rivista anarchica
anno 47 n. 421
dicembre 2017/gennaio 2018





Alta Murgia/
Canti popolari, non folklore

Intervista a Maria Moramarco, Luigi Bolognese e Silvio Teot: gli Uaragniaun

Ci sono dei territori dove puoi percepire ancora un'atmosfera permeata da presenza “indigena”, “nativa”, dove il circostante è in stretta relazione con la comunità e dove la comunità stessa ha conservato una proficua relazione con il circostante, in questo caso il Garagnone e l'Alta Murgia, verso il quale si guarda per ricostruire il passato e sviluppare un'idea di società dove riportare il vivere a quote più umane.
La comunità che abita questo territorio, in qualche modo ha scelto, ha riconosciuto, ha sancito, una sorta di triumvirato che, a dispetto dei luoghi comuni e dei dizionari, non cede il passo alla frantumazione ma resta in carica da ormai 40 anni sostenuto da una straordinaria volontà e da una desueta capacità di camminare sulla linea di confine tra evoluzione e sedimentazione del territorio, come un albero che dà frutti nuovi restando incistato in una terra apparentemente arida e che invece aveva solo bisogno del tempo giusto, dell'acqua e della mano sapiente dell'uomo per tornare a dare vita.
Il triumvirato è composto dalla “cantora”, ricercatrice e voce rituale, Maria Moramarco, dal liutaio e artigiano dei suoni Luigi Bolognese e dal “filosofo” e pensiero libero e battente (non solo grazie alle sue percussioni) Silvio Teot. A loro chiedo di condurci nel loro habitat territoriale e spirituale.

Luigi Bolognese - Il nostro triumvirato sopravvive agli inevitabili momenti di crisi, tenuto insieme non solo dalla nostra passione per la musica di tradizione, ma da una speciale amicizia che ci ha visto crescere insieme in questo nostro territorio sempre più lontano da quegli spaccati di civiltà agricolo-pastorale presentati nei nostri canti. Un territorio lacerato da mille contraddizioni.
Noi crediamo ancora nella validità della riproposizione della musica di tradizione. La ricerca di Maria ha evidenziato la presenza di numerosissimi canti di diversa tipologia dai canti di lavoro ai canti di questua, dai canti a sfottò ai canti religiosi e ai canti di festa. Grazie al certosino lavoro di Maria durato anni si è costruito un mosaico di storie ricche di umanità, di disperazione, di lotta, popolato di personaggi spesso ai margini della storia ufficiale e della società; queste storie costituiscono l'intelaiatura di quel grande affresco dell'Alta Murgia riproposto dagli Uaragniaun in questi lunghi anni di attività.
In questo contesto il Garagnone (Uaragniaun toponimo che indica una località della Murgia, luogo un tempo ricco di seminativi dove si poteva andare a lavorare) è un luogo dove le trame della storia si intrecciano con la leggenda. Si racconta che il paladino Orlando abbia combattuto in duello con la masciara di Gravina e abbia con la sua spada tagliato la roccia.

Fonti rigogliose, trent'anni fa

Maria Moramarco - La ricerca è iniziata verso la fine degli anni settanta ad Altamura, favorita dalla frequentazione di un gruppo spontaneo che si occupava di ricerca delle tradizioni popolari, di attività seminariali con esperti, di esperienze pratiche sul territorio, di catalogazioni. Focalizzata l'attenzione sul reperimento di canti, ho iniziato a cercare e trovare in zona di Altamura materiali sonori che mi hanno permesso di smentire l'idea secondo cui la zona dell'Alta Murgia, diversamente dal Gargano e dal Salento, fosse terreno poco fertile per la produzione di canti autentici, come se non esistessero anche qui interessanti forme espressive melodico e testuali.
Questo mio lavoro condotto per anni in modo discontinuo, non pretende di essere completo né scientifico. Le mie procedure nella rilevazione sono state molto empiriche, quasi lasciandomi condurre dalla casualità degli eventi, ma anche dalla grande pazienza, perseveranza e coinvolgimento anziché dalla opportuna scientifica lucidità di rilevamenti.
Oggi avrei fatto diversamente, ma trent'anni fa non avevo mezzi idonei, e, ad essere onesti, neanche abbastanza consapevolezza del lavoro che stavo facendo. La mia fortuna è stata quella di individuare delle “fonti” da cui prendere a piene mani, ed erano all'epoca fonti rigogliose. Con gli “informatori”, ho avuto una collaborazione continua e “fedele”, un procedere lento, questo, con risultati, spesso, esigui rispetto al tempo a disposizione. E si registrava, quando si poteva, con mezzi poveri ed inadeguati o si chiacchierava o si finiva per fare tutt'altro. Oggi molte di queste “enciclopedie della civiltà contadina” ci hanno lasciato, ma il loro racconto non è andato perso. Con l'esperienza accumulata, mi ritrovo spesso a essere un'informatrice e a costituire una fonte secondaria, testimone di un cambiamento che pone fortemente l'esigenza della salvaguardia e della conoscenza del proprio passato per poter costruire un futuro migliore.

Come molti musicisti e ricercatori vi avventurate sui sentieri della tradizione in un momento storico di grande fermento e di grandi contraddizioni, quegli anni '70 che hanno provato a dare una spinta decisiva alle libertà di scelte e di pensiero... se da una parte si inneggiava al cambiamento e alla rivoluzione utilizzando canti della tradizione contadina, dall'altra nulla si sapeva delle istanze e soprattutto del disagio e delle condizioni di quel mondo rurale che ancora oggi attende mani sapienti per riseminare qualità del vivere.
Silvio Teot - Anche noi ci siamo ritrovati nel fermento musicale relativo al recupero e alla valorizzazione delle radici sulla scia del grande affresco creato da alcuni artisti “faro”, su tutti la splendida esperienza di Roberto De Simone e della Nuova Compagnia di Canto Popolare, quella di Musica Nova di Carlo D'Angiò e Eugenio Bennato e tanti altri, negli anni settanta, periodo che riteniamo unico e irripetibile in quanto per la prima volta ideologia, culture musicali diverse e la consapevolezza della proprie radici hanno trovato una sponda comune. Maria aveva già un suo gruppo musicale, il “Canzoniere Altamurano” ma l'incontro con il sottoscritto e Luigi, che provenivamo dal prog e dal jazz rock, segnò una svolta decisiva nel suo intento di riproposizione critica del repertorio dell'Alta Murgia. Eravamo accomunati dalla stessa passione politica, in un periodo in cui si credeva nei grandi ideali e nella Politica come grande spinta propulsiva verso un mondo migliore. Cantare le “canzonacce dei cafoni” era per Maria motivo di orgoglio, in quei canti vi era la voce della povera gente, voce di quella storia di cui nessuno si era interessato e che non si trovava nei libri, all'epoca dicevamo che quei canti erano espressione delle classi subalterne. Anche usare il dialetto che era allora proibito nelle scuole e negli ambienti chic era un modo di andare controcorrente. A Maria le si diceva: “Hai una bella voce, peccato che fai questa musica!”

Quale è stata per voi la motivazione primaria per stimolare la ricerca e la riproposizione senza che questo cadesse nella sbiadita e riciclata cartolina seppiata del passato e dei ricordi.
L - La frase usata per chiudere il nostro CD Uailì nel 1996 si è rilevata il nostro manifesto: “una chiave di lettura della memoria riproponiamo e interpretiamo il canto popolare senza fare il verso ai contadini”. Questo ci riporta alla tua domanda perché abbiamo sempre preso le distanze dal folclore in quanto non abbiamo nessun interesse a riproporre situazioni di vita della civiltà contadina e a ricreare dei quadri nostalgici. Il nostro interesse è mirato ai contenuti testuali e alle linee melodiche dei canti dell'Alta Murgia lasciando alla nostra sensibilità di musicisti la parte relativa agli arrangiamenti musicali. Queste sono state le premesse al patto stretto dal triumvirato...

Gli Uaragniaun

In una sorta di laboratorio aperto

Per tornare all'habitat territoriale e spirituale di cui sopra è opportuno parlare del vostro ultimo lavoro “Primitivo”. Un affresco potente e delicato che mi ha ricordato un passaggio dell'opera del poeta lucano Rocco Scotellaro che, nel suo “Contadini del sud”, racconta del piacere e della forza che gli arrivava quando si sdraiava nella vigna quasi a farsi meridiana per lo scorrere della luce e del tempo lento, vita stessa che radicata nel passato contemplava il presente come unicità e bellezza. Raccontateci del senso del vostro Primitivo.
M - Primitivo è il titolo che abbiamo voluto dare al nostro ultimo progetto. Lo scrigno della mia ricerca riservava ancora innumerevoli altre sorprese, brani raccolti agli inizi degli anni ottanta e volutamente non ancora esplorati: scampoli di ritmi, suoni, nenie, canzoni che ci siamo sempre riproposti di arrangiare alla nostra maniera. Abbiamo acquisito una particolare sensibilità che oggi ci permette di “manovrare con cura” quel repertorio antico, ostico, “primitivo” che, in altri tempi, avremmo rischiato di proporre in maniera banale. Primitivo esprime la volontà di un ritorno all'essenziale, al racconto cantato senza tanti orpelli, dove gli arrangiamenti sono strumenti per valorizzare l'anima del canto di tradizione, per questo motivo, abbiamo usato frammenti sonori di registrazioni sul campo, a dimostrare il “passaggio” dalla fonte primaria alla reinterpretazione. Torniamo allora al “primitivo” per proporre a chi ci segue da molti anni e apprezza il nostro lavoro, un nuovo viaggio musicale nei canti di tradizione dell'Alta Murgia barese. Abbiamo lavorato a questo disco con i “vitigni” più antichi, attraverso il contributo dei musicisti che da sempre hanno fatto grande il progetto Uaragniaun. È possibile coniugare un presente remoto? Certamente sì! Noi continuiamo a provarci.

Per raccontare le storie e i personaggi di questo lavoro che tipo di “soluzione musicale” avete adottato considerando la vostra inguaribile e fertile vena innovatrice per essere fedeli alla linea del vostro percorso e delle vostre sensibilità.
L - Le soluzioni musicali che abbiamo adottato in questo lungo lavoro sono sempre partite dal rispetto delle linee melodiche che Maria aveva raccolto e registrato, su queste linee negli anni siamo riusciti a costruire degli arrangiamenti che ci consentivano di non stravolgere il racconto cantato pur sentendoci liberi nelle scelte delle soluzioni musicali e degli strumenti da adottare. Una cosa non semplice da fare e che in questi anni abbiamo imparato a fare dando al repertorio Uaragniaun un suo sound particolare riconosciuto da tutti.

Anche questo lavoro si avvale della collaborazione di tanti compagni di viaggio. Vale la pena di raccontare il vostro viaggio attraverso le preziose e proficue collaborazioni che avete condiviso in tutti questi anni e l'utilizzo dei tanti strumenti (non solo della tradizione).Magari partendo dal “profeta” Nico Berardi.
S - Sin dalla sua costituzione abbiamo sempre preferito lavorare in una sorta di laboratorio aperto a tutti quelli che avevano la voglia di condividere la nostra esperienza. Con gli anni e con l'inizio delle prime esperienze discografiche abbiamo sempre voluto caratterizzare la nostra proposta artistica con la presenza di musicisti ed ospiti speciali. Nel nostro disco di esordio “Uaragniaun” abbiamo lavorato nel mitico studio Officina condotto dal mai dimenticato Pasquale Trivigno, collaborando con Rocco De Rosa e di Nello Giudice. Abbiamo poi conosciuto Nico Berardi che con la sua grande qualità artistica ci ha letteralmente conquistato apportando al sound del gruppo una serie di strumenti importanti come la zampogna, la ciaramella, la quena, il charango. Questo incontro è stato importante per la definizione del gruppo di lavoro in sala e nei live, insieme a Filippo Giordano violino, Pino Colonna flauti in legno e sax. In occasione dell'uscita del nostro cd Skuarrajazz nel 2000 abbiamo iniziato a poter contare su ospiti per noi veramente speciali come Ambrogio Sparagna con il suo organetto diatonico e Daniele Sepe al sax, Riccardo Tesi organetti, Balen Lopez De Munain chitarra, Joxan Goikoetchea fisarmonica, Alessandro Pipino organetto e lama sonora, Rocco Capri Chiumarulo, Gianni Calia sax soprano, Carlo La Manna contrabbasso, Vincenzo Zitello arpe celtiche e Daniele Di Bonaventura bandoneon. E poi, Michele Bolognese mandolino e Nanni Teot tromba.

Quella volta che Ermanno Olmi...

Quando penso alla vostra “consapevolezza del territorio” e al vostro impegno sociale mi vengono in mente le vostre musiche da film, la collaborazione con il maestro Olmi, il lavoro con i sanniti Santo Ianne, la ricerca e i canti sul periodo storico dell'italiota (dis)unità e del brigantaggio (e il ricordo di tutti quei lupi che non credettero mai alla ingannatrice luna piena del progresso...). Insomma, il vostro cammino di festa e di lotta...
S - A fine agosto 1997 alla fine di un concerto in Piazza Duomo, ad Altamura, un signore attempato, capelli bianchi e voce rauca ma decisa, si avvicina a noi, tira dritto verso Maria e le fa: “Bravi, siete bravi, fate bene a continuare a suonare questi strumenti antichi... a conservare le tradizioni della vostra bella terra”.
Era Ermanno Olmi, il regista, era ad Altamura da un mese dove aveva appena finito di girare un film tra Castel Del Monte e le masserie dell'Alta Murgia. Dopo una settimana ricevemmo una telefonata dalla segretaria di Ermanno Olmi per un invito a cena ad Altamura. Con grande naturalezza Olmi ci chiese di realizzare le musiche per “Io non ho la testa”, film da lui prodotto con la regia di Michele Lanubile. Con grande imbarazzo gli facemmo notare che non avevamo mai fatto nulla di simile e non ci sentivamo all'altezza, ma lui ci tranquillizzò dicendo che avremmo dovuto fare solo quello che sapevamo fare già, la musica e le melodie dell'Alta Murgia. Il giorno dopo un fattorino recapitò a casa di Maria e Luigi il copione del film. Il fatto di non aver assistito alle riprese Olmi lo considerava un vantaggio, avrebbe potuto condizionare le scelte musicali. In questa maniera potemmo operare in piena libertà.
Con Rocco De Rosa, Nico Berardi, Pino Colonna e la collaborazione di Giuseppe Rescigno per un arrangiamento di un quartetto d'archi, si diede vita a Octofolium colonna sonora del film “Io non ho la testa” presentato a Locarno, acquistato dalla RAI e mai andato in onda! Un altro importante capitolo è stato la realizzazione di “Malacarn”, un disco che non ha certo la pretesa di riscrivere la storia dell'Italia meridionale e neppure la velleità di emettere giudizi o sentenze su fenomeni sociali e politici come l'impresa dei Mille, la giustizia di classe esercitata nel Regno d'Italia, il brigantaggio o - più in generale - la “questione meridionale”. La storia ufficiale - come si sa - è solitamente quella scritta dai vincitori ed è infarcita di retorica e, spesso, affollata di miti ed eroi. “Malacarn” nasce invece dalla voglia di raccontare microstorie in musica, attraverso altri canti inediti dell'Alta Murgia e canzoni d'autore ormai dimenticate. Storie piccole, marginali, disperate e soffocate dal peso della “storia collettiva”, la narrazione incontra uomini e donne in fuga: antieroi, malavitosi, briganti, banditi, amanti, ubriaconi, becchini e assassini, inseguiti e braccati dalla miseria, dal pregiudizio e dalla malasorte... Insomma “l'altra Italia” su cui la Storia è stata sempre impietosa, matrigna, crudele e - a volte - persino reticente. Seguendo le orme dei “Malacarn” ci siamo allora imbattuti in una sorta di Spoon River popolare, nell'umana pietà negata ai tanti che vivevano la loro miserabile esistenza ai margini della legalità e della morale comune, in una fase storica dell'Italia meridionale in cui anche la Chiesa - per un puro calcolo politico - scelse la formula del “non expedit”, abbandonando al loro destino di miseria e povertà (materiale e morale) migliaia di anime perse.

Come un pidocchio che tira l'aratro

Ripenso anche “all'opera” letteraria di Maria, Paraule, un lavoro fondamentale per coniugare passato e presente attraverso la memoria e l'utilizzo della parola, del fonema che si fa canto e storia, rituale e condizione dell'animo umano. Ecco, alla luce della svendita della forza parola e dell'annichilimento del comunicare nell'era dell'informazione da 3x2 e dei linguaggi sottotitolati ai quali hanno assoggettato e lobotomizzato le genti, Paraule è un libro che andrebbe inserito non solo nelle scuole ma portato nelle case. Maria cosa rappresenta per te quel lavoro.
M - “Na me descenne li paraule”, nel nostro dialetto, significa non mi dire le parole, quelle cattive, quelle che si urlano; significa, insomma, non mi rimproverare. Io, invece, con questo libro ho fortemente voluto dire, tramandare, consegnare “li paraule” dei canti della Murgia, quelle che, per generazioni, sono sopravvissute sotto le ali della tradizione orale, una tradizione che smarrisce sempre qualcosa lungo il sentiero tracciato dal tempo, poiché non possiede il suggello della scrittura. Il mio è stato un modestissimo contributo affinché le parole che io canto non siano cancellate, dimenticate, annullate, ancora una volta per andare controcorrente in un periodo storico quale il nostro in cui tutto viene triturato e digerito nel giro di un tempo che si accorcia sempre di più.

Per dirla alla Gaber, “non c'è una sola idea importante di cui la stupidità umana non abbia saputo servirsi...”. Ecco, come siete riusciti e quale il vostro faticoso e salvifico cammino, per non restare contagiati dalle abluzioni dei volgari e cinici imbonitori dell'identità, dell'appartenenza, dei dialetti, da coloro che hanno paura che “al momento ogni uomo dovrebbe avere un suo luogo del pensiero protetto e silenzioso (...) per alimentare il sogno e l'utopia”. Ecco, quale frammento di canto senza tempo e delle giaculatorie di Maria Moramarco, portatrice sana di tradizione e “voce anarchica” donereste ad A-Rivista per alimentare il sogno e l'utopia...
M - La pèite du Uaragniàun so refjiutèite pe' nu pedocchje ka tire n'areite.Li purecie skazzecaine li macise. Vulaje scì a fè na vegete a lu pajise (Mi sono rifiutata di andare al Garagnone, perché come un pidocchio che tira un aratro, hai da lavorare, come pulci che sollevano maggesi, io che vorrei andar di vegeta al paese).

Per contattare gli Uaragniaun
www.uaragniaun.com
Luigi bolognese tel +39 393 307000
uarasoft@gmail.com

Gerry Ferrara