Tredicesimo emendamento
Ci riferiamo al tredicesimo emendamento della costituzione americana, quello che, nel 1865, abolì lo schiavismo, ma non per tanti afroamericani, che oggi sono vittime di una nuova forma di schiavitù: incarcerati in massa e costretti al lavoro coatto non retribuito per conto di aziende che li sfruttano. Ce ne parla il nostro corrispondente dalla Grande Mela, dopo esser stato in un teatro alternativo. Afroamericano, appunto.
“Sono convinta che un futuro senza prigioni sia possibile.” (Angela Davis, 2014)
Talvolta cammino per le strade di Harlem senza una meta precisa,
con la voglia di immergermi nella New York afroamericana, tanto
diversa dalla stucchevole vetrina neoclassica di Wall Street;
città altra e straniera rispetto all'inferno di schermi
e luci di Times Square, con quelle folle di turisti assiepati
a guardare il nulla.
Mi dicono che vent'anni fa non avrei potuto frequentare queste
strade con la stessa disinvoltura, la zona all'epoca era affollata
di spacciatori e di gente che viveva alla giornata in edifici
che cadevano a pezzi. Negli anni ottanta il crack è passato
fra queste case come una piaga biblica, mietendo vittime fra
i poveri che le affollavano. La politica ha reagito scatenando
la repressione sui più deboli e le galere si sono riempite
di giovani neri e poveri, colpiti da condanne due volte più
pesanti di quelle riservate ai loro coetanei ricchi e bianchi,
che si facevano discretamente di cocaina e avevano il papà
pronto a pagare la cauzione per tirarli fuori dai guai. “Il
prezzo della libertà” è, non a caso, il
titolo di un documentato rapporto pubblicato nel 2010 da Human
Rights Watch per denunciare le disparità del sistema
giudiziario americano. La discriminazione negli USA vive anche
nelle aule dei tribunali. Alla faccia della democrazia.
Oggi il quartiere è più tranquillo di quanto non
dica la sua cattiva fama e i suoi abitanti lo amano, ne conoscono
la storia di lotte e sofferenze e te la raccontano volentieri,
se hai tempo di starli ad ascoltare. Nelle sere d'estate la
gente si riunisce sui marciapiedi fuori casa e si ha la sensazione
di ritrovarsi un un'Africa dove l'appartenenza etnica non conta
più, ciascuno è nero a modo suo e tutti sono afroamericani.
Ma il capitale lavora nell'ombra e sta lentamente cambiando
volto al quartiere. Da qualche tempo fa tendenza e si sono formate
piccole colonie di classe media. Lentamente, gli abitanti più
poveri vengono espulsi. Spuntano negozi con prodotti bio che
solo tasche benestanti si possono permettere, chiaro segnale
di gentrificazione. Però Harlem non cede che lentamente.
Resiste e non cessa di essere un punto di riferimento, il quartiere
afroamericano per eccellenza, simbolo per tutta l'America nera
della resistenza al potere poliziesco, schiavista, segregazionista
e razzista. Resistono il mercato africano sulla centosedicesima
strada e il centro di studi storici sul boulevard Malcom X.
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Scultura politica nel National Black Theatre |
Una barriera insormontabile
Resiste anche il National Black Theatre1
sulla quinta avenue, caposaldo delle lotte degli anni settanta.
Il teatro, fondato nel 1968 da Barbara Ann Teer, è forse
l'unica istituzione nazionale che sia stata sempre diretta da
donne afroamericane. Al suo interno, in una strana confusione
di stanze, scale e corridoi, si trovano statue e pitture donate
da artisti africani; una mostra, in continua evoluzione, con
i nomi e le foto dei neri assassinati dalla polizia; opere d'arte
a sfondo politico di autori contemporanei e un'intera parete
da scrivere col gesso, dove i visitatori possono esprimere,
con un aggettivo, l'orgoglio di appartenere a quella comunità.
L'istituzione resta fedele alla sua missione originaria: promuovere
un teatro alternativo, capace di fondare una nuova narrativa
sulla storia e la cultura dei neri americani, smentire i pregiudizi,
offrire un'interpretazione alternativa della realtà.
Non è poco che abbia resistito ad oltre quarant'anni
di irruzioni della polizia, indagini dell'FBI, arresti e minacce.
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Ingresso del Marcus Garvey Park |
Da quel teatro, qualche tempo fa, siamo usciti, mia moglie
ed io, con gli occhi arrossati e il cuore gravido di dolore
e vergogna. Si rappresentava: “Kill Move Paradise”,
atto unico di James Ljames. L'opera, allestita in modo da mettere
gli spettatori in una condizione di disagio, quasi a contatto
fisico con gli attori, immagina una sorta di limbo nel quale
si ritrovano quattro giovani afroamericani, accomunati dal fatto
di essere stati uccisi dalla polizia senza sapere perché.
Gli attori ti parlano, ti guardano negli occhi. Sudore e spruzzi
di saliva ti raggiungono.
Eppure fra attori e pubblico c'è una barriera insormontabile,
un deserto di incomunicabilità, perché il pubblico
è fatto di viventi, gli attori invece incarnano ragazzi
strappati senza motivo alla vita e rimasti appesi, in un destino
congelato che non sanno spiegarsi. I nomi dei personaggi sono
di fantasia, ma chiunque abbia seguito le cronache di questi
ultimi anni è in grado di dare a ciascuno una nome vero,
il volto di qualcuno che non è più.
“Questa pistola è finta, ma io sono vero!”
ci urlava in faccia Tamir Rice, il ragazzo di dodici anni ammazzato
dalla polizia a Cleveland, Ohio, mentre giocava in un parco
pubblico con una pistola giocattolo. I poliziotti che lo hanno
assassinato, pochi istanti dopo averlo avvistato, non sono nemmeno
finiti sotto processo e la sua anima vaga in quel luogo-non-luogo,
incapace di comprendere perché la sua vita è stata
strappata. Come si poteva uscire da quella sala a cuor leggero?
La luce del sole ci ha accolti come un pugno in faccia. Nel
vicino parco dedicato a Marcus Garvey si rideva attorno alle
bancarelle di una festa di quartiere, ma noi avevamo le facce
scure, sentivamo il dolore dell'impotenza, la vergogna di appartenere
al gruppo degli oppressori, di quelli che non rischiano la polizia
perché la loro pelle è bianca.
Jarrett l'ho conosciuto, per questioni di lavoro, in un caldo
lunedì di inizio estate. Sapevo che fosse un tipo piuttosto
famoso nel mondo dei cestisti, ma è una cosa a cui non
ho dato peso: mai stato appassionato di basket, né mai
avuto il complesso dei divi. Per me quella mattina di giugno
Jarrett era solo Mr. Smith, un giovane afroamericano con cui
avevo un appuntamento di lavoro. La sera prima, su insistenza
di nostro figlio, che lo aveva studiato a scuola, avevamo visto:
“Thirteenth”,2 letteralmente:
“Tredicesimo”, un documentario il cui strano titolo
non ne faceva presagire la drammaticità. Un film, rigorosamente
documentato e ricco di testimonianze, sul sistema carcerario
e sulle ingiustizie del sistema giudiziario statunitense, che
rivela come l'intreccio fra affari e politica abbia portato
alla costruzione di un enorme business della sicurezza e della
detenzione e che documenta come quella connivenza abbia consentito
l'approvazione di leggi pregiudizievoli che si sono risolte
nella persecuzione degli afroamericani e di altre minoranze.
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Scultura
nei pressi del Marcus Garvey Park |
Gli USA: 5% della popolazione mondiale, 25% dei carcerati
Il sipario si apre sulla voce di Barack Obama che, da presidente,
denuncia: “gli Stati Uniti costituiscono il 5% degli abitanti
del pianeta, ma hanno il 25% della popolazione carceraria mondiale”.
Non che Obama abbia poi affrontato la piaga che affligge la
sua gente: avrebbe dovuto mettersi contro molti poteri forti,
colpire lobby e multinazionali, minacciare posizioni consolidate.
Il tutto per tirare fuori dall'abisso carcerario tossici, migranti
e altri derelitti. Neri, latinos e amerindi che dovrebbero ritrovare
un posto in una società competitiva, divisa, emarginante.
In politica, si sa, vince quasi sempre il cinismo e così,
oggi, oltre 2.500.000 di persone affollano carceri con dormitori
da caserma al posto delle celle, luoghi violenti dove i giovani
devono scegliere se diventare crudeli o soccombere.
Thirteenth documenta lo spaccato sconvolgente e nascosto di
un'America in cui le carceri sono vere miniere d'oro per una
massa di affaristi che hanno piegato la legge e sacrificato
la libertà di molti per i loro sporchi interessi. Il
titolo è ispirato al tredicesimo emendamento della costituzione
americana, quello che, nel 1865, abolì lo schiavismo.
L'autrice dimostra che gli afroamericani sono oggi vittima di
una nuova forma di schiavitù: incarcerati in massa e
costretti al lavoro coatto non retribuito per conto di aziende
che sfruttano i detenuti, grazie ad accordi con il sistema penitenziario.
Ciò è possibile perché il tanto decantato
tredicesimo emendamento contiene un'inconcepibile eccezione:
schiavitù e lavoro coatto restano trattamenti ammessi
per i detenuti. Negli USA esiste, ancora oggi, questa forma
legale di schiavismo. La biancheria che indosso mentre scrivo
potrebbe anche essere stata cucita da un detenuto-schiavo e
non avrei modo di saperlo. Rabbrividisco al solo pensiero.
Ecco perché quel lunedì di inizio estate ero turbato
e, mandando a quel paese la deontologia, non ho potuto fare
a meno di parlarne con Mr. Smith. È in quel preciso momento
che lui, per me, è diventato Jarrett. Qualcosa è
scattato, il rapporto professionale si è trasformato
in simpatia, forse addirittura amicizia. Anche la sua faccia
è cambiata, la sua espressione si è alterata,
la voce è divenuta concitata, ha perso il tono neutro
degli incontri di lavoro, ha preso vita improvvisamente; un
altro accento è salito alla gola, quello che sento alla
sera per le strade di Harlem, con le parole e le sfumature tipiche
dello slang degli afroamericani di New York, così diverso
da ogni altro inglese che abbia mai conosciuto; una lingua nata
tra gli schiavi e ancora così viva, luminosa e ricca.
Jarrett mi ha raccontato dei suoi amici, dei suoi stessi familiari;
persone a lui care che si trovano in carcere oggi, adesso, mentre
scrivo; accusate spesso ingiustamente, ma impossibilitate a
cavarsela, condannate senza processo. Mi ha raccontato dell'umiliazione
di essere fermati dalla polizia senza motivo. Della paura, ogni
volta, che vada a finire male. Di gente che non può permettersi
l'avvocato, che non ha soldi per pagarsi la cauzione, che finisce
dentro per una sciocchezza, per l'arroganza di un poliziotto
e finisce per patteggiare una pena per un reato che non ha commesso.
Il dato è impressionante: oltre il 95% della popolazione
carceraria statunitense è rinchiusa senza essere mai
passata da un'aula di tribunale, intrappolata, senza poter pagare
la cauzione. Chi vuole giustizia e libertà se la deve
comprare.
Mi è accaduta una cosa buona, quel giorno. Jarrett ha
avuto un moto di riconoscenza nei miei confronti, per il semplice
fatto di aver condiviso con lui questa angoscia, per avergli
mostrato il mio orrore. Fra la curiosità generale, è
stato lui a volersi fare una foto ricordo con me, col braccio
sulla spalla come due vecchi amici. La conservo con gratitudine.
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Jazz per la strada al mercatino africano di Harlem |
A fianco dei fratelli afroamericani
Nel 1970 Angela Davis fu inserita dall'FBI nella lista dei criminali più pericolosi degli Stati Uniti. Catturata, venne poi scagionata da ogni accusa solo grazie alla grande mobilitazione internazionale che impedì agli Stati Uniti di costruire un processo-farsa come tanti altri che hanno portato alla condanna di attivisti afroamericani.3 Molti ricordano ancora oggi la dignità con cui la Davis si difese, rivolgendo contro lo Stato la stessa accusa di terrorismo che lo Stato le aveva mosso. La Davis, cresciuta nell'Alabama segregata, aveva vissuto sulla sua pelle quella violenza fin da giovanissima, quando quattro bambine, sue compagne di giochi e di preghiere, furono assassinate nella chiesa che la sua famiglia frequentava. A 73 anni la Davis continua la lotta, denunciando il business carcerario.
Di recente un'altra attivista delle Black Panthers, Assata Shakur, è stata inserita nella lista dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti e sulla sua testa pende una taglia da un milione di dollari che spinge avventurieri della peggior risma sulle sue tracce. La Shakur, oggi settantenne, è ricercata per fatti avvenuti nel 1973; si è rifugiata a a Cuba dal 1984 e da allora ha fatto parlare di sé solo come pittrice e scrittrice. Anche ammesso che abbia compiuto i reati di cui è accusata, che senso può avere, oltre trent'anni dopo, inserire il suo nome accanto a quello dei terroristi di Al Queda e dell'ISIS?4 Allora come oggi, secondo la Davis, il senso di quella lista è squisitamente politico, non riguarda l'individuo ma la collettività: serve a scoraggiare molti dall'impegno nella lotta per la liberazione dalle molte oppressioni che, da quattrocento anni, schiacciano gli afroamericani.
Ma l'FBI, con le sue liste di ricercati, i processi truccati e le taglie da Far West, non è riuscita a impedire che i movimenti risorgessero. Black Lives Matters, nato per denunciare i crimini della polizia contro la comunità afroamericana, sta lì a dimostrarlo. Ma, mentre il tema dei neri assassinati dalla polizia ruggisce sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, quello dell'incarcerazione di massa degli afroamericani resta sotto traccia. Le due questioni sono strettamente connesse ed è urgente che gli americani lo capiscano e si mobilitino su un orizzonte più ampio. L'era Obama dimostra che il vero cambiamento non può arrivare dall'alto, neanche quando il presidente è nero. Solo un movimento popolare potrà opporsi a questa barbarie.
Il National Black Theatre è ancora una volta all'avanguardia: la produzione di fine anno, “The Peculiar Patriot”, di Liza Jessie Peterson, affronta proprio la questione dell'incarcerazione di massa e delle nuove schiavitù.
Torneremo al teatro, mia moglie ed io, e forse ne usciremo di nuovo con gli occhi arrossati e il cuore affranto, ma sicuramente anche con la voglia di camminare a fianco dei fratelli afroamericani.
Santo Barezini
- www.nationalblacktheatre.org.
- Il documentario, scritto e diretto da Ava DuVermay, uscito
nel 2016 e vincitore di vari premi, è disponibile su
Netflix.
- È noto il caso di Mumia Abu-Jamal, conclusosi con
la condanna a morte (successivamente convertita in ergastolo
“ostativo”) con un processo farsesco che Amnesty
International ha condannato a causa della totale assenza di
garanzie giuridiche per l'imputato.
- Si veda il sito fbi.gov/wanted/wanted_terrorists.
La Shakur vi è indicata con il nome di nascita Chesimard.
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