rivista anarchica
anno 48 n. 422
febbraio 2018





Dentro gli squilibri sociali

Intervista a Domenico “Mimmo” Ferraro della casa editrice Squilibri

Camminare tra i vicoli di un centro storico, tra le mura di un antico borgo, tra i sentieri di un luogo abbandonato. Avvertire tutta la bellezza e la bruttura che l'uomo (a volte la stessa mano) ha saputo generare, affiancando pietra, legno e ferro a cemento, mattoni e plastica, zone di coltivo ad aree industriali, luoghi di silenzio e aree pedonali a piste di catrame e alloggi per auto. In armonico e disagevole “squilibrio”.
Ecco, l'ossimoro, ineccepibile e inconfutabile, che da sempre esplica al meglio la dualità il conflitto e la contraddizione che l'essere umano porta in dote, ci permette di provare a camminare con sana curiosità e ritrovata passione tra le case (i progetti) e gli oggetti (le storie e i suoi protagonisti) di un antico borgo ripopolato da viandanti che, “fiutando” il passato, anelano ad una vita fatta di una stretta relazione con il “circostante”, dove la relazione con tutto quello che ci circonda, feconda la creazione mediante le molteplici sensibilità inespresse. E allora, altre ad abitare lo spazio e il luogo fisico, ci si riappropria dell'abitare lo spazio e il luogo interiore, dell'Io, anarchica e salvifica via per vivere il Noi all'interno dello squilibrio sociale.
La metafora o, se credete, il delirio introduttivo di quest'ennesima tappa cartacea de “La terra è di chi la canta”, serve per presentare il borgo che ho provato a descrivere, Squilibri, cantiere editoriale che utilizza i rudimenti e le fondamenta del passato e della contemporaneità che porta il nome di cultura popolare. Lascio quindi il narrare della genesi e del senso di Squilibri al suo mentore e cantastorie Domenico “Mimmo” Ferraro.

G.F.

Domenico “Mimmo” Ferraro - A voler rimanere all'altezza di questa bella metafora, potremmo dire che Squilibri si è ritagliato un angolo di strada nella città vecchia, verso l'estrema periferia che sfocia in aperta campagna, oppure, il che è lo stesso, in qualche paesino di montagna ma vicino e incombente sulla città che si staglia al suo orizzonte. Fuor di metafora: nessuna nostalgia nel guardare al popolare, ma, al contrario, l'ostinata volontà a ricercare in quel mare magnum che chiamiamo tradizione, premesse di un futuro diverso o anche istanze ancora valide in questa nostra contemporaneità, fossero anche solo di natura estetica e culturale.

Gerry Ferrara - Da quale contesto, territoriale, sociale, politico ti sei mosso, quali le tue sensibilità inespresse (o represse) che ti hanno spinto a dar vita ad un progetto così “consapevole” e quali le direzioni da seguire.
Se davvero c'è una qualche forma di consapevolezza nel nostro agire, è arrivata negli anni assieme al progressivo definirsi di un progetto che non è nato sulla base di un preciso disegno. L'inizio è stato molto casuale e ricade per intero all'interno di un grande piccolo festival che si teneva in Sila: pochissimi soldi, tanto entusiasmo e voglia di fare, con una crescita esponenziale di pubblico e problemi. A un certo punto, sarà stato il 2000, giusto per non farci mancare nulla, abbiamo avuto l'idea di provare a fare qualcosa di più duraturo, destinando parte di quei pochi soldi alla produzione di libri e CD, alcuni dei quali realizzati con Il Manifesto.
Da lì a pensare di farlo in proprio e in modo permanente il passo è stato breve. A spingerci in questa direzione era anche il desiderio di liberarci dal vincolo, sempre più ingombrante, della politica che grava come un macigno sulle scelte di un'associazione, soprattutto in provincia. Per quanto possa sembrare paradossale, il mercato, con tutte le sue contraddizioni, sembrava garantirci una maggiore libertà non dovendo rendere conto ad altri delle nostre scelte.
Da qui il varo, con non pochi timori, di Squilibri come casa editrice e il passaggio di queste attività dalla Calabria a Roma. Il rapporto con le istituzioni – che è cosa profondamente diversa dal rapporto con la politica, soprattutto in ambito locale – ovviamente rimane e siamo ben contenti, quando succede, di poter dare vita a progetti altrimenti difficili a farsi ma non è fondamentale, come invece lo è il rapporto con i lettori e con quanti, comprando un libro, di fatto contribuiscono a tenere in vita questo progetto editoriale.

In continuo movimento

Mi piace anche riportare un frammento dell'introduzione che utilizzate sul vostro sito “rappresentare quanto si muove, o deve essere ricordato, in quel particolare universo in cui abita la musica degli uomini, una certa musica in particolare”. Insomma, il borgo e l'abitare di cui sopra non è poi solo una metafora.
Metafora del tutto pertinente, soprattutto se si considera la mobilità che caratterizza oggi l'abitare contemporaneo per cui ci si sposta con una facilità una volta impensabile: una precisazione che è utile a rimarcare quello che ho detto in apertura sulla progressiva definizione di un programma, il suo delinearsi a mano a mano che prendono forma i singoli progetti che, tutti insieme, disegnano poi una rotta e un ritratto allo stesso tempo. Una rotta, per forza di cose, in continuo movimento e un ritratto che va caricandosi continuamente di colori nuovi, rivelando tratti e sfumature che in un primo momento non si coglievano perché erano come in ombra.
Con il riferimento a 'una certa musica' pensavamo di avere trovato la nostra identità e l'ambito al quale dedicarci in modo pressoché esclusivo, quello delle musiche di tradizione orale: una vocazione che si è poi concretizzata lungo tre linee principali vale a dire materiali sonori di rilevante interesse storico e documentaristico, materiali sonori altrettanto interessanti ma riguardanti il presente e, infine, le disparate possibilità di riuso dei materiali della tradizione, con riferimento non solo ad esponenti storici del folk revival come Otello Profazio ma anche operazioni di confine, progetti artistici del tutto originali ma carichi di richiami e rimandi alla tradizione. Ci sbagliavamo però: non eravamo ancora a casa o, per lo meno, quella casa aveva bisogno di essere ampliata.

Che tipo di operazione hai dovuto fare per tirar fuori dalla polvere una parte fondamentale del patrimonio della tradizione e della cultura popolare evitando il rischio di incasellare il tuo lavoro di ricerca e il tuo spirito editoriale nelle sterili e posticce categorie come “recupero della memoria”, “estetica del canto” o, peggio ancora, “forme e stili etnici e identitari”, queste ultime facili prede dei nuovi crociati alla conquista dei volgari e violenti territori delle “radici e dei costumi.”
Già nell'organizzazione di quel festival silano avevamo sviluppato qualche antidoto al rischio di derive identitarie dato che volevamo – cito dal booklet di uno dei cd pubblicati allora dal Manifesto – “inoltrarci per le antiche vie dei canti dove i suoni del mondo formano figure ibride che irridono agli sforzi di chi vorrebbe rinchiudere l'identità di un popolo nel tepore artificiale di una serra”. Anzi, in qualche modo l'abbandono – consapevole e deliberato – di alcuni entusiasmi generosamente militanti riguardo alle forme dell'espressività popolare, deriva anche dall'intento di non offrire il destro alle appropriazioni indebite di questi patrimoni, tentate periodicamente da venditori a prezzo di saldo di mal precisate identità.
L'agitare vessilli ideologici, del resto, rischia di immiserire la portata e il valore di questi patrimoni, rendendoli di parte quando invece sono universali e intrinsecamente e irrimediabilmente politici e di una politica altrettanto fortemente e inevitabilmente orientata in una direzione. Per questo preferiamo deporre ogni altro bellicoso intento, ritenendoci sufficientemente motivati da ragioni culturali ed estetiche, relative all'importanza e alla bellezza dei repertori popolari.
Tutt'altro discorso bisogna invece fare per “il recupero della memoria” che rimane per noi una prospettiva di fondamentale importanza, soprattutto se integrata con la lezione di un maestro come Alessandro Portelli che ha evidenziato il carattere “attivo” di questa facoltà che, lungi dall'essere irrimediabilmente protesa verso il passato, appartiene a un determinato soggetto che, per il suo tramite, lega al contrario passato e futuro nel prisma della contemporaneità.
Succede così che una ricerca, come quella condotta dal Circolo Gianni Bosio nell'area dei Castelli Romani con Mira la rondondella, pur avendo una precisa delimitazione cronologica (1968-2012), debba fare i conti con figure emblematiche della militanza politica, da Garibaldi a Gramsci, o anche con episodi di grande portata simbolica, come le rivolte anticlericali di fine Ottocento, perché vivi e attuali nei ricordi dei protagonisti di quella ricerca e a tal punto da alimentare un ritrovato orgoglio politico che poi si rinnova al presente nelle lotte per l'ambiente o nel confronto con le culture migranti. Per non renderla un documento asettico e mutilato nella sua stessa natura, a una “certa” musica era dunque necessario abbinare anche il vissuto dei suoi protagonisti lungo quei sentieri che conducono alla storia orale, alla quale mi piacerebbe dedicare più spazio di quanto abbiamo fatto finora.

Inevitabile che la tua terra d'origine, isola tra due mari, terra di confine e soprattutto terra di passaggio, la Calabria, ti abbia fornito tanto materiale, umano e artistico. Se dovessimo usare due figure tra passato e presente, Otello Profazio e Peppe Voltarelli ai quali, non solo artisticamente, sei legato, cosa ti sollecita raccontare di questa terra che ancora oggi, da una parte, paga un dazio pesantissimo nell'economia di svuotamento e depredamento delle risorse e dei saperi, dall'altra viene guardata come possibile terra d'approdo per seguire il vento del cambiamento.
Per amor di patria, per così dire, preferirei non parlare del mio rapporto con la Calabria sulla quale grava una maledizione biblica che si rinnova di generazione in generazione: quella di non avere una classe politica all'altezza delle enormi potenzialità del suo popolo che ha così sviluppato una forma di disincanto estremo, per quanto espresso il più delle volte nelle forme di un'amara, amarissima, ironia. Del resto, è soprattutto su questa immobilità quasi metafisica della Calabria e, per estensione, di tutto il meridione che Otello Profazio ha eretto la sua sterminata rivisitazione dei repertori popolari, evidenziando come dalle parti nostre le 'masse' fossero tutt'altro che inclini a travestimenti rivoluzionari per via delle tante speranze troppe volte deluse, spesso anche drammaticamente. Ed è sintomatico che quando un artista come Peppe, formatosi in tutt'altri ambienti, avverte la necessità di riannodare un legame con la propria terra, ritiene quasi naturale farlo per il tramite di un omaggio allo stesso Profazio, rinnovandone in qualche modo la lezione con la rappresentazione dolente e stralunata di un meridione eternamente eguale a se stesso, alle prese oggi con gli stessi problemi di ieri, dalla mafia all'emigrazione. L'uno e l'altro, però, a riprova della tenacia del calabrese, sono lontani da ogni pietosa autocommiserazione e, ancora di più, da ogni leghismo in salsa meridionale. Così, pur cantando in musica le ferite sanguinolente della storia, rivendicano come un diritto il loro essere orgogliosamente 'periferia', lontani e diversi rispetto alla tendenza uniformatrice e livellante del 'centro'.

Oltre la musica tradizionale

Quali i progetti che ti hanno creato maggiori complessità e quelli che non avresti mai pensato di realizzare. Gli artisti, i cantori, i “profeti” con i quali hai avuto un rapporto “spontaneo” (per stare in tema con il canto) e quelli che ti hanno “squilibrato” l'idea di partenza.
Ogni progetto è di per sé impegnativo, ma quelli che più hanno 'squilibrato' le nostre idee di partenza sono proprio quelli che mai avrei pensato di fare, gli stessi che ci hanno poi consentito di precisare meglio la rotta da seguire. Ne vorrei citare almeno tre. Il primo è il volume di Timisoara Pinto su Enzo Del Re che ci ha rivelato l'esistenza di altri mondi contigui a quello delle musiche di tradizione orale. Quella di Enzo Del Re, non a caso refrattario ad ogni lusinga o attrazione del folk, è infatti 'canzone d'autore' ma, per molti versi, inconcepibile senza quel sostrato di suoni e istanze che provengono dal popolare, per quanto tali suoni e istanze siano stati assimilati e trasfigurati in una originalissima dimensione artistica. I confini di una 'certa' musica dovevano dunque ampliarsi per andare oltre il tradizionale e includere altre musiche, votate allo stesso modo al racconto e sorrette dalla stessa caparbia inclinazione a muoversi controvento.
Il secondo è un volume di Lello Voce, Piccola cucina cannibale, che ci ha rivelato l'esistenza di altri mondi vicini e solidali, a partire da una poesia che rivendica il ritorno alle proprie origini, quando era una disciplina fondata sul ritmo e la musicalità, affidata alla viva voce del poeta e impensabile senza l'abbraccio di una comunità: un radicale cambiamento di prospettiva, in realtà, perché il comune denominatore di questi ed altri mondi ancora non è tanto il “tradizionale”, qualunque cosa si possa e voglia indicare con questo termine, ma l'oralità, ritornata prepotentemente in auge dopo secoli di predominio di una cultura fondata sulla scrittura.
Il terzo è quello che, inaspettatamente e contro ogni mio proposito, ho finito con lo scrivere io stesso, vale a dire il volume dedicato a Roberto Leydi e alla Milano dell'immediato dopoguerra, scoprendo che molto di quanto andavamo cercando, e di cui in qualche modo stiamo parlando anche ora, era parte significativa del programma di quegli autori che, insofferenti verso rigide ripartizione di ambiti disciplinari e avversi alle asfissianti chiusure proclamate in nome di un'ideologia o di un'appartenenza, guardavano per l'appunto all'oralità come a un paradigma ampio attorno al quale costruire una cultura 'altra', diversa e irriducibile a quella ufficiale e straordinariamente inclusiva potendo abbracciare le musiche di tradizione orale e il jazz, la musica elettronica e le marionette, il cinema e i fumetti o, per lo meno, un 'certo' cinema e 'certi' fumetti. Era come se il cerchio si fosse chiuso, offrendoci le parole per definire urgenze non più procrastinabili e ricercare nell'antico e nel popolare qualcosa da spendere, con ritrovata consapevolezza, anche in questo nostro presente.

Con contraria e ostinata passione

Il riconoscimento come miglior realtà culturale nel 2012 dal Premio Nazionale Città di Loano per la musica tradizionale italiana, Targa Tenco miglior album in dialetto nel 2017 Canio Loguercio e Alessandro D'Alessandro con il napoletano “sussurrato” di Canti, ballate e Ipocondrie d'Ammore. In qualche modo un “riequilibrio” alla vostra contraria e ostinata passione.
Questi ed altri premi e riconoscimenti li prendiamo come incentivi a proseguire sulla stessa strada per continuare a produrre opere meravigliose e fuori da ogni registro come questa di Canio ed Alessandro, ognuno per proprio conto eversore e rifondatore di un canone e di uno strumento. Certo, devi avere anche la fortuna di imbatterti in opere di questo genere ed è anche per questo che coltiviamo con i nostri autori un rapporto che non è solo di lavoro ma anche di amicizia, con a volte una condivisione profonda di intenti ed obiettivi. E, sugli altri versanti della nostra produzione, nulla avremmo potuto fare senza la fiducia che continuano ad accordarci i nostri autori, tra le migliori espressioni della ricerca etnomusicologica contemporanea.

Da Diego Carpitella a Roberto Leydi, da Ernesto De Martino ad Alberto Mario Cirese, dall'Accademia Nazionale di Santa Cecilia a AESS-Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia fino all'Archivio “Franco Coggiola” del Circolo Gianni Bosio. Come “convivono” architravi del genere nel cantiere editoriale Squilibri, alla luce di un sistema educativo, scientifico, di ricerca, ma soprattutto sociale ed economico che non contempla “l'estetica del passato” e le ragioni storiche per analizzare il presente.
Mi pare una convivenza felice, soprattutto perché indicano anche come siamo lontani dall'aver assolto a un compito di fondamentale importanza qual è la sistematica pubblicazione di materiali di eccezionale valore storico e documentario oltre che di rara bellezza, in molti casi sconosciuto agli stessi addetti ai lavori perché del tutto inedito: e basti pensare a quanto poco si era pubblicato, prima della collana Aem, di quei tesori inestimabili conservati negli Archivi di Etnomusicologia dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Noi vorremmo fare anche di più ma a volte, il più delle volte, mancano le competenze necessarie per dare vita a lavori adeguati all'importanza di questi materiali.

Dai lavori filologici alla documentaristica, dai cantastorie alle lingue minoritarie, dalle mostre alla didattica e ai lavori nelle scuole fino alla “riproposta” del lavoro discografico. Quanta farina da impastare e che lievitazione lenta per crescere, “che solitudine e che bella compagnia e che grande il mio tempo” recitava il Cantore Faber. In che modo “sciamboli” (per citare uno dei vostri progetti più interessanti) sull'altalena che oscilla tra quello che vorresti pubblicare e quello che ti viene proposto.
Considerato che siamo una squadra a dir poco esile e che nessuno di noi ha insane inclinazioni stakanoviste e, anzi, tutti continuiamo ad augurarci la liberazione dal lavoro molesto, pubblichiamo solo quello che ci piace. Un lusso che, nelle disordinate ma imperiose frenesie del mercato, credo si possa concedere solo un piccolo, piccolissimo editore come Squilibri: e noi siamo molto contenti di esserlo.

Antropologia e storia orale costituiscono un riferimento imprescindibile per meglio comprendere come ogni espressione culturale –e non solo la musica- non sia mai un “mondo a parte” ma ricada sempre e inevitabilmente in più complessi sistemi di relazione tra gli uomini.” scrive Mimmo Ferraro sul sito Squilibri... Per essere fedeli e in linea con questo pensiero bisogna, con coraggio e leggerezza, liberarci delle zavorre che “la normalità” impone, per dirla alla maniera del maestro Enzo Del Re “Tengo na voglia, na voglia e fa... niente!!!”

Contatti:
www.squilibri.it
info@squilibri.it

Gerry Ferrara