicola Valentino, parte da questi presupposti e dedica la sua particolare e documentata attenzione a testimoniare quel mondo creativo che si manifesta in situazioni estreme di coercizione – carceri, istituzioni manicomiali, case di riposo, ecc. – diventando cura di sé, forza per continuare a vivere, fantasia per sopportare.
Oltre a questi luoghi assurdi anche molti contesti istituzionali più comuni, quali aule scolastiche, uffici, aziende, talvolta persino gli ambiti familiari, possono essere vissuti come angusti e mortificanti. Gesti creativi, forme espressive ir-ritate – cioè nate da irritazione, come immediatamente suggerisce la parola, ma anche, approfondendo etimologicamente il termine, fuori dal rito – sorgono allora per tras-portare chi le crea, per il tempo che le crea, in un altrove simbolico che diviene spazio di libertà e nuova identità. In questo senso sono esemplari i banchi e/o le porte dei bagni scolastici trasformati in espliciti luoghi di un altrove evocato che aiuta a tollerare noia e imposizioni. In maniera affine sono viste le scarabografie, la forma più comune e spontanea di dissociazione creativa, ovvero tutti quegli scarabocchi coi quali sovente vengono riempiti interi fogli di carta, ad esempio, durante poco interessanti riunioni lavorative.
Un libro di grande ricchezza che in qualche modo si intreccia con la più conosciuta Art Brut resa nota da Jan Dubuffet che, già negli anni venti del secolo scorso, ruppe il collegamento tra le patologie psichiatriche e le opere prodotte da chi ne soffriva. Dubuffet, artista a sua volta, affermava che l'arte autentica non sta nei luoghi comodi fabbricati per lei ma può essere prodotta solo da chi è estraneo al sistema delle Belle Arti, da chi lavora, in condizioni drammatiche di solitudine, per “l'incanto del loro solo autore”.
Una grande collezione di “Art Brut” è raccolta ed esposta a Losanna in un museo a essa dedicato. Allo stesso modo esiste un archivio di Arte ir-ritata che sta cercando un posto dove le opere possano essere incontrate stabilmente e dove si possa scambiare questo sapere sociale. Al momento la Casa dell'Arte ir-ritata è solo virtuale ma comunque visitabile ed è nata l'idea di promuovere la costituzione di una casa diffusa dell'Arte ir-ritata che potrebbe aver spazio in centri culturali o abitazioni private che vorranno ospitare una o più opere della raccolta.
Un libro che può avvicinare ciascuno di noi alla propria capacità espressiva, sfatare il mito del talento innato necessario a praticare qualsiasi forma di espressione creativa, e far nascere il desiderio di ritrovare il gusto perduto del gioco creativo. A questo proposito ci viene incontro il pensiero di Georges Lapassade, riportato nel testo, il quale vedeva la condizione di adulto – colui o colei che avrebbe raggiunto la forma compiuta – come un falso mito sociale che in realtà non farebbe altro che bloccare e irrigidire la possibilità continua di trasformazione/nascita che ogni essere umano, in quanto creatura relazionale, costantemente ha, grazie ai mondi sociali che attraversa. Irrigidimenti e blocchi che, come si sa, bene non fanno.
Un libro agile che si fa leggere con interesse, di grande spessore umano ma soprattutto un libro che mette in allerta riguardo a ciò che accade in noi quando la vastità interiore che ciascuno porta in sé viene compressa e avvilita (è evidente che questo oggi sta accadendo in maniera costante, subdola e massificata).
Un libro, infine, che invita a comprendere la sofferenza come “esperienza della mente che perde la sua spaziosità intrinseca” e a ragionare su tutto questo perché “forse è proprio quando persone e comunità si trovano a dover segnare il passo nel loro cammino che possono creare nuovi modi di significare il mondo, nuovi orizzonti per l'immaginario personale e sociale”. Forse questa è l'opportunità che abbiamo.

Silvia Papi
http://artenatura.altervista.org


Storia/
La vicenda dei GAF. Ma gli altri?

Contro la storia. Cinquant'anni d'anarchismo in Italia (1962-2012) (Biblion edizioni, Milano, 2016, pp. 590, € 35,00), già rivela nel titolo l'ambizioso progetto, del tutto riuscito, di Giampietro Berti di realizzare un'opera globale sul periodo considerato, sopratutto per quanto attiene la nascita e lo sviluppo del gruppo Materialismo e libertà prima e successivamente dei Gruppi giovanili anarchici federati (GGAF) e dei Gruppi anarchici federati (GAF).
La sua opera fa venire in mente un altro importante libro della nostra letteratura, quello di Armando Borghi che, come l'autore, ha raccontato cinquant'anni di storia dell'anarchismo, dal 1898 al 1945. Meno riuscito il tentativo per quanto attiene la storia delle vicende della FAI, che, per quanto sia resa in modo circostanziato e preciso, evidenzia soprattutto i difetti piuttosto che i pregi di questa organizzazione. La FAI non viene compresa nel suo importante ruolo organizzatore di energie attive e militanti, nonché editrice senza soluzione di continuità, fin dal secondo dopoguerra, del giornale fondato da Errico Malatesta.
Attraverso pagine chiare e con alti contenuti informativi l'autore valuta in sede storiografica la scissione del Movimento nel 1965, la sua diaspora in FAI, FAGI, GGAF e successivamente GAF e GIA, la eterna questione dell'organizzazione e tutto ciò che ha caratterizzato la storia del Movimento anarchico italiano, nel tumultuoso contesto storico-politico degli anni '70 e '80 in Italia. Sono pagine dense con prese di posizione recise ed autentiche, attraverso le quali l'autore esprime con generosità le sue valutazioni. Come sottolinea in premessa, aspettandosi inevitabilmente critiche ed osservazioni.
Berti perviene dopo 550 pagine documentatissime e piene di passione militante, dalla quale, in quanto studioso, con sforzo prende le distanze, per fornire una narrazione oggettiva quanto più possibile, ad una serie di domande che attengono al futuro dell'anarchismo, che è già un presente pressochè immediato.
In sintesi qual è il futuro dell'anarchismo, che appare all'autore un movimento tendenzialmente autoreferenziale, in assenza di un soggetto storico al quale fare riferimento, come era quello operaio e popolare ottocentesco e primonovecentesco, dal quale e per il quale nacque il pensiero ed il movimento anarchico? Si tratta di un interrogativo proposto dopo che, con dettaglio, è stata tracciata dall'autore la storia delle esperienze ed iniziative dei compagni dei GAF, che dettero vita alla rivista “A,” a Interrogations, al Centro studi libertari ed ai suoi Convegni e Seminari di studio e di approfondimento, alla continuazione e rinnovamento di Volontà, alla continuazione delle edizioni Antistato ed alla nascita di Elèuthera ed infine a Libertaria, ciascuna iniziativa narrata e analizzata nella sua specifica consistenza.
Merito enorme del libro è avere rappresentato a chi non ha vissuto quelle esperienze ed averlo sottolineato a chi le ha vissute, la straordinaria complessità innovativa intellettuale e la assai elevata capacità organizzativa, in quanto produttori di cultura, degli anzidetti ex militanti dei GAF. All'interno di questa narrazione l'autore formula opinioni e punti di vista, taluni bisognevoli di chiarimento. Come ad esempio l'attribuzione di “anarchismo etico” alla rivista “A”, che sembrerebbe, a parere di Berti, se non vado errato, un revisionismo minimalista dell'anarchismo. Mentre a me sembra l'anarchismo pluralista concreto e attuale ed, in quanto anarchismo malatestiano, correttamente e giustamente etico. Altro punto di dissenso è la negazione da parte dell'autore che vi fosse negli anni '70 un pericolo concreto di colpo di stato reazionario e di decisa svolta a destra dell'asse politico del Paese.
Grazie alla ricostruzione di Berti, la militanza degli ex-appartenenti ai GAF nella ideazione e nella organizzazione del rinnovamento del pensiero dell'anarchismo, è stata riportata alla luce ed è stata proposta sia alla rilettura di chi ha partecipato a questa straordinario percorso di ricerca, che alla conoscenza di tutti coloro che per ragioni anagrafiche non lo hanno condiviso.

Enrico Calandri


Psichiatria/
Al servizio del colonialismo (anche italiano)

All'inizio del secolo scorso, le potenze europee che diedero vita ad un'accanita e competitiva colonizzazione politica ed economica dei paesi africani e asiatici, ebbero, come strumenti di conquista di popoli inermi e miseri, gli eserciti e il capitale finanziario, e al contempo si servirono della 'scienza' per giustificare la loro missione di civilizzazione della 'razza' nera, ritenuta arretrata e inferiore rispetto alla razza 'eletta', bianca ed europea. Un ruolo significativo in tal senso lo ebbero le scienze mediche, in particolare la psichiatria, come mostra un interessante volume che raccoglie gli atti di un convegno (organizzato, nel 2015, dal Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia) che ha per titolo La psichiatria nelle colonie (Franco Angeli, Milano, 2017, pp. 144, € 19,00).
Gli psichiatri europei, presenti nei territori dell'occupazione coloniale, nei loro rilievi, effettuati in loco, attestavano l'inferiorità mentale degli individui di pelle nera, ritenendoli geneticamente portatori di ereditarie tare organiche e psichiche e propugnavano l'idea della necessità di una 'psichiatria razziale' che osservasse, curasse e normalizzasse gli indigeni colonizzati secondo i parametri di società e di cultura, di usi e di valori delle nazioni europee: in particolare, parecchi medici italiani, seguendo perlopiù le teorie di Lombroso, spiegavano l'eziologia della sofferenza mentale dei colonizzati con quei criteri antropometrici che secondo il criminologo torinese distinguevano, in specie il volume del cranio, la facies del delinquente da quella della persona 'normale'; così come il sistema psicofisico del colonizzato, portatore di varie e diffuse patologie, da quello, di certo più sviluppato e sano, del colonizzatore.
Insomma, come sottolinea nell'introduzione al volume, Francesco Paolella “la psichiatria è stata arruolata nel progetto di dominazione coloniale delle diverse nazioni europee. E pur se in una posizione inevitabilmente defilata, anche la questione della neutralizzazione e della cura dei comportamenti scandalosi e pericolosi ha avuto indubbiamente un ruolo nel più ampio controllo politico e morale delle società dei paesi colonizzati”. “È quindi legittimo parlare di una compromissione tra la psichiatria (e la medicina in generale) e il potere coloniale”, scrive ancora Paolella, che aggiunge: “queste relazioni pericolose erano senza dubbio utili all'amministrazione coloniale e funzionali alla produzione di rapporti di soggezione; l'assistenza psichiatrica nelle colonie è stata contrassegnata da un rapporto strutturalmente asimmetrico fra europei e indigeni; un rapporto di subalternità che tendeva a tradurre, anche se spesso spinto da motivazioni 'alte', filantropiche, in termini medici, alienisti lo status quo, il contesto di violenza materiale e simbolica”.
I primi due interventi presenti nel volume, di due studiosi inglesi, Matthews M. Heaton e Waltraud Ernst esaminano il diverso impatto della psichiatria inglese in Nigeria e in India e il confronto/scontro tra la Medicina Coloniale e quella tradizionale nei paesi del Sud Asia. Un terzo intervento, di Marianna Scarfone, documenta gli articolati nessi tra la presenza italiana nelle colonie africane e l'istituzione dell'assistenza psichiatrica per i colonizzati ma anche per gli italiani che, nel loro ruolo di militari o dipendenti civili dell'ammirazione statale, spesso incorrevano nella 'follia': incapaci di adattarsi alle diversità di un territorio e di un popolo straniero, stremati da una guerra di conquista che percepivano ingiusta e dall'obbedienza ad un regime (quello mussoliniano) che avvertivano intollerante e oppressivo, diventavano preda di un isterico, convulso e irrequieto 'furor africano'. Anche loro, per gli psichiatri del tempo, erano organicamente inetti, inadatti, indegni così come gli oziosi, ritardati e sporchi neri delle colonie che “o si piegavano o andavano soppressi”. L'idea della malattia mentale, decontestualizzata e individuata come effetto di deficienza fisica e psichica genetica, viene bene fuori dall'intervento di Luigi Benevelli che presenta ed esamina una relazione del 1935 (riprodotta, a conclusione del volume) condotto dello psichiatra Eustachio Zara sul caso di un africano residente e ospedalizzato a Napoli, affetto da paralisi progressiva e a causa di questa deceduto.
Benevelli denuncia il metodo “ideologico”, perché “basato sulla biologia e l'anatomia patologica del sistema nervoso centrale e sulle loro relazioni con le funzioni mentali, a prescindere da un approccio 'scientifico' alla malattia”, col quale venne condotta, dal dottor Zara, l'ampia disamina delle caratteristiche, degli effetti e delle turbe della patologia psichiatrica dell'africano, insorta probabilmente a causa di una sifilide non curata e ricondotta quindi ai disordini e alla costituzione di un individuo di 'razza inferiore'. Ne conclude, sarcasticamente e amaramente Benevelli: “J. Camel, 'negro' di ignoti, nato ad Alessandria d'Egitto, dall'età apparente di 50 anni, arriva nel manicomio di Napoli in condizioni tali che non era possibile raccogliere da lui i dati anamnestici, ricostruire le vicende della sua vita. Ma questo non era importante: bastava il fatto che fosse affetto da paralisi progressiva perché per lui parlassero i suoi visceri”.
Erano anni di dominio politico, culturale e scientifico delle élite borghesi e dei dittatori dell'Europa che imposero, nelle loro colonie, un modello politico e sanitario unico ed eurocentrico a gente con storie, civiltà e saperi diversi, altrettanti articolati, efficaci e ricchi di pratiche e conoscenze di alto valore materiale e spirituale.
Nel volume si indaga anche come si cambiò tendenza, con l'avviarsi del processo storico della decolonizzazione, nei decenni che seguirono il secondo dopoguerra, rispetto alla comprensione e alla cura delle malattie mentali, grazie al lavoro di una generazione di psichiatri nati nei paesi colonizzati, come Franz Fanon, che cominciarono a studiare e ad intervenire in modo 'locale' e specifico sulle difficoltà psichiche, rifiutandone le definizioni e i trattamenti 'occidentali' e globalistici e dando così vita all'etnopsichiatria: la cui storia e i cui principi sono di gran attualità, in un mondo e in società che sempre più vivono la presenza di 'migranti' e che, quindi, al rispetto delle diversità e delle libertà di tutti, dovrebbero sempre più educarsi.

Silvestro Livolsi


Anarchismo, leggi, diritto/
Le riflessioni di Errico Malatesta e altri

Se respingiamo la legge lo facciamo per raggiungere qualcosa di meglio”
Errico Malatesta, 1925

L'opinione diffusa sulla presunta inconciliabilità tra anarchismo e diritto è senz'altro frutto di confusione metodologica oppure di superficialità o critiche tendenziose. Ma ciò deriva anche dal dato di fatto incontrovertibile che, storicamente, il diritto ha svolto funzioni di “maschera” e rappresentazione del potere. C'è inoltre da registrare l'evidente esistenza di un field ancora troppo ristretto di questo ambito di ricerca (a parte le meritorie e sporadiche iniziative del Centro Studi Libertari e dell'università “Magna Graecia”).
Così un testo complesso, impegnativo e utile come questo di Marco Cossutta (Errico Malatesta. Note per un diritto anarchico, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2015, pp. 222, € 14,00) ci può aiutare moltissimo. Approfondimento sugli aspetti giuridici di notevole caratura presenti nel corpus teorico malatestiano, il volume ricapitola e incrocia diverse e importanti visuali di lettura: cogliendo il nesso, prima di tutto, fra diritto e anarchia (su cui esiste un dibattito interdisciplinare, qualitativamente discreto, che ha coinvolto nel tempo qualche storico e giurista); approfondendo quegli aspetti cruciali del pensiero e dell'azione del grande rivoluzionario campano in genere poco frequentati nei milieu militanti; proponendo infine alla comunità scientifica una significativa selezione di questioni e tematiche prettamente anarchiche.
Filosofo del diritto, l'autore – docente all'università di Trieste – è tra i pochi specialisti dell'argomento oggi attivi in Italia (insieme a Massimo La Torre e Alberto Scerbo); le sue monografie più importanti sono spesso focalizzate su quei lemmi che la vulgata vorrebbe inconciliabili (Anarchismo e diritto. Componenti giusnaturalistiche del pensiero anarchico è ad esempio il titolo del libro risalente al 1987, edito dalla triestina Coopstudio).
Primo assunto da sottolineare: non confondiamo la legge con il diritto. Da Proudhon in poi la distinzione è sempre stata più che netta: da una parte c'è la classica manifestazione statuale dell'uso monopolistico della forza, dall'altra si annoverano tutte quelle forme possibili di regolamentazione, amministrazione, mediazione di rapporti, conflitti e interessi connessi alle attività umane. A tale proposito Malatesta conferma in pieno questa impostazione rifiutando qualsiasi esegesi anti-sociale dell'anarchismo.
Parlare dunque di “diritto anarchico” è non solo corretto sul piano della storia del pensiero libertario, ma anche legittimo su quello metodologico delle scienze giuridiche. Lo snodo di comprensione di tutta questa costruzione teorica – ribadisce Cossutta – non è tanto la negazione di qualsiasi “forma di regolamentazione giuridica dei rapporti sociali” ma, piuttosto, una risoluta intransigente radicale opposizione verso quelle “forme di regolamentazione eteronoma che la modernità politica ha prodotto e che vedono nella compagine statuale il proprio indiscutibile fulcro”. Quella sorta di ossimoro appare però formulabile solo attraverso un'autentica prospettiva giuridica anarchica “fluida” che, basandosi su tre elementi fra loro connessi: regolarità, autonomia, libero accordo, smentisca di fatto il luogo comune che presuppone “la natura sregolata dell'essere umano”.
Il volume (che purtroppo non dispone di indice dei nomi e dei soggetti notevoli) si articola in tre parti, ciascuna dedicata a un focus particolare: Per una prospettiva giuridico-politica anarchica; Per un anarchismo quale moderna declinazione della classicità giuridico-politica; L'anarchismo fra filosofia e dogmatismo.
Il noto dissidio tra Malatesta e Francesco Saverio Merlino occupa uno spazio importante nell'esposizione cossuttiana. Secondo l'autore, che peraltro non vede all'interno di questa diatriba la classica contrapposizione tra prospettiva libertaria e democratica, in essa risiederebbero piuttosto gli elementi di contraddizione di un anarchismo che, “obbligato ad una perenne critica dell'esistente”, si ritrova di fatto “operativamente caduco”.
“Le argomentazioni malatestiane addotte per controbattere a Merlino, – si legge nelle pagine conclusive del libro – che dal punto di vista operativo appaiono deboli, acquistano forza se osservate con spettro teoretico; Malatesta evita di incorrere in contraddizioni, in quelle contraddizioni in cui ritiene sia caduto il suo antico compagno di lotta. Ma va anche evidenziato come i due, sia pur implicitamente, si collochino su piani diversi; l'uno, Merlino, sul piano operativo dell'efficacia dell'azione anarchica, l'altro, Malatesta, su quello non operativo e volto a preservare l'anarchismo da contraddizioni esiziali. Se sul piano della prassi quotidiana, l'impostazione di Merlino appare indubbiamente più accattivante, sul versante della coerenza quella di Malatesta è indubbiamente superiore...”.
Alla base di questo contrasto c'è, con tutta evidenza, il rigetto totale da parte del rivoluzionario campano dei principi giuridici e politici fondanti la modernità. In primis c'è il rifiuto della “rappresentazione della politica come manifestazione di potere”.

Giorgio Sacchetti


Anni '70/
Gianfranco Manfredi, la memoria critica (e “A”)

Un cantautore “cult” degli anni '70, tra i protagonisti del Festival del proletariato giovanile (Parco Lambro, Milano 1976) e di quegli anni, esce con Ma chi ha detto che non c'è. 1977, l'anno del Big Bang (Milano, 2017, pp. 426, 18,00), un bel libro di ricordi e analisi critiche del 1977, pubblicato da Agenzia X. Nel capitolo dedicato alla stampa, ricorda Paolo Murialdi, Controinformazione e “A”. Ne pubblichiamo, a seguire, uno stralcio del libro appena uscito.

(...) Il giornalismo, quello dei grandi quotidiani, dal punto di vista del movimento del 77 mentiva, alterava, stava invariabilmente dalla parte del regime, che si trattasse di quello politico, giudiziario, economico, o tutti i poteri insieme in blocco compatto.
Se la stampa voleva sopravvivere come contropotere, non poteva che essere “Controinformazione”, per citare, e non per caso, una rivista nata a Milano nel 73, che si proponeva non come organo di un qualche raggruppamento politico, né intendeva essere, come tante riviste precedenti di sinistra, parlamentare o extraparlamentare, una sede di elaborazione teorica, e nemmeno limitarsi all'attualità italiana.
Il punto di vista, certo, era dichiaratamente anticapitalistico e antimperialistico: si esaminavano in concreto le ristrutturazioni industriali e tecnologiche in corso, la riorganizzazione del lavoro in fabbrica, le strategie delle multinazionali e quelle militari in atto sul pianeta, offrendo copiose testimonianze dal Terzo Mondo. Si studiavano le trasformazioni della magistratura e dei corpi di polizia, la situazione nelle carceri, le manipolazioni della stampa scritta e radiotelevisiva. Ampia era la pubblicazione integrale di documenti. Molta l'attenzione dedicata al sociale e ai protagonisti delle lotte sul territorio.
Insieme a tutto questo, “Controinformazione” teneva un profilo alto nella veste grafica. Le copertine a colori erano opera di un notevolissimo pittore, Paolo Baratella, che aveva esposto e ricevuto riconoscimenti non soltanto in Italia ma in tutta Europa, a Mosca, negli Stati Uniti e in Canada. Copertine tutt'altro che da “realismo socialista”, spesso cupe ed enigmatiche, sempre di grande forza espressiva. (Sua, per inciso, la doppia cover del primo lp dell'Ultima Spiaggia, il già citato Disco dell'angoscia.) Il formato della rivista era grande, non a quadernetto: un centinaio di pagine per numero, fotografie, disegni, grafica sempre perfettamente leggibile. Nel pieno della lotta armata era fatale che la rivista si ritrovasse in un equilibrio difficile e instabile tra l'antagonismo radicale e la documentazione pura.
Verrà poi trascinata, a partire dal sequestro Moro, nell'arena dello scontro politico nelle aule dei tribunali e nelle commissioni parlamentari, dove si ipotizzeranno collegamenti operativi tra Toni Negri e le Br attraverso la rivista stessa (o si fanno riunioni redazionali o si fanno incontri clandestini, l'insurrezione a tavolino è roba che può venire in mente solo a magistrati che per mestiere stilano sentenze di pagine e pagine, la cui lettura corrisponde a un verdetto dalle immediate conseguenze operative). Comunque, una funzione importante “Controinformazione” l'ha avuta, anzitutto sul piano della documentazione, che le normali indagini giornalistiche erano ben lontane dal mettere a disposizione dei lettori, e poi sul piano che dicevo prima: raccontare le trasformazioni nei rapporti sociali, nella produzione, negli assetti del potere, piuttosto che esprimere opinioni tanto anticonformiste quanto circoscritte a settori specialistici, e a un dibattito tra intellettuali spesso ostico, se non del tutto incomprensibile, per gli estranei all'ambiente.

Gianfranco Manfredi

Caso simile eppure diverso quello di “A-Rivista anarchica”, fondata nel 1971. Grande formato, notevole spazio alla fotografia e al disegno, ma la fotografia più che al lato estetico bada all'illustrazione dei momenti di lotta e il disegno si ricollega alla tradizione della satira di inizio secolo. La fotografia di tipo documentativo tuttavia non manca di forza espressiva. Bellissima per esempio la fotografia di copertina del n. 9 (novembre-dicembre) del 1977 con una fila di ragazzi addossati a un muro durante una perquisizione di polizia: parla da sola. E gli obiettivi della satira non sono i capitalisti-maiali con il cilindro, ma volti ben definiti di leader politici, come nel numero di giugno, dove sulla copertina compare Breznev che caca sui lillipuziani che lo sorreggono. Il titolo è: La nuova Costituzione Sovietica. Il privilegio istituzionalizzato. Sull'Unione Sovietica la stampa alternativa di quegli anni indaga poco, di rado, e svogliatamente. Filosovietica non è, però se si analizza poco quello scenario è perché si ritiene che il nemico principale sia un altro, sia, alla fine, uno soltanto: l'imperialismo americano. Per gli anarchici non è così.
Gli anarchici sono equanimi, non perché mettano sullo stesso piano, sullo scenario mondiale, le forze dei due blocchi, ma perché nell'autoritarismo sovietico, da anarchici e da libertari, non possono in alcun modo riconoscersi. Anche “A-Rivista anarchica” pubblica molta documentazione e segue con attenzione le lotte con uno sguardo non limitato all'Italia, ma al contempo si interroga sugli elementi problematici interni al movimento, non li scansa. Sul numero già citato di novembre-dicembre un articolo (di P.F.) centra criticamente la questione della violenza sfatandone il mito (titolo: Il mito della violenza). Si legge: “Alcuni settori della sinistra rivoluzionaria dimostrano una fiducia mitica nella violenza [...] Negli ultimi mesi, in particolare, vi è stato un netto aumento del numero e della varietà degli episodi di lotta armata in Italia: ferimenti di giornalisti, di capi-reparto, di direttori responsabili del personale, di dirigenti locali della Democrazia, assalti armati alle sedi delle forze conservatrici e padronali, uso delle armi contro le forze repressive dello Stato nel corso di manifestazioni di piazza ecc.
Nel complesso, quella violenza armata che nel 71 era usata sistematicamente solo dai primi nuclei delle Brigate Rosse viene oggi praticata – seppure in forme diversificate – non solo dalle altre formazioni clandestine (o quasi) che alle Br si sono aggiunte, ma anche da una parte (non certo clandestina) del 'nuovo movimento'”. Il punto, riguardo all'uso della violenza, è chiedersi: Contro chi? Per che cosa?. Un confine netto che va stabilito è quello della tolleranza. “Impedire sistematicamente che gli altri, che la pensano diversamente da noi, diffondano la loro stampa, propugnino le loro idee, parlino in pubblico, non può far parte della nostra pratica costante. Il diritto d'espressione degli 'altri' ha per noi lo stesso valore del nostro diritto a dire la nostra opinione: la libertà degli altri, in via di principio, arricchisce la nostra, non la limita.” Era importante, davvero molto importante scrivere queste cose nel 77, affrontare apertamente la questione del discrimine alla luce del contro chi? e del per che cosa?, ribadire l'aspetto e il senso libertario delle lotte contro l'insensata “logica” militarista.

Gianfranco Manfredi


Contro l'ortodossia/
Marina Abramovic e il suo metodo

Qualche tempo fa è stato pubblicato un testo dal titolo piuttosto intuitivo “Lo potevo fare anch'io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte”1, scritto da Francesco Bonami, critico e curatore d'arte fiorentino. Quella di Bonami è da intendersi quale una provocazione all'arte contemporanea, soprattutto quando dinanzi a certe opere tutti noi, abbiamo - almeno una volta - pensato: “Questo lo potevo fare anch'io”.
Zucche a pois, pianoforti attaccati al soffitto, bicchieri d'acqua mezzi pieni o mezzi vuoti (a seconda dell'umore dello spettatore) sono passabili sotto il concetto di “arte”. Ma è davvero arte? Cosa distingue un grande artista da un uno pessimo ma soprattutto l'arte per essere provocatoria deve essere necessariamente “incomprensibile”? La rassicurazione viene da una sfilza di critici che ci dice che dietro l'opera vige un concetto ed è quello che fa vincere l'atto figurativo e ne elegge lo statuto.
A tenere aperta questa questione è Marina Abramovic, artista contemporanea di origini serbe che si è autodefinita “nonna della performance art”. Nata a Belgrado nel 1946, figlia di due genitori partigiani, si forma presso l'Accademia di Belle Arti della sua città per poi trasferirsi nel 1976 ad Amsterdam dove rimane per molti anni legata al suo compagno di vita e d'arte Ulay, con il quale - per sancire la separazione dopo dodici anni - percorre a piedi, per circa tre mesi, l'intera muraglia cinese, sfidando stanchezza e solitudine.
Stabilitasi in seguito a New York, l'artista ha lì fondato il suo istituto dedicandosi all'insegnamento e alla pratica del suo metodo - il metodo Abramovic, appunto.
Ciò che colpisce di Abramovic, del modo di stare nell'arte, è la rivoluzione del limite e l'utilizzo del corpo nel processo creativo, un corpo che si espone ad un allargamento di visione che diventa a tratti violenta. Oltre a essersi fustigata, aver urlato fino a perdere la voce, essersi fatta prendere a schiaffi, aver fatto strisciare su di sé serpenti affamati, Abramovic ha corso anche profondi rischi nel corso delle sue performance come quando nell'opera Rythm 5, stava soffocando in un incendio distesa dentro una stella unta di petrolio o come quando nella Rythm 0, stava per essere sparata da una persona che aveva afferrato una pistola armata (messa a disposizione dall'installazione).
“Se io sono riuscita a sopravvivere a tutto questo, allora anche voi potete farcela” - afferma Abramovic in piena sovversione dell'effigie idealizzata dell'artista. Lo spettatore può fare ciò che l'artista fa, ovvero creare un “prodotto” che è ben lontano dall'esperienza teatrale. La stessa Abramovic sottolinea come, se nel teatro è tutto finto, nella performance è tutto vero, anche il sangue. Laddove la funzione del teatro è espressione di un copione- spesso già dato - che risponde a una vicinanza con la platea - la funzione della performance art è la rappresentazione di un limite che viene ad essere sabotato sia dallo spettatore che dall'artista. È proprio attraverso questo dispositivo che avviene lo scandalo, la meraviglia, lo stupore e anche l'orrore.
C'è qualcosa di insondabile in questo personaggio, qualcosa di anarchico, come una strenua rivolta contro l'ortodossia che si estende fino all'esasperazione e questo si legge bene nelle pagine dell'autobiografia (Attraversare i muri. Un'autobiografia, Marina Abramovic, J. Kaplan, Bompiani, Milano, 2017, pp. 416, € 19,00) che Abramovic ha scritto con l'aiuto di James Kaplan. Ciò che colpisce nella lettura della vita di questa artista è l'eredità delle sue origini balcaniche ruvide come i monti dell'ex Jugoslavia. Il racconto crudo del regime repressivo di Tito fa spesso la sua digressione in quello familiare, tra la violenza di una madre coriacea incapace di donare carezze e l'assenza di un padre fedifrago poco attento alle sue esigenze. L'espressione “attraversare i muri” non pare scelta a caso, anzi è come se si declinasse dall'arte alla vita nel suo significato più ampio. Attraversare un muro, spiega Abramovic, implica il superamento non solo dei vincoli reali ma anche dei vincoli più intimi, quelli affettivi che sono immagine e simbolo delle apnee, delle mancanze e delle paure che l'esistenza impone.
È come se - in termini psicoanalitici - stessimo dicendo che solo attraversando la propria ombra, il proprio fantasma, ci si possa individuare, soggettivare, sapere dove si è rispetto a se stessi. E di solito è un percorso doloroso ma liberatorio e Abramovic lo traduce nella violazione della sacralità del corpo: “Avevo sperimentato la libertà assoluta, avevo percepito il mio corpo senza limiti, senza confini. Avevo provato che quel dolore non aveva importanza, che niente aveva importanza”.
Una lettura molto acuta è stata offerta da Georges Didi-Huberman2, storico dell'arte e filosofo francese. Nel suo esporre la dimensione figurativa del corpo - dice Didi-Huberman - Abramovic è come se ricorresse alla fotografia medica delle psicopatologie della seconda metà dell'Ottocento come quella della Salpêtrière, famosa clinica psichiatrica dove esercitò per anni il neurologo Charcot e dove accorse anche Freud per imparare. Quelle fotografie, in bianco e nero, di spettro manicomiale, raffigurano donne isteriche nel pieno dei loro sintomi con tanto di didascalie, un'iconografia che non è certamente definibile sotto il termine di “arte” ma che rappresenta un tentativo di inquadramento dell'isteria con tutti i suoi parossismi. Non va dimenticato infatti, che all'epoca di Charcot, l'isteria rappresentava il fascino (e il terrore) verso la psiche femminile. In un lavoro di “antropologia dell'immagine” Abramovic presenterebbe così il suo debito con queste foto e con lo stesso Charcot, nella relazione, cioè, tra immagine e discorso sul sapere.
La costellazione dell'estasi rintracciabile nelle opere di Abramovic ed intesa nella sua fenomenologia accessoria, quale catalessia, patetismo, erotismo e violenza si riallaccerebbe al mondo isterico così profondamente indagato dalla psichiatria e dalla psicoanalisi, ripensando il rapporto fra mondo fisico e quello psichico, fra corpo e mente. E chissà, forse proprio per questo, l'opera di Abramovic risulta, nel suo enigma, così seduttiva.

Daniela Mallardi

  1. Lo potevo fare anch'io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte, F. Bonami, Mondadori, Milano, 2009.
  2. L'invenzione dell'isteria. Charcot e l'iconografia fotografica della Salpêtrière, G. Didi-Huberman, Marietti, Torino.


Spunti di riflessione/
Memoria involontaria ed eredità sommerse

“Perché il dovere di non dimenticare il passato sempre presente?” Motivo conduttore della scrittura di Stajano (Corrado Stajano, Eredità, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 165, € 18.00), la memoria, in un dialogo continuo con l'attualità. “È difficile, forse inutile, si sa, cercare di evocare il passato, gli sforzi della memoria, dell'intelligenza e anche dell'immaginazione risultano vani. Talvolta una fuggevole sensazione, un antico gesto, lo scorcio di un paesaggio, un suono riescono misteriosamente a farlo ritrovare”. La memoria involontaria riporta così alla luce eredità sommerse.
La prospettiva dal basso della narrazione: “Ero anch'io un figlio della Lupa” conferisce al racconto un sentore di straordinaria inconsapevolezza della guerra incombente.
Il Figlio della Lupa - un padre soldato e una madre che, da ragazzina, nel '15-'18 non ha dimenticato la tragedia della guerra, con Caporetto, i profughi del Friuli - conosce dal “Corriere dei Piccoli” le vicende straniate di un mondo fiabesco illustrate dal signor Bonaventura. Ma come spinto da una forza segreta, si schiererà sempre dalla parte dei perdenti. Quando la guerra comincerà ad incendiare l'Europa, dopo gli attacchi dei sottomarini tedeschi contro la portaerei inglese “Courageous” nella Manica, l'affondamento della corazzata Royal Oak, e anche quando il 30 novembre l'Unione Sovietica aggredirà la Finlandia, il Figlio della Lupa farà il tifo per i soldati con le tute bianche del maresciallo Carl Mannerheim. Vede al cinema, nei cinegiornali dell'Istituto Luce, gli esperti sciatori combattere sulla neve contro il gigante russo.
La storia individuale e personale si apre alla storia del Novecento, narrata dallo scrittore attraverso l'eredità - testimonianza dei luoghi, intervallata da frammenti di diari, saggi, lettere di chi ha vissuto le persecuzioni, l'internamento, la guerra. Documenti ufficiali restituiscono nomi sconosciuti di sovversivi, non più giovani, colpevoli di scambiarsi due chiacchiere all'osteria, spiati dagli informatori. Sui registri neri nella Casa del Fascio di Terragni, verranno schedati per motivi politici: essere un socialista praticante, un esponente del Partito Popolare, proclamarsi “di idee rosse”, essere “malcontento e insofferente della libertà fascista”, oppure bollato perché “contraddice tutto quanto sa di fascismo”.
Spunti di riflessione emergono da figure enigmatiche e inquiete. Come quella di Margherita Sarfatti, ebrea, la consigliera del duce. Con la biografia “Dux” lascerà la sua scomoda eredità. Dirà Mussolini a Claretta Petacci: “Il mio errore, il più grande errore della mia vita: averle permesso di scrivere un libro su di me è al di là di ogni comprensione, non so come abbia potuto legare per sempre il nome di quella donna al mio. Nella storia passerà come la mia biografia”.
Farinacci, fascista di piazza San Sepolcro, nominato segretario del Pnf, avvocato per meriti massonici di provincia, difensore in tribunale dei sicari di Giacomo Matteotti, sarà il primo denigratore di Margherita Sarfatti. Sulla donna incomberanno i “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, poi convertiti in legge. Sarà costretta a lasciare l'Italia e raggiungerà Parigi passando per la Svizzera.
Altra l'eredità di padre David Maria Turoldo, il gigante dai capelli rossi, il frate servita, uomo della Resistenza. Tra i fondatori del “Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà”, le sue prediche faranno tremare i muri e risveglieranno le coscienze. Volitivo, tenace resisterà anche alle accuse di “frate rosso” mosse dai perbenisti, per il suo rifiuto della chiesa-potere, l'appoggio alle minoranze intellettuali e politiche, ai popoli più deboli e oppressi.
Il racconto prende forma tra le mura di una scuola, con il severo maestro in orbace. Distribuisce ad ogni scolaro una bandierina tricolore e una germanica con la croce uncinata, in attesa del grande evento ormai imminente: l'incontro tra Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop, i ministri degli Esteri “collaboratori fedeli del duce e di Adolfo Hitler”, come la scolaresca apprenderà da “La Provincia di Como”, 8 maggio 1939.
E mentre in controluce la vita quotidiana sembra scorrere come su una pellicola in bianco e nero, il 22 maggio nei saloni della Cancelleria del Reich a Berlino sarà firmato il protocollo segreto: “Le due nazioni unite nell'intimo delle loro ideologie (...) sono decise a marciare fianco a fianco, unendo le loro forze per assicurarsi uno spazio vitale”.
Tra gite domenicali con il battello per Bellagio, Menaggio, Ossuccio, un tè danzante, balli di gala, cena a mezzanotte e campionati di golf a villa d'Este, i giovani non sembrano mostrare trepidazione per il loro futuro. Propaganda e irreggimentazione avevano già maturato i loro frutti.
Il bambino cresciuto in fretta, ora ragazzo, dopo i bombardamenti nell'agosto del '43 su Milano, rivede la città distrutta, interi quartieri, palazzi, il castello, il duomo, le chiese. E la fabbrica dell'orrore in via Santa Margherita 16, all'albergo Regina, sede del servizio di informazioni e di spionaggio politico e militare della Germania nazionalsocialista. All'ultimo piano nelle celle di sicurezza vengono interrogati uomini della Resistenza, ebrei, cittadini e cittadine innocenti. La narrazione è filtrata dal vissuto del ragazzo che ora si sente un Pinocchio e non indosserà più la divisa nera, e dalle voci corali della popolazione che assiste inerme, come immersa in uno stupore apocalittico, senso di dissacrazione e profanazione dei luoghi, paura, sospetto.
Il padre tornato dal lager, dopo una notte di racconti, non parlerà mai più dei campi di concentramento e di sterminio. “Dopo lo sfogo, il silenzio, non sereno, sordo, sarebbe stato giusto far domande? Chiedere? Pungere la memoria riluttante?” Ancora: “Lo impedì nel ragazzo anche la soggezione delle vecchie generazioni nei confronti del padre”.
Un'eredità pesante, quindi, sulla quale il presente è chiamato a riparare rimanendo con l'attenzione sempre vigile sul risveglio dei germi di nuovi fascismi e guerre nuove. Ma anche un'eredità impegnativa, un patrimonio ideale di valori incarnati nella Resistenza: la faticosa e mai conclusa conquista della Giustizia e della Libertà.
Ancora una volta, come in altre opere dello scrittore particolarmente riuscite - così “La stanza dei fantasmi: Una vita del Novecento”- la storia del “Secolo breve”, dalla penna di Corrado Stajano, si fa racconto di un vissuto individuale e collettivo, capace di commuovere e smuovere le coscienze.

Claudia Piccinelli