rivista anarchica
anno 48 n. 422
febbraio 2018





Un'educazione salentina. Memorie di un moderno cantastorie

Da Lecce a Milano

Più di 25 anni fa sbarcai in Stazione Centrale, la grande “cattedrale” dell'immigrazione interna verso Milano, resa iconica sin dagli anni Sessanta dalle prime inquadrature del film “Rocco e i suoi fratelli”. Certo, con un vissuto molto meno tragico dietro le spalle e un futuro molto meno drammatico di fronte a me: giungevo a studiare disegno, per seguire quella che era la mia passione dominante, i fumetti. Arrivavo da una provincia lontanissima da tutto, Lecce, la città in cui ero nato e avevo vissuto i primi diciotto anni.
Lecce era all'epoca una città bella solo sulla carta, della quale avevamo imparato a memoria a dire che era la capitale del barocco. Una città che a me adolescente pareva sempre vuota, con molti angoli bui, con interi quartieri da non frequentare – le famigerate “Giravolte” o la terrorizzante Chiesa Greca nel centro storico, e ovviamente la Centosessantasette fra i quartieri di edilizia popolare -, senza zone pedonali, mal illuminata, che da metà luglio a tutto agosto diventava una città fantasma. Non so quanto pesasse su questa percezione l'impressione di vivere sempre tagliati fuori da tutto ciò che di importante accadeva, sempre a Nord, sempre in “Altitalia”... non era quella un'epoca in cui si prendessero gli aerei come i pullman un viaggio era un fatto epocale, come quella volta che tutta la mia famiglia decise di “imbarcarsi” verso Roma per la grande retrospettiva di Van Gogh (sarà stato il 1987?). Da Nord non si ha la reale cognizione delle distanze che viste da Sud erano (e un po' sono ancora) enormi... la provincia certo è provincia ovunque, ma da Parma in poco più di un'oretta sei a Milano o a Bologna, partendo da Lecce dopo quattro ore eri ancora... a Foggia! Mi capita tutt'oggi di trovare qualcuno che mi dica: “sei di Lecce, magari conosci un mio amico che sta a Bari...” senza contare che, vista la distanza, è come chiedere a un tizio di Novara se ne conosce per caso un altro a Brescia.
Negli anni Novanta a Milano dove fosse Lecce e come suonasse il suo accento non lo si sapeva affatto: “Hai detto “Cilento”?”, “no, ho detto Salento, e si trova in fondo alla Puglia”, “strano, parli come un siciliano”, “perché, scusa, i pugliesi come parlerebbero?”, “come Lino Banfi, no?”, “io parlo come Modugno!”, “e non era siciliano Modugno? Ma se ha scritto il Pesce Spada...”. Mannaggia a Mimmo, da una parte grande orgoglio locale, dall'altra reticente in merito alla vulgata che appiattiva sul siciliano la nostra parlata (e quella del sud della Calabria).

Tabacchine nei campi

L'emersione del Salento

Nel torno dei dieci anni successivi le cose mutarono repentinamente, fino quasi a ribaltarsi, il Salento è diventato una delle mete turistiche più ambite, Lecce è nota a tutti e risplende con le sue pietre gialle sempre in luce, le vacanze in Salento sono diventate un “must”, Gallipoli e Otranto rigurgitano di gente ben oltre i loro limiti di capienza. Io ho imparato a conoscere i monumenti della mia città perché spesso vi ho accompagnato in visita amici venuti a passarvi qualche giorno, agosto è un tripudio di gente di passaggio e le strade abbandonate che ci vedevano adolescenti in motorino alle prese con i rotoli di carta delle prime fanzines fotocopiate sono oggi i punti nevralgici della “movida leccese”. Nel frattempo ho smesso del tutto di pensare ai fumetti e sono diventato cantante e autore di canzoni.
Il fenomeno che più di ogni altro ha accompagnato e servito questo sviluppo turistico del Salento è quello legato alla riscoperta delle sue musiche tradizionali, anzi per la precisione dall'estrazione e dalla riproposizione ossessiva di una sola delle sue musiche: ancor più che il rustico e il pasticciotto (cibi di strada, per così dire, salati e dolci) i turisti che si ritirano a sera dal carnaio delle comode spiagge o delle scogliere frastagliate su un mare che nonostante tutto prova ancora ad essere uno dei più belli della Penisola, si aspettano di trovare ad ogni angolo la “Pizzica”, la “Taranta”, la frenesia ritmica che scatenava i corpi e ipnotizzava gli animi delle donne sofferenti che possiamo ancora ritrovare, arcani e sfuggenti, nei primi documentari sollecitati dal genio scientifico e filosofico di Ernesto de Martino.
Ma la pizzica non era festa, era una cura, era sollecitudine, aveva di tutte le forme della comunicazione popolare, il criterio dell'urgenza. In quel lontano mondo terribilmente maschilista alle donne non era lasciato scampo: sfruttate come mogli, sfruttate come madri, sfruttate come massaie e in molti casi come lavoratrici nelle campagne (le famose tabacchine... ma ne parliamo più sotto). Si diceva che il morso del ragno - la tarantola - inoculasse un veleno sottile, che conduceva a una forma di astenia, a un deliquio profondo, le “pizzicate” diventavano inabili a ogni attività, per la prima volta forse nella vita queste donne urlavano silenziosamente il loro dolore. La cultura popolare volle che la cura fosse sonora, così dalle osterie e dalle barberie (i luoghi maschili dove si praticava la musica) uscivano violinisti e tamburellisti e per ore e ore facevano ballare le malcapitate, finché queste, stremate, si accasciavano, libere dal veleno della taranta.
Pochi turisti oggi sanno di questo, e la decadenza che ha ridotto i musicisti - portatori di tanto senno, guaritori mistici per elezione collettiva - ad essere “solo” un'alternativa un po' più raffinata ad altre musiche da ballo, viene amaramente consolata dalla considerazione che in una terra storicamente povera e flagellata dalla disoccupazione, alcune centinaia di suonatori e danzatori abbiano trovato modo di portare a casa la pagnotta... anzi, la “puccia culle ulie”.

Tabacchine nella Manifattura

Un'Ave Maria scritta da un ateo

Qualche anno fa, mentre stavo a Lecce per le canoniche vacanze di Natale (tanto col mio repertorio non sono particolarmente richiesto per le festività religiose), mi telefona l'amico Ascanio Celestini e mi fa “Alessio per il mio prossimo film vorrei una canzone scritta da te”. Caspiterina, penso sussultando, finalmente il cinema si accorge di me, abbiamo svoltato... si finisce nella Hall of Fame, altro che il Premio Tenco, stavolta si punta direttamente all'Oscar! “Certo Ascanio, tutto quello che vuoi, dimmi pure cosa ti serve: una cantata, un'opera, una sinfonia?”
“Solo una canzone. Guarda scrivi pure quello che ti viene, del film non ti racconto nulla, scrivi ciò che vuoi, ma dovrebbe avere la forma... insomma essere una sorta di preghiera... un'Ave Maria per la precisione”.
Mi cascano le palle a terra... come un'Ave Maria, penso? “Ma Ascanio... sei sicuro di aver chiesto a quello giusto? Io di Ave Maria temo di non ricordare manco quella canonica, per dire...”.
“Ma sì, ma sì, mica un'Ave Maria da cantare in chiesa, una cosa tua... a te piace la musica popolare, hai il senso del rito... tanto basta, scrivi un'Ave Maria”.
Bah... un'Ave Maria... bah... proviamoci. Mi ci metto e provo a seguire uno spunto vago, avevo percepito che il film di Ascanio era ispirato alla terribile vicenda di Giuseppe Uva, e comincio a buttare giù la preghiera di un “povero cristo”, un qualche martirizzato dalla polizia, un Aldrovandi, un Cucchi, che si rivolge a una “Maria” che non si capisce nemmeno bene se sia sua madre, una donna immaginaria, la vita porca, o la marijuana “che ti ho vista fumata e perduta/che la vita per niente è fottuta/o Maria, mamma mia, la Madonna/era un niente che passa e non torna”. Mi commuovo mentre me la canticchio passeggiando, il ché mi fa sembrare un cretino che piange per strada, ma è buon segno: vuol dire che almeno a me il pezzo smuove qualcosa.
Proprio quel giorno però sto anche leggendo un libro di versi del mio amico Elio Coriano che si chiama “A nuda voce. Canto per le tabacchine” e che ha una splendida prefazione che colloca storicamente molto bene quella vicenda: le tabacchine in Salento sono le lavoratrici agricole che si occupavano della manutenzione delle piante di tabacco, io non le ho mai viste all'opera, ma le piante di tabacco negli anni ottanta erano ancora ben visibili nelle campagne salentine (ora mi sembrano scomparse). Negli anni cinquanta le tabacchine furono l'avanguardia del lavoro agricolo organizzato, con scioperi e manifestazioni, ed esattamente come per le loro omologhe nordiche, le mondine, i loro canti hanno lasciato tracce imperiture nel canzoniere popolare “Fimmine, fimmine ca sciati alla tabaccu/'nde sciati doi e 'nde tornati quattru” “Donne, donne che andate nei campi di tabacco/andate in due tornate in quattro”, allusione alla fatica della giornata di lavoro nei campi (tornate piegate in quattro) o addirittura allusione a violenze sessuali subite (tornate in quattro=incinta)?
Non ho ancora finito la mia Ave Maria sulla tortura che già mi vengono idee per una seconda Ave Maria delle tabacchine... finisco per scriverle quasi in parallelo, ma sarà proprio un frammento della seconda Ave Maria Tabacchina a finire nel film. [per la cronaca, quell'anno l'Oscar per la colonna sonora lo vinse Morricone... sempre gli stessi!]
La mia Ave Maria non si sofferma solo sulle tabacchine, ma allude ai nuovi braccianti dalla pelle scura che faticano a morte, schiavizzati da nuovi caporali [ancora per la cronaca, nel luglio del 2015 un Mohamed morì durante la raccolta dei pomodori proprio in queste campagne, fra Nardò ed Avetrana], allude al fenomeno del Tarantismo e alla pratica della Pizzica: all'epoca eravamo noi musicisti i guaritori, oggi la televisione è il blando calmante, il basso continuo nei tuguri dei più sperduti paesini, le barberie sono chiuse e mute, le osterie sono turistiche e nessuno andrebbe a cantarci, e quando l'angoscia sfocia in depressione non si ricorre più al ballo ma agli psicofarmaci.
La mia Ave Maria allarga lo sguardo alla Puglia intera e alle lotte dei braccianti del Tavoliere all'epoca di Giuseppe Di Vittorio e di Giuseppe di Vagno, il primo parlamentare socialista ucciso dai fascisti guidati da Caradonna, amici degli agrari. Quanto tempo e quanti martiri che non hanno mutato la Storia, la mia Ave Maria Tabacchina non porta più il fazzoletto rosso, ma uno azzurro e temo che sia tornata a credere che se vedrà un altro mondo sarà solo all'altro mondo.

Madre Maria delle tabacchine
vegliaci oltre il confine, vegliaci oltre il confine
Madre Maria delle tabacchine
vegliaci oltre il confine che c'era e non c'è.

Quando andavamo per il tabacco
ne partivamo in due, ne tornavamo in quattro
sputi e bastoni e carezze del potere
e sudore da buttare per vivere ancora.

Madre Maria dei pomodori appesi
vegliaci tutti stesi, vegliaci tutti stesi
Santa Madonna, ulivo benedetto
dellu trappitu e dellu tiralettu.

Dopo la Manifattura, quando chiusero i tabacchi
a cogliere i pomodori ci vanno i polacchi
batte il sole sulla febbre nel Tavoliere
sulla croce di un ignoto lavoratore.

Madre Maria delle pizzicate
veglia sulle tarantate, veglia sulle tarantate
Santa Madonna della nevrastenia
svegliami il violinista nella barberia.

Quando ci pizzicava quel ragno scorpione
nel ballo scatenato c'era la guarigione
ora ci sta il dottore, la benzodiazepina
la televisione accesa da sera a mattina.

Madre Maria del latifondo
mostraci un altro mondo, mostraci un altro mondo
Santa Madonna dell'occupazione
trova tu la soluzione per questa povertà.

Quando l'Arneide fu l'oratorio
ora di De Martino, ora di Di Vittorio
ora et labora alla Capitanata
quando Maria Catena si fu liberata.

Quel fazzoletto rosso che tu portavi al collo
è l'amore che ti voglio, è l'amore che ti voglio
Quel fazzoletto azzurro che ora porti in testa
per la vita che ci resta alla festa di lassù.

Madre Maria delle tabacchine
svegliaci oltre il confine, svegliaci oltre il confine
Madre Maria delle tabacchine
svegliaci oltre il confine di questa realtà.

Alessio Lega