rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017


clima

Cambiamenti umani e mutamenti climatici

di Adriano Paolella


Il clima peggiora per gli effetti di un modello economico fondato sulla trasformazione della natura, lo sfruttamento delle risorse, lo spreco. La situazione è per tanti aspetti compromessa, ma ci sono margini per scelte generali diverse. A partire dal basso, senza alcuna delega ai potenti e agli inquinatori.


Come se nulla fosse

È evidente che, tra le loro priorità, i governi non inseriscono i cambiamenti climatici.
In agosto il governo del Brasile ha deciso, inopinatamente, di rendere possibile lo sfruttamento delle risorse aurifere in una enorme riserva naturale sita nella Foresta Amazzonica.
La Foresta Amazzonica è uno dei pochi territori del Pianeta in cui vi è ancora un bilancio positivo in termini di anidride carbonica (ne imprigiona molto di più di quanta ne emetta), la sua funzione al fine di mitigare i mutamenti climatici è universalmente riconosciuta come insostituibile, ed è risaputo come l'eliminazione di parte della copertura vegetale comporterà tangibili peggioramenti al clima; per questo la sua salvaguardia dovrebbe essere una priorità per tutti i paesi.
Il governo del Brasile non riesce a capire che la profonda trasformazione necessaria allo sfruttamento dell'area (strade, centri abitati, tagli di ampie superfici forestate), oltre a non costituire un duraturo modello di “sviluppo”, va nella direzione esattamente contraria a quanto stabilito dal protocollo di Kyoto e dai successivi accordi di Parigi sul clima a cui ha aderito; in questo caso i governi degli altri paesi, almeno quelli aderenti a detto accordo, potrebbero indurre il Brasile ad adottare comportamenti diversi, anche attraverso sanzioni economiche mirate a ridurre l'appetibilità della distruzione della foresta (come, ad esempio, un embargo sulle merci prodotte con le risorse ricavate dalla spoliazione della foresta).
Una cosa semplice attuata in tanti altri casi.
Ma nulla di tutto ciò è avvenuto, evidenziando chiaramente come la salvaguardia delle foreste pluviali sia una priorità per il Pianeta e per la sua popolazione (non solo umana), ma non per i governi che mostrano di essere indiscutibilmente succubi di un'economia ancora profondamente ancorata allo sfruttamento delle risorse naturali.
Al di là delle parole, delle conferenze e dei trattati, i governi danno alla natura un valore minore di quello dato allo sviluppo economico e così facendo mostrano di non essere interessati al benessere comune e alla conservazione di una, seppur minima, qualità di vita, ma solo a promuovere creazione e accumulo di denaro. Eppure il benessere non si può ottenere attraverso il denaro quando i deserti e le aree aride aumentano, i ghiacciai si sciolgono, le produzioni agricole diminuiscono, enormi quantità di persone si spostano da territori invivibili, l'aria, i fiumi, il mare, i terreni sono inquinati e i corpi degli uomini sono pieni di sostanze tossiche assimilate e accumulate solo mangiando e respirando.

Azioni inconsulte

Da almeno quarant'anni la conoscenza del problema dei riscaldamento del pianeta ha superato le barriere del mondo scientifico e sono stati divulgati ampliamente dati, interpretazioni e ipotesi risolutive.
In particolar modo in questi ultimi dieci anni i mutamenti climatici sono così concreti e i loro effetti così ambientalmente e socialmente pesanti che è difficile ipotizzare l'assenza di una diffusa consapevolezza del problema.
Ed infatti, diversamente dal passato, di mutamenti climatici se ne parla; se ne parla, quando fa caldo o piove troppo, nelle strade, nei posti di lavoro, nei ritrovi, con preoccupazione, perplessità, ansia, indignazione e rancore. Anche i media, sempre molto più interessati al catastrofismo che alla presentazione dei fatti e delle cause, non vi è anno che non propongano approfondimenti sugli effetti dell'innalzamento delle temperature.
I governi e le amministrazioni pubbliche invece tacciono; nel caso migliore si perdono nei meandri delle constatazioni (monitoraggio), del sostegno della ricerca, della definizione di piani e, ahinoi, nel sostegno ad azioni inconsulte.
Per anni la popolazione è stata sensibilizzata sul sostanziale contributo delle lampadine ad incandescenza alle emissioni, individuando nella loro sostituzione il sistema principe (anche perché non ne furono proposti altri) per ridurle; poi il tema è stato cambiato concentrando l'attenzione sulle energie rinnovabili costruendo nuovi impianti e facendo intravedere la possibilità di un'autoproduzione energetica ed in parallelo sostenendo la “rottamazione” di auto anche funzionanti per sostituirle con auto più efficienti in un ciclo ripetitivo e ripetuto (da euro 1 a euro n) e più recentemente promuovendo i veicoli elettrici.
E la popolazione consapevole del problema e desiderosa di attuare comportamenti coerenti - essa sì, con l'obiettivo di ridurre le emissioni - ha combattuto i demoni facendosi carico, anche economicamente, delle modificazioni richieste e spesso anticipando le norme e il sostegno pubblico (sempre molto parziale). E questo è bene.
Ma la popolazione ha seguito queste indicazioni nonostante la minima incidenza delle lampadine sul totale dei consumi energetici, anche se le lampadine a basso consumo hanno bisogno di più materiali, durano di meno (seppure venga dichiarato il contrario), il loro smaltimento sia più complesso, costino di più, anche se dopo pochi anni sono state sostituite dai led (che costano ancora di più); ha guardato con interesse le rinnovabili anche se al contempo i governi sostenevano il potenziamento degli impianti esistenti che usavano combustibile fossile (spesso permettendo la loro trasformazione in impianti a carbone, più inquinante ma più economico), anche se è stata fortemente ridotta la convenienza dell'autoproduzione; ha soprasseduto benevolmente sul fatto che l'energia dei veicoli elettrici fosse prodotta in misura molto maggiore con combustibili fossili che con fonti rinnovabili.
Azioni singolarmente giuste, nobili, necessarie, che divengono inconsulte se non collocate all'interno di un'azione dei governi e delle amministrazioni più complessiva, sostanziale e meno ambigua: insomma tutte azioni necessarie, ma non sufficienti e i cui positivi effetti troppo spesso sono annullati da contemporanee scelte di segno opposto.

L'equivoco dell'efficienza

L'ipotesi perseguita da quella parte del sistema economico più sensibile ai cambiamenti climatici è che solo attraverso l'aumento dell'efficienza dei processi produttivi e delle merci si possano ridurre le emissioni mantenendo i livelli di consumo attuali, condizione questa ritenuta inalienabile.
Nell'attuazione di tale ipotesi molti prodotti hanno migliorato la loro efficienza ambientale riducendo consumi ed emissioni, ma in maniera non sufficiente a modificare la situazione.
Infatti – supponendo che la constatazione dell'importanza dell'efficienza sia avvenuta nel periodo della crisi energetica degli anni settanta (al fine di ridurre i costi energetici degli impianti) e che si sia diffusa a partire dagli anni ottanta – i dati ci dicono che negli ultimi quarant'anni le emissioni sono aumentate e che le condizioni del pianeta sono peggiorate.
Questa dolorosa constatazione fa comprendere quanto la ricerca dell'efficienza non sia riuscita a invertire l'andamento delle emissioni e anzi abbia generato l'equivoco che ha permesso di non modificare l'organizzazione produttiva e sociale globale.
Questo fallimento è derivato da alcune condizioni:
–le misure di efficientamento della produzione e dei prodotti sono applicati in un ridotto numero di paesi da un ridotto numero di produttori mentre il resto del mondo, tra cui i maggiori consumatori di energia, opera in maniera quantitativa limitando la ricerca della qualità solo ad alcuni prodotti. Questa disomogeneità di intenti ha fatto sì che sul mercato coesistessero (come tipico dell'attuale liberismo dove la ricerca dell'efficienza energetico-ambientale è facoltativa) prodotti di grande qualità (una piccola parte) con prodotti di bassa qualità (la maggior parte);
–la qualità energetica dell'oggetto non è garanzia di riduzione di emissioni: ad esempio un SUV Euro 6 è un autoveicolo molto più efficiente di una Cinquecento del 1960, ma se ha una cilindrata 10 volte superiore e il peso quattro volte superiore a quello della 500, se viene sostituito ogni tre anni, se percorre ogni anno quattro volte il numero di chilometri della 500 gli effetti positivi ottenuti dall'aumento dell'efficienza sono del tutto annullati;
–il modello consumistico, sempre connesso alla sovrapproduzione, negli ultimi decenni è degenerato in un modello fondato unicamente sugli sprechi. Sprechi quantitativi (comprare quello che non serve), sprechi dimensionali (comprare oggetti di funzioni e dimensioni superiori a quelle necessarie). In questo, l'aumento dell'efficienza è stato d'aiuto nella sostituzione di merci funzionanti con altre merci simili per permettere la crescita di un mercato che ha già garantito gran parte delle merci necessarie e distribuisce merci inutili.

Andiamo meglio o peggio?

La macchinetta napoletana (la “cuccumella”) è fatta di alluminio, una sottile lamiera, appena l'acqua bolle si spegne il fuoco e si rovescia; il caffè scende, lentamente. La moka ha dimensioni simili alla napoletana ed è anch'essa di alluminio, ma di maggiore spessore per resistere alla pressione dell'acqua bollente; il caffè infatti sale e ha bisogno di più fuoco e pressione oltre che di guarnizioni di plastica. La macchina del caffè domestica è un oggetto plurimateriale, di peso molto maggiore di quello delle precedenti caffettiere, ha una potenza intorno ai 1000 w (ma può essere anche maggiore), una pompa intorno ai 20 bar, scambiatori di calore, tubicini e in particolare ha una capsula monodose e monouso.
Dalla napoletana alla macchina del caffè vi è stata un'esponenziale crescita di consumi energetici in fase di produzione e funzionamento, di rifiuti (l'alluminio è completamente riciclabile mentre il plurimateriale è difficilmente scomponibile e riciclabile; dal solo caffè alla capsula di plastica; dall'uso pluridecennale all'obsolescenza programmata).
Non sarebbe stato meglio in termini energetici innovare partendo dal sistema napoletano?

La soluzione è semplice

Nessun documento condiviso a livello internazionale (e meno che mai nazionale) indica come le emissioni siano per gran parte connesse alla produzione di merci (dai prodotti alimentari a tutti quelli utilizzabili dall'uomo), al loro funzionamento, alla loro movimentazione, dismissione e smaltimento e su come sia fondamentale intervenire in questo ambito.
Eppure il collegamento è facilmente comprensibile.
Per produrre merci, per usarle, per smaltirle si consuma energia e quindi si emettono sostanze climalteranti e se le merci sono superflue, monouso, non vengono consumate, al danno si aggiunge l'inutilità dello stesso.
L'eliminazione degli sprechi, con l'adeguamento dei settori produttivi, basterebbe per ridurre le emissioni in maniera tale da risultare sufficiente per stabilizzare le temperature (un altro bell'impegno sarebbe necessario per ridurle).
Sicuramente è necessario uno sforzo (principalmente di intelligenza) ma lo si può fare a cuor leggero, senza ansie, perché è certo che il modello consumistico globale ha portato un benessere parziale, non equo e ha al contempo comportato danni all'ambiente così profondi da mettere in sofferenza una grandissima parte degli abitanti del pianeta.
Il disastro ambientale derivante dal riscaldamento globale non è una necessità imprescindibilmente connessa al benessere (espiazione), si possono trovare forme di benessere migliori di quelle attuali avendo il coraggio di praticare altri modelli sociali, produttivi, economici.

Azzam, lo yacht più grande al mondo

Per una “etica climatica”

Certo gli interessi sono tanti. Tutto il modello economico è basato sul consumo (spreco) di risorse e di merci e lo sforzo di sensibilizzare i governi e di farli aderire ad un programma comune viene ottenuto al prezzo di compromesso che superficializza e rende inefficace la strategia internazionale.
Basandosi sulla consapevolezza di come alcuni comportamenti possano incidere più di altri sulla riduzione delle emissioni (un'auto più piccola vale molte lampadine) si potrebbe concentrare l'attenzione non sull'innovazione tecnologica ma sull'uso dei prodotti e quindi su di una produzione volta a soddisfare effettive necessità, riducendo le quantità (maggiore qualità e durata).
In tale maniera, eliminando gli sprechi, si modificherebbe il modello produttivo e i comportamenti umani con un impegno non paragonabile allo sforzo fisico necessario ad affrontare i cambiamenti climatici (temperature altissime, danni alle coltivazioni, siccità, alluvioni) e che non ci riporterebbe (come sostengono coloro i quali ritengono immodificabile l'attuale modello) all'età della pietra.
Ma per fare questo è importante costruire una scala di valori sui quali esprimere i giudizi e con i quali essere coerenti, dando spazio all'azione autonoma individuale e collettiva per compensare il vuoto decisionale e operativo dei governi e delle amministrazioni.
Non è possibile ipotizzare l'uscita da questa profonda e gravissima crisi che attanaglia, in una pericolosissima indifferenza dei governi, l'umanità senza la diffusione di una cultura che comprenda e sostenga il cambiamento.
Una cultura condivisa che esprime giudizi coerenti con il fine di ridurre le emissioni.
In ragione di ciò, ad esempio, dovrebbero cambiare i giudizi sul tempo: bel tempo non è quando c'è il sole, né brutto tempo quando piove. Bel tempo è quando vi è una condizione metereologica appropriata alla stagione (sole e pioggia) e brutto quando non lo è o quando vi sono elementi estremi (troppo sole, troppa pioggia, ecc).
Oppure, modificare il giudizio sulla crescita della popolazione: siamo tanti, tantissimi, la crescita è troppo veloce, troppo prossima al limite delle capacità del pianeta, rende sempre più difficile l'accesso diretto alle risorse. Il caso italiano (uno dei pochissimi paesi che da anni ha una popolazione numericamente stabile) è una condizione positiva e come tale dovrebbe essere trattata senza avviare rincorse a un'ulteriore sovrannumero e sostegni alle natalità indiscriminate (specie se mosse da obiettivi economici - pensioni - o demagogici).
E dinnanzi al nuovo record di dimensione per uno yacht privato (Azzam: 180 metri, 30 nodi, 605 milioni di dollari) indipendentemente dalla considerazione sulle modalità con cui è stato accumulato il denaro e di quanto questo abbia provocato ristrettezze e povertà in altri, dovrebbe emergere la consapevolezza di un eccesso che ha utilizzato un'enorme quantità di materiali e di energia, un atto volgare, una villania morale che il pianeta e i suoi abitanti non si possono permettere.
Medesimo atteggiamento dovrebbe essere dinnanzi ai grattacieli nel deserto di Doha: un abominio che consuma milioni di tonnellate di combustibili fossili all'anno per permettere di avere fresco in edifici in vetro che non si sono posti in alcuna maniera l'obiettivo di ridurre i consumi. Uno sperpero, uno spreco un atto offensivo.
Stessa critica dovrebbe essere fatta, ad esempio, alle modalità alimentari (e agli sprechi), alla crescente obesità indotta, ai regimi alimentari ipercalorici e pieni di carni, alle automobili con prestazioni impraticabili e sovrappeso, all'abuso di mobilità (anche quello dei viaggi) tutte cose, queste come molte altre, connesse allo spreco di energia e materiali ed alle inutili emissioni di gas climalteranti.

Adattarsi?

Lo scenario che si presenta è caratterizzato dall'estremizzazione e dalla non regolarità dei fenomeni meteo climatici (piogge torrenziali, siccità, uragani, ecc.) con effetti sulla salute delle persone e sulla produzione agricola, e la riduzione delle risorse naturali (acqua, terreni produttivi, foreste in primis).
La strategia dell'adattamento indicata dagli accordi internazionali come pratica, parallela alla riduzione delle emissioni, da attuarsi nell'immediato per mitigare gli effetti dei mutamenti climatici prevede il finanziamento di opere che “difendono” fisicamente le aree maggiormente sensibili agli effetti dei mutamenti climatici (insediamenti ed aree agricole) e dall'altro l'attivazione di azioni volte alla conservazione dei livelli di produttività (serre, colture idroponiche, ogm, spostamenti delle aree produttive, importazioni). Ambedue le tipologie di azione artificializzano il territorio, concentrano la produzione in quei soggetti che sono in condizione di investire e in quei territori che garantiscono condizioni meteo climatiche migliori.
Tale strategia insinua, quandanche involontariamente, l'idea che ci si possa adattare ai mutamenti climatici mantenendo stesse modalità insediative e produttive. Se il diretto accesso alle risorse (ed in primo terra-alimenti, acqua, energia) è un indicatore di libertà e di autonomia degli individui e delle comunità, è assolutamente necessario andare nella direzione di rendere possibile al numero maggiore di persone tale possibilità. E se i mutamenti climatici riducono tale possibilità (desertificazioni, siccità, eventi climatici straordinari) rafforzando l'accentramento delle produzioni e delle ricchezze, le soluzioni adottabili dovrebbero cercare non di difendere le attuali aree di produzione agricola, ma di ripristinare quelle compromesse (aride) investendo (in una logica totalmente contraria a quella degli attuali investimenti) in azioni a bassa o nulla redditività ma che consentano la permanenza delle popolazioni in territori già oggi quasi inabitabili.
In sintesi non si dovrebbe adattare il modello, ma cambiarlo per contrastare, anche questa volta con intelligenza, quei fenomeni che noi stessi abbiamo messo in moto e che non riusciamo a gestire.
E la prima mossa sarebbe promuovere, contrariamente a quanto il modello economico impone (uniformazione, concentrazione della produzione e della distribuzione, monopoli, industrializzazione globale), comportamenti non uniformati: società diverse possono relazionarsi meglio ai luoghi e alle risorse consumando meno energia, creando condizioni più stabili e ottenendo tipi di benessere non esclusivamente fondati sull'accumulazione di denaro.

Adriano Paolella