rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017





Antifascismo, Resistenza, nonviolenza/
Sulle orme di Aldo Capitini

Il libro di Alfonso Navarra e Laura Tussi Antifascismo e nonviolenza (Mimesis, Milano, 2017, prefazione di Adelmo Cervi, contributi di Fabrizio Cracolici e Alessandro Marescotti, pp. 82, € 7,00) rilancia il binomio antifascismo e nonviolenza, un filone al centro del dibattito politico e culturale del Novecento in varie parti dell'Europa.
In Italia il personaggio chiave di questo pensiero è certamente Aldo Capitini, fondatore con Guido Calogero del liberalsocialismo, perseguitato dal regime fascista, arrestato e incarcerato nel 1942 e 1943, a Firenze e Perugia. “Parlare della Resistenza italiana - scrive Capitini nell'inedito “La Resistenza italiana” del 1955 - non sarebbe completo né esatto, se non si estendesse il termine a comprendere non soltanto la Resistenza armata dall'8 settembre '43 al 25 aprile '45, ma anche la resistenza politica, morale, ideologica, che fu dal 3 gennaio 1925”.
Sempre nel 1955, nello scritto autobiografico, “Sull'antifascismo dal '31 al '43”, Aldo Capitini rafforza ulteriormente il progetto di una Resistenza non violenta. “Il periodo della Resistenza armata - osserva Capitini - non esaurisce la Resistenza, in quanto essa è stata qualche cosa di più complesso di un'azione armata, anche qualche cosa di più durevole della fine pura e semplice di quel regime”. E in un altro scritto del 1967, “Aspetti dell'opposizione etico-culturale al fascismo”, Capitini osserva che “l'opposizione non è che la lunga premessa morale, culturale e politica di quella che poi è stata detta «Resistenza» e che ne è l'esecuzione, per così dire, armata”.
In sostanza, Capitini non rinuncia alla lotta contro il fascismo, non si sottrae allo scontro, anche durissimo, ma sceglie una seconda via: l'antifascismo della nonviolenza. Si tratta di un pensiero scomodo nell'Italia dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, un periodo in cui le posizioni in campo sono due: la brutalità del regime fascista e la contrapposizione dell'opposizione armata.
“Non volevo né criticare ciò che altri avevano fatto con tanto coraggio ed eroismo, né perdere quella doverosa affermazione che mi toccava, di un metodo diverso, del sogno che gli italiani si liberassero da sé dal fascismo con un'eroica non collaborazione e disobbedienza civile”. In “Note di antifascismo nazionale e perugino”, Capitini cita il metodo gandhiano della non violenza.
“I miei amici sanno che il mio pensiero e il mio sogno era che in Italia sorgesse una non collaborazione generale, coraggiosa, tenace, secondo il metodo di Gandhi, negando ogni appoggio al fascismo e ogni mezzo, ma senza torcere un capello a nessuno; e in poche settimane il regime avrebbe finito di funzionare, e non sarebbero venuti gli immensi disastri di poi”.
Quella di Capitini non è una teoria isolata, bensì un sogno interrotto, una utopia non realizzata, una buona pratica mal interpretata. In molti l'hanno fatta propria prima, durante, dopo il fascismo: padre Ernesto Balducci, don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Riccardo Tenerini, Alex Langer, fino a Stéphane Hessel, a cui si ispira il lavoro di Navarra e Tussi. “La nonviolenza è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere”.
L'indicazione di Hessel resta attuale, ancora oggi, negli anni in cui il fascismo sembra imperversare lungo le vie d'Europa.

Daniele Biacchessi



Antispecismo/
Una questione di passione?

Si potrebbe definire l'ultimo libro di Massimo Filippi, Questioni di specie (Elèuthera, Milano, 2017, pp. 120, € 13.00), un libro sulla passione. La passione degli animali, innanzitutto: il dolore immane e l'orrore inimmaginabile delle moltitudini animali sterminate e oppresse dalla violenza istituzionalizzata del loro sfruttamento e messa a morte. Ma anche la passione, vitale, dell'antispecismo che ascoltando e amplificando il gioioso grido libertario del movimento animale indica una nuova politica della comunità a venire.
Il testo di Filippi mira, con profondità e chiarezza d'analisi e mediante un percorso graduale - che passa attraverso la preliminare definizione di che cosa siano la questione animale e lo specismo - proprio alla caratterizzazione di questo antispecismo. E cioè di «un movimento politico di critica radicale dell'esistente» (p. 15) che sia in grado di resistere e di arrestare le contrazioni digestive di quell'eccezionale «apparato digerente» (p. 16) che è il capitalismo contemporaneo e di sviluppare, finalmente, altre specie di prassi e di pensiero chiedendo, né più né meno, la liberazione animale. Il capitalismo ha mostrato, infatti, una straordinaria capacità di resilienza di fronte alle diverse istanze antagoniste che nel corso del tempo ne hanno perturbato l'ordine: femminismi, movimenti Lgbt, ecologismo, movimenti per la libertà di migrazione... Non solo ha resistito e continua a resistere al loro urto, ma ha anche la forza di neutralizzarne la carica sovversiva e, grazie all'attuale neoliberalismo imperante, di trasformarle in innocui stili di vita o, meglio – scrive Filippi –, in redditizi «stil[i] di consumo» (p. 17). Meccanismi fagocitanti di questo tipo sono già all'opera anche nel caso del movimento per la liberazione animale: basta pensare alla crescente fetta di mercato vegan o al proliferare del concetto di benessere animale la cui ipocrisia strategica è funzionale al permanere dello sfruttamento e dell'uccisione dei corpi animali.
Questioni di specie assume allora un'importante valenza militante – oltreché teorica – configurandosi come punto di riferimento, e di partenza, per un pensiero che aspiri alla resistenza e sovversione dell'ideologia e delle pratiche di dominio, tanto dell'uomo sull'animale quanto dell'uomo sull'uomo. La tesi del saggio, sostenuta con fermezza da Filippi, è infatti che «il sistema di smembramento di tutti i corpi (umani inclusi) continuerà a funzionare a pieno regime finché le bestie saranno trattate come sono trattate» (p. 18). Da ciò segue la necessità stringente di un antispecismo intersezionale, capace di contaminarsi, a livello analitico e di lotta, con altri movimenti politici di liberazione ed emancipazione di più lunga esperienza. Ma anche la necessità che questi stessi movimenti inizino a prendere sul serio le questioni di specie, smettendo di considerarle faccende di secondo piano per poche anime belle e rivedendo, criticamente, il loro antropocentrismo.
Il libro di Filippi non è soltanto un libro su questo antispecismo a venire, ma è già un libro intersezionalmente antispecista che fin dal titolo si ibrida con il pensiero femminista-queer, rinviando al suo testo inaugurante, opera della filosofa americana Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, tradotto in italiano come Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità. Non si tratta di un collegamento puramente nominale, ma di una continua interlocuzione che, grazie a un'approfondita conoscenza, può provocare gli strumenti concettuali elaborati in questo ambito per spingerli oltre le soglie dell'umano.
Così Filippi può lavorare alla decostruzione della dicotomia gerarchica di uomo/animale, mostrando che anche il sostantivo “uomo”, come i suoi attributi di maschio, bianco, eterosessuale... già decostruiti dalle rispettive teorie critiche, ha ben poco a che fare con la biologia e molto con la politica. Anche il dualismo uomo/animale, che legittima ideologicamente lo smembramento dei corpi, e i dispositivi che effettuano tale smembramento sono costituiti in modo analogo a quanto succede nel caso del binarismo di genere con la norma eterosessuale, ossia sono prodotti da, ed entro, una cornice normativa: la norma sacrificale.
L'autore, inoltre, non esita a intersecare ulteriormente il riferimento alla riflessione femminista e queer con i “suoi” filosofi (Adorno, Agamben, Nietzsche, Deleuze, Foucault... per non citarne che alcuni), al fine di sviluppare questo nuovo antispecismo, che prende il nome di antispecismo del comune. Dopo i cosiddetti antispecismo dell'identità – volto all'estensione del riconoscimento morale a certi animali in quanto dotati di caratteristiche (quasi) propriamente umane – e antispecismo della differenza – volto alla moltiplicazione delle linee di differenza tra l'uomo e l'animale – prende forma un pensiero che non traccia più alcuna linea, rifiuta l'esistenza stessa di un “proprio” dell'uomo e spicca il volo verso l'impropria relazionalità del comune. «Il comune – scrive Filippi – è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la capacità tutta “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione» (p. 76).

Chiara Stefanoni

1. Che cosa sia il fenomeno del dominio, nel suo diversificarsi da quello del potere e dalla violenza, è precisato dall'autore in una pagina tanto agile quanto concettualmente fondamentale. «Il dominio si realizza nell'assoggettamento annichilente, nel controllo sistematico, assoluto, totale, capillare e completo sulla vita di chi, più che oppresso, è già-morto. [...] In ambito intraumano il nonluogo dove il dominio si manifesta compiutamente è il campo di sterminio, dove impossibilità di resistenza e invisibilità sociale raggiungono il loro acme» (p. 35).



Sacco e Vanzetti/
La loro storia, i funerali, le ceneri

Novant'anni fa due lavoratori anarchici - innocenti - vengono uccisi sulla sedia elettrica nel carcere di Charlestown, Boston Massachusetts, pochi minuti dopo la mezzanotte tra il 22 e il 23 agosto 1927, a distanza di pochi minuti l'uno dall'altro.
I loro nomi e la loro storia sono noti in tutto il mondo. Sono il calzolaio pugliese Nicola Sacco (Torremaggiore, Fg, 1881) e il pescivendolo piemontese Bartolomeo Vanzetti (Villafalletto, Cn, 1888), emigrati negli Stati Uniti e attivi politicamente nei circoli e nei giornali anarchici, lettori e collaboratori del settimanale «Cronaca Sovversiva». La notte del 3 maggio 1920 il tipografo anarchico Andrea Salsedo «vola» dal 14° piano del palazzo della polizia di New York sfracellandosi sul marciapiede. La sera del 5 maggio, in compagnia di Nicola Sacco, su un tram, Vanzetti - che si era già occupato dell'arresto segreto di Salsedo - è arrestato e gli trovano in tasca un volantino per un comizio di protesta per l'illecita detenzione e per la tragica morte del tipografo siciliano. Li incolpano di una rapina a mano armata e della morte di due persone. Sulla base dei pregiudizi politici e razziali sono condannati alla pena capitale. Al processo il Procuratore Generale Fedrerik Katzmann era stato chiaro: «Se anche non fossero colpevoli di rapina e di omicidio, sono colpevoli di essere anarchici ed italiani». In tutto il mondo si susseguono manifestazioni per strapparli alla sedia elettrica. All'inizio il quotidiano anarchico «Umanità Nova» e altre testate registrano in Italia oltre seicento manifestazioni a loro favore. Poi il fascismo mette tutto a tacere. Solo qualche giorno prima dell'esecuzione, mentre il re tace, Mussolini - che ha riempito le prigioni e il confino di anarchici - senza alcuna convinzione, fa un superficiale intervento a loro favore.
Vanzetti esprime il desiderio di vedere una delle sorelle ed è raggiunto da Luigina. Sacco vorrebbe essere sepolto al suo paese. Dopo l'esecuzione e il funerale del 28 agosto i loro corpi vengono cremati e una metà delle ceneri destinate in Italia. In carcere respingono coerentemente più volte l'offerta dei conforti religiosi. Sacco muore da solo, senza aver visto nessuno dei suoi familiari, che non si sono spostati e Rosa Zambelli, la moglie, nei sette anni di galera del marito, non ha quasi mai avuto rapporti con Torremaggiore.
Al funerale, otto miglia sotto la pioggia, partecipa una folla di oltre mezzo milione: uomini e donne sfilano con un feltro rosso - distribuito dagli anarchici - al braccio con la scritta nera in inglese: «Remember. Justice Crucified August 23, 1927». «Ricordate! La Giustizia è stata crocefissa il 23 agosto 1927!». Eleganti, composti e tristi, in giacca e cravatta o con il papillon, gli operai, i minatori, i calzolai, i contadini anarchici. La polizia, che vieta bandiere e cartelloni, carica i partecipanti. Il Defense Committee «Sacco and Vanzetti» di Boston, consapevole dell'importanza dell'evento funebre, incarica alcuni cineoperatori di riprendere di nascosto e clandestinamente il funerale con cineprese collocate lungo il percorso, per documentarlo ai posteri. Lo stesso giorno il governo ordina tassativamente la distruzione dei filmati, ma la preziosa pellicola di 4'30'' viene sottratta alla distruzione, finendo in mani anonime e solo nel 2014 è stata restaurata e resa pubblica.

Luglio 1921. Dal carcere al tribunale di Dedham il percorso è breve:
Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, ammanettati, vengono
accompagnati a piedi, tra due ali di folla, dagli ispettori di polizia

Dopo la cremazione, viene deciso che una porzione delle ceneri di Sacco verrà mandata in Italia e una delle ceneri di Vanzetti rimarrà negli Stati Uniti e saranno entrambe custodite da Rosa Zambelli. Luigina accompagna nel viaggio per l'Italia le ceneri di entrambi, che sono custodite in due urne separate e distinte collocate in una cassetta. All'arrivo in Francia la polizia le sequestra per consegnarle alla polizia italiana che le porterà a Villafalletto, dove - senza tener conto del rifiuto ai conforti religiosi opposto in carcere - sono benedette dal parroco. Il 14 ottobre le ceneri di Vanzetti vengono seppellite, quelle di Sacco proseguono per Torremaggiore e sono seppellite il giorno dopo. Temendo manifestazioni sovversive il paese è presidiato dai carabinieri. Ciò nonostante al loculo - sul quale le autorità vietano di scrivere il nome - appesa ad un chiodo, viene trovata una corona di fiori rossi. Il colore fa infuriare le autorità, che fermano il fioraio Gino Moffa, ma è rilasciato poco dopo. Per paura di altre manifestazioni, la tomba è sorvegliata anche di notte! E il due novembre, il giorno dei morti, è guardata a vista per impedire capannelli e depositi di fiori.

Dall'interno della gabbia dove sono collocati, in una pausa durante
processo, i due italiani riescono anche a dialogare con la moglie di Nicola
Sacco, «Rosina», ovvero Marianna Teresa Rosa Zambelli, nata a
Lonato sul Garda (Brescia) il 13 giugno 1895

Due cartoline su Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti
(Archivio Galzerano Editore)

Intanto in America le ceneri sono custodite da Rosa Zambelli nel giardino di casa, a Millis dove si è trasferita. Luigina vorrebbe quelle del fratello a Villafalletto e nel 1930 vengono recuperate dall'anarchico Emilio Coda, che le affida alla famiglia di Alfonsina e Vincenzo Brini, con i quali Vanzetti ha vissuto a lungo. Nel 1949, in occasione del suo primo viaggio in Italia, Alfonsina pensa di consegnarle a Luigina, ma Aldino Felicani, giornalista anarchico, responsabile del Comitato, amico dei due anarchici, è contrario e - spiega in una lettera a Luigina - vorrebbe custodirle in un monumento da costruire a Boston per perpetuare la memoria di Sacco e Vanzetti. Rimangono ancora nelle mani di Alfonsina Brini che nel 1966 le consegna ad Aldino Felicani, che scompare l'anno dopo. Il 26 ottobre 1979 i figli Anteo e Arthur Felicani donano l'urna con le ceneri di Vanzetti e tutto il prezioso materiale del padre (lettere, foto, giornali, libri, ecc.) alla Boston Public Library, che lo custodisce e ha digitalizzato il fondo Felicani. Le ceneri di Nicola Sacco invece sono andate disperse.

Il 7 agosto 1927, durante il viaggio verso gli Stati Uniti, Luigina Vanzetti
partecipa ad una grandiosa manifestazione di protesta a Parigi

A Boston, il 28 agosto 1927, il funerale di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti,
la «Marcia del dolore», prende l'avvio da Hanover Street, dove ha sede l'impresa di pompe
funebri di Joseph Langone, e raggiunge il cimitero di Forest Hills, dov'è
il «crematorium». Si snoda per un percorso di 13 km

Alla vicenda del funerale e delle ceneri è dedicato l'appassionante volume con la ricerca di Luigi Botta La marcia del dolore. I funerali di Sacco e Vanzetti, una storia del novecento (Nova Delphi Editrice, Roma, 2017, pp. 190, € 18,00) che ricostruisce e documenta nei minimi dettagli tutti i passaggi. È un argomento insolito, inedito e sconosciuto, il funerale e le ceneri. Analizzando e ordinando cronologicamente i vari documenti, Botta segue i fatti con meticolosa precisione e con una straordinaria partecipazione umana, culturale e politica, chiarendo - con linguaggio toccante e penetrante - i passaggi oscuri. Narra in maniera avvincente, passo dopo passo, particolari inediti e di grande interesse e, documenti alla mano, smentisce la diceria delle ceneri mescolate e sepolte insieme. Nel bel libro - al quale è allegato il dvd di Fabiana Antonioli della Filmika di Torino, con il prezioso filmato del funerale, The March of Sorrow, e un'intervista all'autore - Luigi Botta, che da anni raccoglie in tutto il mondo materiale sulla vicenda, troviamo la cronaca puntuale e in presa diretta di quei drammatici e ancora oggi coinvolgenti e indelebili eventi, che da novant'anni fanno parte della storia del movimento anarchico, operaio e rivoluzionario.

Giuseppe Galzerano



Rivoluzione russa/
La disillusione di Emma Goldman

È uscito da poco Un sogno infranto. Russia 1917 (Zero in Condotta, Milano, 2017, pp. 120, € 10,00), antologia di scritti di Emma Goldman, inediti in italiano, a cura della nostra redattrice Carlotta Pedrazzini e con postfazione di Daniele Ratti. Ne pubblichiamo qui l'introduzione della curatrice.

Ad un secolo esatto dalla rivoluzione russa, il mito bolscevico non è ancora stato sfatato, così come la credenza che rivoluzione e bolscevismo siano sinonimi.
È questo che rende gli scritti sulla rivoluzione russa di Emma Goldman (1869-1940) così ostinatamente attuali, nonostante i decenni trascorsi. E tali resteranno fino a che la verità su quegli anni non confuterà le analisi falsate che hanno influenzato il mondo fin dai primi mesi che seguirono la rivoluzione.
Quando, il 21 dicembre 1919, il governo degli Stati Uniti imbarcò forzosamente Emma Goldman sulla nave Buford diretta in Russia – insieme ad Alexander Berkman e ad altri 247 immigrati colpevoli di avere opinioni politiche non gradite – l'anarchica “più pericolosa d'America” era sinceramente convinta che i bolscevichi fossero i portatori delle istanze libertarie espresse dal popolo russo durante le sollevazioni del febbraio e dell'ottobre 1917.
Goldman, una delle esponenti più influenti del movimento anarchico statunitense, si schierò inizialmente dalla parte dei bolscevichi, seppur marxisti, difendendoli dagli attacchi che la stampa e le forze politiche statunitensi avevano rivolto ai rivoluzionari russi. Tra il 1917 e il 1918 scrisse articoli in loro sostegno e tenne conferenze in diversi stati americani per far conoscere quella che, in quel momento, riteneva fosse la verità sui bolscevichi.
Una volta messo piede sul suolo russo, però, la scoperta della dittatura instaurata dal partito comunista trasformò il sogno di essere approdata nella terra della rivoluzione sociale in un orribile incubo. Alla sua entrata in Russia, nel gennaio del 1920, il regime dittatoriale era già nel pieno delle sue forze. Persecuzioni, uccisioni sommarie, incarcerazioni, privilegi, militarizzazione del lavoro, povertà, carestie, requisizioni forzate dei raccolti, violenze, prevaricazioni, tutto questo e molto altro accadeva nella Russia post-rivoluzionaria.
Di ciò per cui la popolazione aveva lottato tra il febbraio e l'ottobre del 1917 – ossia uguaglianza, giustizia sociale, autodeterminazione, libertà, un sistema di soviet autonomi – non c'era traccia. Se non nella propaganda del governo bolscevico.
Il popolo russo si era battuto per la rivoluzione sociale, ma il processo di emancipazione che aveva messo in moto si era scontrato con la sete di potere dei bolscevichi, arrestandosi definitivamente. Con il pretesto della guerra civile, del blocco da parte dei paesi occidentali e della controrivoluzione, Lenin e il suo partito avevano messo da parte le richieste della popolazione, chiedendo di attendere tempi migliori per la loro realizzazione. Ma quel futuro, come sappiamo, non arrivò mai.
Quando giunse in Russia, la cinquantenne Emma Goldman aveva alle spalle tre decenni di lotta per l'emancipazione sociale spesi tra le file del movimento anarchico statunitense. La convinzione che in Russia si fosse realizzato ciò per cui aveva sempre combattuto ostacolò la presa di distanza dai bolscevichi, anche quando i segnali di una deriva negativa erano evidenti. A quel tempo (gennaio 1920-dicembre 1921, tanto durò la sua permanenza in Russia) molti anarchici in tutto il mondo avevano già espresso critiche e perplessità nei confronti del governo comunista e della cosiddetta “dittatura del proletariato” instaurata nel paese. Eppure Goldman faticava ad ammettere il fallimento.
Solo dopo quindici mesi di attente osservazioni e analisi della situazione sociale, politica ed economica, Goldman riuscì a riconoscere che la rivoluzione sociale era stata definitivamente sconfitta. Non dai controrivoluzionari, ma dai bolscevichi. Gli stessi per i quali in passato aveva speso parole entusiastiche.

Una sola possibilità: andare all'estero e...
Mentre tutto volgeva al peggio, mentre la Ceka imprigionava e giustiziava arbitrariamente anarchici e oppositori e la carestia uccideva la popolazione, mentre il governo disponeva la militarizzazione del lavoro e le requisizioni, accanendosi su operai e contadini, Goldman non era rimasta a guardare. Aveva incontrato diversi leader comunisti per esporre le sue perplessità e tentare di far valere le istanze degli oppressi; aveva persino incontrato Lenin per avere chiarimenti, nella speranza di riuscire in qualche modo ad influenzare il terribile corso degli eventi. Fu nel marzo 1921, dopo la rivolta dei marinai di Kronstadt repressa nel sangue, che Goldman capì di non aver alcun margine di azione. Nello Stato comunista russo non c'era spazio per quei rivoluzionari che, come i marinai di Kronstadt, chiedevano che venissero rispettate le richieste di libertà, uguaglianza e autodeterminazione avanzate dal popolo nel 1917.
Goldman realizzò così di avere un'unica possibilità: recarsi all'estero per raccontare al mondo cosa stesse effettivamente succedendo in Russia, nella speranza di innescare un movimento di solidarietà internazionale con i prigionieri politici. Insieme agli anarchici Alexander Berkman e Alexander Shapiro, l'1 dicembre 1921, ventitré mesi dopo il suo arrivo, Emma Goldman lasciò definitivamente la Russia per non farvi mai più ritorno.
A partire dal 1922, redasse diversi articoli a denuncia della situazione politica e socio-economica russa, alcuni dei quali sono raccolti in questo libro. Il senso di pubblicarli oggi, a un secolo di distanza dalla loro stesura, è dato dal principio “didattico” con il quale furono scritti e dall'amore per la verità che, a suo tempo, li ispirò.
I testi di Emma Goldman sulla rivoluzione e sul seguente regime comunista possono essere considerati un manuale di interpretazione e di riferimento per tutti i movimenti sociali, non solo per quello anarchico. Le riflessioni che Goldman concepì sulla rivoluzione hanno travalicato lo spazio e il tempo di quegli accadimenti e si sono spinte a toccare le più generali questioni dell'autoritarismo, del significato delle rivoluzioni, del potere, della dittatura, della violenza. Considerazioni importanti, straordinariamente valide, con le quali tutti gli esponenti dei movimenti socialisti e alternativi del mondo dovrebbero fare i conti. Inoltre, riportare le testimonianze dirette – e per lungo tempo ignorate – di un'esponente del movimento rivoluzionario, riguardanti un evento così significativo come la rivoluzione russa, è un essenziale esercizio di verità storica. Reso ancora più importante dalla completa dissonanza rispetto alle versioni ufficiali di regime.
Sarebbe positivo se la stessa credibilità che quasi unanimemente è riconosciuta a Emma Goldman nel campo dell'emancipazione femminile si estendesse anche alle sue analisi sulla rivoluzione russa. Si tratta di riflessioni che certamente si inseriscono in una più vasta concezione anarchica, ma che – proprio per la ricerca della verità che le ha ispirate – non sono affatto il frutto dell'ideologia. Lo dimostra il drastico cambiamento di valutazione sull'operato dei bolscevichi avuto da Goldman tra il 1917 e il 1921.

Profonda e indiscutibile onestà
Proprio questo cambio di rotta le procurò, e le procura tuttora, critiche da alcuni aderenti al movimento anarchico che non le perdonano il ritardo con cui arrivò a prendere le distanze dai comunisti al potere. In realtà, quella che alcuni considerano una sbavatura o una debolezza di pensiero è ciò che, ancor di più, conferisce valore alle sue valutazioni, unicamente frutto di un'incontrovertibile realtà che le si pose di fronte e con cui dovette fare i conti.
Sebbene fosse una donna con solidi riferimenti ideologici, Emma Goldman non lasciò mai che la rigidità teorica offuscasse il suo sguardo scientifico e sincero sul mondo. Probabilmente una visione più dogmatica degli eventi russi le avrebbe impedito di esprimersi inizialmente a favore del regime bolscevico, risparmiandole quella che fu per lei una delle più drammatiche disillusioni politiche e personali. Di certo, però, le sue considerazioni non avrebbero avuto lo stesso valore. D'altra parte, la riconosciuta rilevanza di Goldman non deriva dalla sua infallibilità, ma dall'aver prodotto delle analisi sul mondo, sull'emancipazione sociale e sull'anarchismo tanto valide quanto sofferte. Sempre pervase da una profonda e indiscutibile onestà. [...]

Carlotta Pedrazzini



Pedagogia/
Buoni e cattivi maestri

I cattivi maestri, quelli, veri, sono altrettanto rari e preziosi dei buoni maestri, particolarmente in un'epoca di uniformizzazione e conformismo nascosti sotto la coltre delle immagini scintillanti dello spettacolo. Entrambi, lontani dall'accademia e dal mainstream, rischiano strade poco frequentate in prima persona, senza titoli, paraventi, inclassificabili e irrecuperabili. Entrambi ci insegnano a pensare con loro e contro di loro. Forse mentre i buoni maestri ci spingono a trovare le nostre strade scavando in profondità, i cattivi maestri aprono vie di fuga inaspettate,
Di questi ultimi si occupa il libro di Paolo Mottana, Cattivi maestri. La controeducazione di René Schérer, Raoul Vaneigem e Hakim Bey (Castelvecchi, Roma, 2014, pp. 128, € 14,50). Insegna filosofia dell'educazione in Bicocca a Milano, è autore tra l'altro di Antipedagogie del piacere. Sade Fourier e altri erotismi (Angeli 2008), Piccolo manuale di controeducazione (Mimesis 2012) e tiene da anni un blog dal titolo Controeducazione (contreducazione.blogspot.it), in cui insegue pensieri controvento e in cui si può leggere:
“La controeducazione, contrapposta alla triste scienza dell'ortopedia e dell'ingessatura, della mummificazione del cucciolo d'uomo e delle sue ulteriori figure sull'altare del conformismo e della passivizzazione, dell'ascetismo e della rinuncia, dell'immolazione al sacrificio, alla fatica, alla crocifissione, all'inginocchiamento, reali o metaforici, contrappone l'esaltazione affermativa dell'immaginazione, delle emozioni, del corpo e del piacere”. Bello no?
È emozionante trovare in qualcuno che non si conosce direttamente, frequentazioni e passioni verso autori amati, in particolare, almeno per me, Vaneigem, che continuo a leggere dai tempi del bellissimo Trattato di saper vivere a uso delle giovani generazioni, testo che ha mezzo secolo, ma a rileggerlo oggi è di una freschezza e di un'attualità sorprendenti, cosa che raramente accade ai testi “militanti” che a volte oltre che triti diventato tristi.
Uno dei fili comuni che legano il pensiero di questi autori diversi è il tema del desiderio e delle passioni che si riallaccia alla grande esplosione del Sessantotto (e forse ancor di più per l'Italia del Settantasette), o per dir meglio della liberazione dei desideri, dal principio di produzione e prestazione e dalla mercificazione dominante.
Il primo, Schérer (nato nel 1922), filosofo, autore di alcuni testi fondamentali e purtroppo (non a caso) dimenticati (e occultati) come Emilio pervertito (1974 della benemerita Emme edizioni, reperibile sul sito educareallaliberta.org) e Co-ire. Album sistematico dell'infanzia (Feltrinelli 1979), ha cercato di restituire al bambino quella passionalità e quel desiderio anche erotico che, se non sono stati negati, sono stati deviati e inquadrati dentro le maglie dei regimi pedagogico, familiare, psicologico. Sono bambini in fuga quelli di Schérer (e di Deligny1), come quelli di Truffaut, in fuga dalla scuola, dalla famiglia, dall'infantilizzazione che li priva di passioni e desideri esorbitanti e improduttivi, gioiosi ma talvolta selvaggi, che ci guidano in una sorta di wilderness poco frequentata dagli educatori2.
Ma, e qui è un punto centrale, e critico, l'uscita dal “campo pedagogico”, comunque qualificato, porta a vedere il bambino e l'infanzia liberati come cifre essenziale della liberazione totale. La sua apparente incompletezza e imperfezione su cui si accaniscono le orto-pedagogie è in realtà tensione continua verso l'alterità, vitalità ingovernabile, sovrabbondanza d'essere, apertura verso altri regni, oltre-umani. I riferimenti essenziali di questa traversata oltre l'umanismo (che fa del bambino un uomo in divenire), sono senz'altro Gilles Deleuze e Charles Fourier a cui Schérer ha dedicato diversi studi, autore di una utopia al cui centro stanno le passioni, le loro composizioni e scomposizioni per la realizzazione di una nuova armonia sociale.
Altro appassionato di Fourier è un altro cattivo maestro del libro di Mottana, Hakim Bey, pseudonimo di Peter Lamborn Wilson (nato nel 1945), noto in Italia soprattutto per il suo scritto sulle TAZ. Zone temporaneamente autonome, (Shake edizioni 1993, disponibile online). Inclassificabile rivoluzionario (o forse meglio dire insorgente), sufi, mistico, sciamano, cyberpunk, luddista e primitivista, poeta e visionario. Molto contestato e chiacchierato anche nel mondo anarchico per le sue tendenze mistiche, accomunato ai primitivisti come Zerzan, Hakim Bey ha continuato il suo percorso solitario per fortuna senza ingessarsi, né lesinare in autocritiche e cambiamenti di rotta. Come scrive all'inizio della prefazione alla sua ultima raccolta di scritti Anarchist Ephemera “questa raccolta di pezzi effimeri e fuggiaschi degli ultimi vent'anni più o meno (dal 1990 al 2013) dev'essere incorniciata da una prefazione in cui io possa dissentire da me stesso”3.
L'insistenza di Hakim Bey sulla liberazione ora (il suo immediatismo) deriva dalla delusione e la totale mancanza di fiducia verso progetti messianici ed escatologici che, come dice scherzosamente citando l'Alice di Lewis Carroll, parlano di “marmellata ieri o marmellata domani, ma mai marmellata oggi”4, in fondo figli di una cultura del sacrificio.
Nell'immediatismo di Hakim Bey, dice Mottana, si cerca di eliminare ogni strumento che riduca l'impatto fisico e sensuale della creazione e che soprattutto renda più facile la sua recuperazione da parte dei sistemi di mediazione egemonizzati dal Capitale”5. Ecco allora l'irruzione delle TAZ, zone autonome temporanee, atti di creazione effimera che attraverso la liberazione del desiderio letteralmente creano un nuovo spazio-tempo che è un tempo di festa, lo spazio di un'utopia realizzata, instabile e repentina. “la TAZ è “utopica” nel senso che prevede un'intensificazione della vita quotidiana o come avrebbero potuto dire i surrealisti, la penetrazione della Vita da parte del Meraviglioso”6. Sono piccole isole le TAZ che esistono anche in esperienze storicamente lontane: nelle comunità di pirati, nelle azioni luddiste, nelle comuni di Parigi e Marsiglia, ma che continuamente si creano e scompaiono come onde nell'Oceano del caos.
La grande suggestione del pensiero di Hakim Bey sta nella sua capacità straordinaria di montare nel suoi costrutti teorici materiali del tutto eterogenei, appunto come si diceva dal sufismo e sciamanesimo a Stirner e Nietzsche, senza tema di contraddizione. Come scrive Mottana, si tratta di quello che Bey definisce terrorismo poetico, “pratica attiva di sabotaggio e destabilizzazione ironica e arguta, autentica messa in pratica di quell'”anarchismo ontologico” esso stesso generato dalla inarrestabile facoltà di invenzione ossimorica di Bey, di autentica prassi contraddittoriale del pensiero”7.
È una pratica creativa che affonda chiaramente le sue radici nell'estetica dell'avanguardia, in particolare dadaismo e surrealismo, avanguardie a cui è legato attraverso il situazionismo anche l'ultimo maestro di cui si occupa il libro, Raoul Vaneigem (nato nel 1934). Dopo il successo del Trattato del 1967 già citato, ha continuato a lavorare in disparte a ricerche sulle eresie e senza lasciare mai il punto di una contestazione sociale radicale.
Ha scritto tra gli altri8 un bel libro contro la scuola, La scuola è vostra, recensito qui anni fa9. Anche lui fourierista, mette al centro della sua riflessione il desiderio e le passioni, prosciugate dal potere mortifero della società mediatica e mercantile e in via di sparizione. In questo modo la vita diventa sopravvivenza, un banchetto di avvoltoi sopra un mondo in rovina. “Non c'è niente che uccida con maggiore certezza che l'accontentarsi di sopravvivere”10. E ci sono pochi testi, almeno per me, che abbiano come quelli di Vaneigem il potere di scuotermi dal torpore della sopravvivenza, di riaccendere le passioni, di spingermi alla rivolta contro la rassegnazione con un linguaggio poetico straordinario. La creatività non è qualcosa destinata a poeti, grafici e stilisti: ci appartiene, a noi tutti, ed è in grado di fare quella rivoluzione della vita quotidiana di cui abbiamo sempre e comunque bisogno per vivere e non sopravvivere. E il cattivo maestro Vaneigem non può che proporci la sua visione della scuola trasmutata: “Occupate dunque gli edifici scolastici invece di lasciarvi contagiare dalla rovina programmata. Abbelliteli a vostro piacimento, la bellezza infatti incita alla creazione e all'amore, mentre la bruttezza attira l'odio e l'annientamento. Trasformateli in laboratori creativi, centri d'incontro, in parchi d'intelligenza attrattiva. Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, alla maniera degli orti che i disoccupati e i bisognosi non hanno ancora avuto l'immaginazione di impiantare nelle grandi città, sfondando l'asfalto e il cemento”11.
Dobbiamo ringraziare Paolo Mottana che, con la sua vendemmia, ci ricorda che vino inebriante stilla dai cattivi maestri e quanto, al contrario, è insipida l'acquetta in cui è immerso il chiacchiericcio pedagogico corrente. A noi, come bravi sommelier, la sfida di abituare il palato a gusti e combinazioni sempre nuove e sorprendenti. Un buon bicchiere di vino al giorno, toglie il pedagogico di torno.

Filippo Trasatti

  1. Mottana riprende da Schérer una citazione di Deligny particolarmente significativa: “Il paradosso è che guardando Summerhill (che per molti rimane un modello del suo genere), ritrovate Makarenko (l'educatore stalinista nel suo massimo splendore), l'assemblea generale, il diritto di parola; i ragazzi, la gente, tutti presi nella responsabilità dell'assemblea generale. Dappertutto direttori, è la parola che dirige. Le funzioni distribuite [...] fino alla parola obbligatoria. In alternativa al diritto di parola, io metto il diritto di tenere la bocca chiusa” (p. 21).
  2. Non è il caso qui di riprendere la cronaca del processo che ha visto coinvolto il filosofo (scagionato anni dopo), accusato insieme ad altri educatori di abusi sessuali su minori e che Mottana riferisce in modo puntuale e con una nota critica pienamente condivisibile (pp. 23 e seguenti) ma è ovvio che si tratta di un terreno estremamente scivoloso, scabroso, quasi al limite del dicibile, soprattutto oggi, su cui Schérer tra i pochissimi ci invita a pensare. Per provare a capire come è cambiato il clima sulla questione della “pedofilia” e dell'eros dei bambini, vi invito a leggere un libro a cura di Egle Becchi, L'amore dei bambini, (Feltrinelli 1981) che contiene diversi interventi tra cui quelli dello stesse Schérer e di Foucault. Oggi sarebbe impensabile, credo.
  3. Peter Lamborn Wilson, Anarchist Ephemera, Ardent Press 2016, p. I.
  4. Cit. in Mottana, p.89.
  5. Id., 89.
  6. Id., 89.
  7. Id., p. 92.
  8. Voglio ricordare almeno il bellissimo, Noi che desideriamo senza fine, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999.
  9. L'allevamento intensivo degli studenti, A rivista, n. 229, 1996.
  10. Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere, Vallecchi, Firenze 1973, p. 44.
  11. cit. in Mottana, p. 61.


L'antifascismo a Livorno/
Proletario, popolare, con tante donne

Siamo ormai al secondo volume di una serie che si annuncia editorialmente fortunata e che, ci auguriamo, possa proseguire sul medesimo filone d'indagine magari con altre pubblicazioni in sequenza. Il soggetto storiografico focalizzato da Marco Rossi (Livorno clandestina. Un ventennio di opposizione antifascista (1923-1943), BFS Edizioni, Pisa, 2017, pp. 130 + ill., € 14,00) è una comunità con caratteristiche antropologiche e sociali assai peculiari, città portuale “all'ombra dei Quattro Mori” marcata da una cultura cosmopolita, da un pronunciato protagonismo proletario.
Dopo la Livorno “ribelle e sovversiva” degli Arditi del popolo, ecco ora – stesso autore e stesso editore – quella “clandestina” dedicata al periodo tra le due guerre e all'antifascismo militante e popolare. In questo nuovo lavoro Rossi, con il consueto stile narrativo asciutto ma intenso, ci disvela un mondo in gran parte misconosciuto dal grande pubblico e che spesso è stato ignorato dalla tradizionale storiografia sul movimento operaio e socialista. Come si legge in premessa “Nessuna ricerca storica sarebbe possibile senza l'apporto di altri studi, memorie e condivisioni...”; così il saggio si basa su una solida conoscenza della letteratura sull'argomento, sia a carattere locale che nazionale, delle opere classiche come di quelle più recenti e innovative. Le fonti, compulsate con scrupolo e metodo, spaziano moltissimo; una consistente bibliografia si incrocia con carte da archivi pubblici e privati, con testimonianze orali e articoli tratti dalla stampa coeva.
Affresco efficace e narrazione brillante, questa ricerca, lungi dall'essere relegata nella dimensione angusta di mera storia locale, deve essere piuttosto inquadrata nella specie dei case-studies. Il punto di partenza è un interrogativo che, sebbene rimandi a diatribe politiche e storiografiche tardo novecentesche, di fatto si presenta ancora oggi in tutta la sua brutalità: ossia la natura del rapporto tra masse e capi. In specifico si tratterebbe di valutare, indirettamente – in un ambito territoriale predeterminato e dai connotati molto speciali – i due parametri classici: la consistenza effettiva del “consenso” di massa al fascismo; l'indefinita cosiddetta “zona grigia” (intesa come tacito dissenso o anche come adesione obtorto collo). Su quest'ultimo punto, assai delicato e controverso, l'autore enuncia un metodo interpretativo che ci pare convincente nella sua semplicità:
”...In altre parole, nella ricerca storica è necessario tenere presente come il silenzio non coincida con l'assenso: infatti chi tace, in primo luogo sta zitto. Inoltre, sovente, l'adesione passiva o l'estraneità silenziosa costituirono la premessa per successive scelte di resistenza attiva...” (p. 10).
L'adesione al PNF “tutt'altro che entusiasmante” registrata a Livorno, in pratica fino agli albori degli anni Trenta, certifica del resto le difficoltà di relazione con il “proprio” popolo da parte di un regime totalitario che pure si era dichiarato fautore di una demagogica rivoluzione dall'alto. Su questi aspetti, volendo, si potrebbero aggiungere anche altri dati quantitativi convergenti che riguardano la Toscana o altre zone a vocazione refrattaria. Ad esempio, da alcune ricerche si evince che intere federazioni sindacali fasciste stentino a raccogliere un minimo di aderenti.
È così che emerge, di contro, un'opposizione diffusa e latente con tutte le sue opzioni possibili e immaginabili: antifascismo esistenziale ed etico prima di tutto, ma anche cospirativo, libertario e d'organizzazione, di semplice contro-propaganda e di azioni armate in epoca parecchio precedente alla Resistenza. E le donne – “riottose e intemperanti”, sfuggenti al disciplinamento sessista – sono sempre in prima fila. Ecco la Livorno illegale e clandestina di cui ci parlano queste pagine, solidale e fraterna con chi sta consumando i suoi giorni nelle sofferenze dell'esilio, del carcere e del confino, risoluta nell'avversione al regime mussoliniano.
Rossi analizza bene la figura, peraltro assai ingombrante e di grande rilievo in ambito nazionale, del gerarca Costanzo Ciano (consuocero del Duce), definito “primo imprenditore politico della livornesità” (p. 11). Nonostante l'agiografia e gli sforzi propagandistici di accreditarne l'immagine pubblica, di accrescerne la reputazione e il prestigio – come ci raccontano le stesse carte di polizia – il personaggio rimarrà ancorato nella memoria popolare al significativo soprannome di Ganascia, alle sue pose tronfie da macchietta fatte oggetto di continui sberleffi, alle ruberie di famiglia di cui tutti parlano.
Il racconto, riprendendo da dove era rimasto nella precedente pubblicazione, si snoda avvincente con titoli di paragrafi che sono una vera guida di lettura: Livornesi contro: una memoria conflittuale - Tra squadrismo e repressione statale - «Eia eia... baccalà»: il sovversivismo popolare - «Riottose e intemperanti» - L'attività anarchica - La rete comunista - Socialisti e repubblicani - Resistenza di classe - Marzo 1933: un funerale esplosivo - La propaganda delle armi - Le armi della propaganda - Contro lo stato di guerra.
Nell'interessante apparato fotografico che costella queste pagine si nota l'immagine, curiosa, del famosissimo, prestigioso musicista e compositore livornese Pietro Mascagni, ritratto in una posa inconsueta e davvero poco professionale (lo vedranno i lettori).
Per finire una ricca appendice documentaria, comprendente una mirata selezione di preziose carte di polizia, riporta anche una esilarante rassegna di scritte sui muri di Livorno, riferite al periodo 1929-1943, con epiteti poco gentili rivolti ai fascisti “bui rotti”.

Giorgio Sacchetti



Architettura e controllo sociale/
Ma l'anarchia?

Anche se con un po' di ritardo (ma per fortuna non tutti i libri irrancidiscono con il passar dei mesi) è opportuno segnalare il volumetto pubblicato dalle autoproduzioni editoriali Nautilus nell'ambito di una serie di brevi contributi riguardanti i processi di sviluppo dell'urbanizzazione, che raccoglie due lunghi articoli del sociologo-urbanista Jean-Pierre Garnier sotto un titolo accattivante al punto da risultare lievemente ingannatore. Architettura e anarchia – Un binomio impossibile, di Jean-Pierre Garnier, Nautilus, Torino, 2015, pp. 61, € 4,00) infatti parla assai poco delle realizzazioni o delle potenzialità del libero edificare e quando lo fa azzarda bizzarre menzioni come quella di Léon Krier, misteriosamente definito da Garnier “più libertario che anarchico”: anche se è evidente quanto Poundbury sia più bella di Quarto Oggiaro o di Scampia ciò non basta ad attribuire una tale onorificenza al tradito progettista di Novoli. Ancora più curioso il cedere dell'autore a liriche sviolinate (“Come non sentirsi vibrare di fronte a questi villaggi appollaiati sul bordo delle falesie che ci danno l'impressione che la neve sia caduta in piena estate...”) degne dei depliant di una mediocre agenzia turistica mediterranea, come scivolosissima appare pure l'apologia del bel tempo che fu, quando la “quarantina di professioni che compongono l'artigianato del costruire” non erano state ancora soppiantate dall'edilizia industriale volta a mortificare ogni creatività del costruire.
Assai più incisiva è invece l'analisi della “pianificazione urbana nell'epoca della sicurezza”, trattata soprattutto nel secondo contributo, anche perché affronta la questione della funzione repressiva dell'urbanistica in una prospettiva che non è immediatamente applicabile alle città italiane, ma potrebbe appartenere - mutatis mutandis - al nostro futuro. Le rabbiose rivolte acefale e scarsamente orientate che, sempre sottaciute o sminuite dai media, coinvolgono da decenni con imprevedibile ripetitività buona parte delle periferie francesi, sono una delle conseguenze della storia politico-militare di una nazione capace di scaricare le proprie contraddizioni interne su popolazioni, in particolar modo africane, soggette a una feroce colonizzazione, palese o di basso profilo a seconda delle fasi.
Questa gente, alla quale i pallidi invasori distrussero e continuano a distruggere territorio, forme produttive e cultura, è stata costretta a collocarsi al gradino più basso della struttura sociale in terra straniera, faticando tenacemente nella speranza di un miglioramento economico e culturale per i propri figli. Speranza che si è dimostrata del tutto mal riposta, vista la ghettizzazione a ogni livello alla quale le nuove generazioni sono state sottoposte secondo un processo poco paragonabile con la nostrana emarginazione dei terroni in nord Italia. È da loro, innanzitutto, che gli urbanisti cercano di difendere la metropoli, la società e il suo spazio perpetuamente minacciato, dalle risonanze tra criminalità e ribellione ormai totalmente compenetrate in quel sistema di sviluppo. Quindi non solo telecamere, recinzioni, sorveglianza privata, realizzazione di fortini residenziali per benestanti in territorio nemico (tutte realtà ben conosciute anche da noi) ma proprio una formalizzazione dell'esigenza del dominio di poter favorire l'intervento della forza pubblica, ridurre le zone scarsamente visibili e ogni possibilità di assembramento indesiderato.
Dopo l'espulsione della plebe dai centri storici, le parole d'ordine per gli urbanisti sono quelle di parcellizzare il territorio, privatizzarlo in modo da invitare i cittadini a sentirsi custodi della pace sociale, eliminare gli spazi di libera condivisione, modificare la struttura dei quartieri dove la polizia ha difficoltà di intervento e di controllo con abbattimenti mirati e aumento della viabilità. L'obiettivo più o meno dichiarato del potere è quello di una strategia progettuale in cui l'urbanista divenga al tempo stesso creatore di condizioni controllate e tutore dell'ordine.
L'acuta descrizione di Garnier lascia poche speranze sulla riformabilità di tali processi, facendo risuonare ancora una volta attuali le acri parole che Vaneigem scrisse oltre mezzo secolo fa: “se i nazisti avessero conosciuto gli urbanisti di oggi, avrebbero trasformato i campi di concentramento in progetti di edilizia residenziale”.

Giuseppe Aiello



Africa (e non solo)/
La grande finanza alla ricerca di baby-calciatori

È diventata una vera e propria “tratta”, quella dei bambini che dal Sudamerica e dall'Africa, principalmente, vengono condotti in Europa ad inseguire il sogno di una carriera calcistica che pensano sarà fatta di grandi successi e quindi di fama e di soldi.
Negli ultimi decenni s'è intensificato sempre più il mercato dei giovani e giovanissimi extracomunitari che, avvicinati nei loro paesi natii (il Camerun, il Senegal, l'Argentina,il Brasile) da osservatori ufficiali delle squadre europee di calcio, o da “agenti” che operano in modo del tutto personale e indipendente, vengono convinti a sbarcare in Europa a far prova delle loro abilità calcistiche, dietro un compenso che dovrebbe servire a lanciarli in squadre che potranno assicurare loro ingaggi e compensi, mentre in realtà, il più delle volte serve solo a far guadagnare millantatori o venditori di speranze.
Le cause, le caratteristiche e le rotte di questo “trasferimento”, ormai planetario, di baby-calciatori, sono ben indagate in un volume d'analisi e di denuncia di Stefano Scacchi (Materie prime, Edizioni dell'Asino, Roma, 2017, pp. 168, € 12,00) che informa sui numeri (impressionanti) del fenomeno e fa nomi e cognomi dei numerosi intermediari (singole persone, accademia del calcio, società sportive) protagonisti di questo commercio di giovani uomini che avviene molto spesso al di fuori di ogni normale e regolare legalità.
Cercando di diventare i nuovi Messi o Ronaldo, ai quali il calcio europeo ha cambiato la vita, liberandoli dalla miseria e da un futuro incerto, migliaia di ragazzini dei paesi poveri del mondo non esitano a mettersi nelle mani di osservatori e procuratori, ai quali consegnano cifre che vanno dai 500 ai 2000 dollari, affinchè li portino in un club calcistico europeo a far mostra della loro bravura, affidando all'affermazione nello sport il proprio desiderio di riscatto economico e umano: tanto pesantemente avvertono la subalternità, la discriminazione e la marginalità geografica rispetto ad un mondo che pensano prospero e luccicante, ma di cui si può facilmente far parte, solo se si riesce, con quattro calci ad un pallone, a entrare in una squadra che militi in gironi professionistici, dove i tifosi applaudono, le tv riprendono, gli sponsor investono e i presidenti pagano e i soldi girano: anche con le scommesse, quelle in chiaro e quelle clandestine e con le rutilanti compravendite del calcio-mercato.
Scacchi, con una mole notevole di riferimenti a casi concreti, si dedica ad esaminare la situazione italiana, da profondo conoscitore di vicende e uomini dello sport più popolare della nazione, quello che catalizza aspettative e illusioni di tanti ragazzi, quello che è diventato sempre più “professionistico”, dalle grandi città ai piccoli centri, dove proliferano le scuole-calcio, dove si viene pagati anche per giocare in serie “basse” (in Promozione, Eccellenza) e molto lontane dalla serie A.
Anche in Italia, dunque, come ampiamente documenta Scacchi, la “tratta” di calciatori stranieri ha assunto dimensioni vastissime, con tutte le connotazioni negative che la tratteggiano: dall'Argentina, soprattutto negli anni in cui la crisi economica imperversava e dai paesi africani, da dove più forte viene il flusso migratorio, sono arrivati in Italia, spontaneamente o pilotati ad hoc, centinaia di giovani calciatori, moltissimi minorenni, che sono caduti nella rete di direttori sportivi, tutori, assistenti di comunità e quant'altro di una giungla di faccendieri e speculatori che anima il mondo del calcio: qualcuno di questi aspiranti campioni, promettente e talentuoso, è riuscito ad arrivare nelle serie più alte del calcio italiano, altri sono rimasti a vivacchiare nei club di serie minori ma pur sempre professionistiche e i tantissimi, invece, sono stati costretti ad abbandonare la loro aspirazione sportiva, a ripiegare in altri e precari lavori, a sopravvivere tra i permessi di soggiorno sempre più difficili da ottenere, trovando riparo e assistenza nelle case religiose di accoglienza.
Di tutto questo mondo sommerso e contraddittorio, perché è anche vero che il calcio ha offerto una possibilità reale di miglioramento della vita di tanti extracomunitari ed è una palestra di vera integrazione in tante realtà grandi e piccole dell'Italia, il libro di Scacchi racconta tanto, con dovizia di particolari, seguendo numerose storie reali, paradigmatiche di un fenomeno oramai mondiale, dai risvolti veramente gravi, se si pensa, come si legge nel libro, che nel Laos una scuola di addestramento calcistico riservata ai minori s'è trasformata in un vero e proprio lager, da cui è stato difficile liberare i minori-calciatori catturati da avida gente che voleva “amministrarli” secondo una disumana logica del profitto: perché i bambini sono diventati la “materia prima” del calcio mondiale che può assicurare fortune economiche a chi ne scopre il talento, a chi riesce a venderli al miglior prezzo e quindi al miglior club.
Di questo potenziale mercato milionario s'è accorta finanche la grande finanza: scrive, amaramente allarmato, Scacchi: “le grandi banche d'affari internazionali hanno iniziato ad assoldare esperti di calcio in grado di individuare i giovani più promettenti sui quali investire acquistando il cartellino oppure finanziandone l'acquisto prestando soldi ai club meno ricchi. Vengono creati veri e propri prodotti finanziari basati sul calcio. Girano brochure nelle quali i calciatori sono diventati “derivati” umani. D'altronde, dati alla mano, in questo momento di stallo dell'economia mondiale, pochi prodotti tirano come il calcio. Nessun altro bene garantisce un ricarico come un calciatore promettente di 16 anni scoperto in Sud America o in Africa e rivenduto a 19 anni ad un grande club europeo. I calciatori sono diventati una merce sulla quale investire i patrimoni dei miliardari”.

Silvestro Livolsi