rivista anarchica
anno 48 n. 422
febbraio 2018


migranti/1

Incubi

di Renzo Sabatini


All'inizio era sembrato tutto ragionevole. Per la sicurezza di tutti, dicevano.
Ma poi ci avevano preso gusto e non si erano più fermati.
Decreto dopo decreto, hanno reciso la libertà.
E la mia Italia non la riconosco più.


Le ultime ore mi hanno stordito. Sono rimasto a guardare dall'oblò lo strato caliginoso sotto la pancia dell'aereo, mentre i pensieri volavano per conto loro e il corpo si era perso in quella specie di luogo-non-luogo dove il tempo sembra non avere consistenza. Volare mi dà spesso questa strana sensazione di trovarmi in un'assenza spazio-temporale, un microcosmo di uomini e donne senza più nazioni o identità, fuori dal nonsenso delle nostre preoccupazioni terrestri. Come quei personaggi di Bradbury1 che vanno a colonizzare il pianeta rosso per sfuggire alle schiavitù e alle guerre di una Terra sempre più inospitale.
Ora però l'atmosfera è mutata, è cominciata la discesa e gli altri passeggeri sono entrati in uno stato di agitazione. Forse è l'improvviso timore per il ritorno alla realtà che provoca questo sobbalzo, la rottura di quel microcosmo che per qualche ora ha interrotto il fluire delle umane preoccupazioni. L'aereo vira sul nastro azzurro del Tirreno e scende sulla pista senza ripensamenti.
Sento aria di casa. Nella cabina cala un silenzio irreale fino a quando le ruote toccano stridendo l'asfalto, poi ricomincia il chiacchiericcio. Qualcuno si lancia in un applauso che però subito si spegne mentre altri, improvvisamente spavaldi, già si slacciano le cinture e cercano di aprire le cappelliere, suscitando l'indignazione delle hostess. Tutto come sempre. Ma quando arriviamo al posteggio e si spalanca il portellone, accade qualcosa di nuovo, inaspettato. Assieme all'afa maleodorante entrano nella cabina poliziotti dall'aria spavalda. Minacciosi, bruschi, coi bicipiti bene in mostra e le mani appoggiate alle fondine, scrutano tutti, controllano i documenti, fanno domande. Se ne vanno poi portandosi via due ragazzi africani, senza dare spiegazioni.
Ora regna un silenzio innaturale, come quando l'aereo si avvicinava alla pista ondeggiando, ma non è la stessa cosa, questo è un silenzio denso di domande senza risposta. È come se fossimo precipitati in una nuova dimensione, un luogo pericoloso e infido, dove la vita è a rischio. I motori si sono spenti con un sibilo, l'aria condizionata è andata e il sudore imperla le fronti e chiazza le camicie. Il personale di bordo dà un segnale nervoso: si può uscire. Mi afferro al passamano e vado giù per la scaletta ma, mentre scendo gli ultimi gradini, due agenti mi afferrano. Gli mostro il passaporto amaranto con lo stemma della Repubblica, cerco di spiegare che deve esserci un errore, ma non mi ascoltano, o forse è la voce che non esce. Mi trascinano verso un vicino capannone. Nell'aria c'è puzza di carburante bruciato e di asfalto liquefatto e il panico mi assale.
Mi accorgo con orrore della targa malamente fissata sulla porta: “Hotspot. Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate”. Hotspot, un posto caldo, come l'inferno. Non so se la frase dantesca ci sia davvero o se me la sono solo immaginata, sono confuso. Il battente si spalanca su uno stanzone pieno di donne, bambini e uomini seduti, sdraiati, accatastati. Mi gettano dentro senza tanti complimenti. L'aria è densa di sudori, odori estranei. Non posso credere che tutto questo stia accadendo proprio a me: sono una persona normale, sto tornando a casa, nel mio paese, nella mia città. Grido la mia innocenza, correndo fra i corpi inerti. Agenti e prigionieri mi guardano con indifferenza. Vorrei guadagnare la porta, ma si è dissolta nella parete. Urlo di paura e finalmente mi sveglio, ansimante, nel letto sudato.
Per non avere incubi come questo forse dovrei smettere di leggere i giornali, ascoltare la radio, navigare nella rete. Ma non posso farci nulla. Quella è la terra dove sono nato e cresciuto. Non mi interessano confini, miti e riti, mi serve però di poter camminare su quel suolo da uomo libero e sereno. Ho bisogno, ogni volta che ci torno, di sentirmi davvero a casa. L'Italia è per me lingua, radici, affetti e odori familiari; nostalgie, tristezze e ricordi. È il posto da cui sempre parto e dove sempre tornerò, per poi fuggirne ancora.
Dovunque mi trovi nel mondo I care, come amava dire Don Milani, che lo aveva fatto scrivere anche all'ingresso della sua scuola di Barbiana, in opposizione al fascista me ne frego. Ma le mie notti lontane sono agitate da notizie tristi e ad ogni ritorno trovo nuove prigioni, più cinismo, rabbia e indifferenza e un mare amato costellato di cadaveri. Tragedie e lutti prevedibili ed evitabili.
Solo chiudendo il cuore e gli occhi si può correre dietro alle sirene di chi, per far politica e soldi, addossa ogni colpa ai migranti, condannandoli poi a un destino peggiore. Respingendo gli stranieri la Repubblica nata dalla resistenza tradisce i valori di quella lotta ed i principi della sua carta fondativa. Non ho dubbi in merito: imprigionare innocenti, cacciare uomini e donne che cercano protezione da guerre e persecuzioni, sottoscrivere accordi scellerati con mafie ed oppressori specializzati, non rientrava nel programma dei costituzionalisti e certamente non albergava nel cuore dei miei genitori, partigiani e antifascisti, che rischiarono la vita e bruciarono la gioventù per inseguire il sogno di un'Italia migliore di questa immagine opaca che oggi mi restituisce la pagina stropicciata di un quotidiano.

Turco/Napolitano, poi Bossi/Fini

Nel settembre 2016 la delegazione governativa italiana si è presentata al summit delle Nazioni Unite su migranti e rifugiati di New York raccontando la bella favola di un paese che stava eroicamente facendo fronte ad un'invasione di dimensioni bibliche, determinato a salvare vite umane, ma abbandonato da tutti. In quella sede si è parlato dei corridoi umanitari da aprire in fretta e delle responsabilità del resto d'Europa. Ma da allora il percorso dei migranti è stato disseminato di nuove trappole, nell'intento di impedir loro di raggiungere le nostre coste.
Il mio piccolo incubo ricorrente è realtà per migliaia di esseri umani: in Italia imprigioniamo gente senza colpa, sull'altra sponda del Mediterraneo e ancor più a sud, paghiamo altri perché lo facciano. Le cronache rivelano che i soldi per finanziare l'operazione stop ai migranti, attrezzando le motovedette della guardia costiera libica, sarebbero stati prelevati dai fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo per l'Africa. Ironico coronamento dell'ipocrita programma renziano: “Aiutiamoli a casa loro”.
Nel 1998 la Turco/Napolitano istituì i CPT, Centri di Protezione Temporanea, poi divenuti CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, con la Bossi/Fini. Per la prima volta dalla caduta del fascismo la Repubblica imprigionava persone che non avevano violato il codice penale. Destra e sinistra affiancate nella lotta ai migranti.
Come le leggi securitarie e le guerre umanitarie, anche le carceri per migranti sono entrate a far parte del nostro quotidiano. Avrebbero dovuto farci gridare d'indignazione ma hanno trovato una maggioranza acquiescente. Come la guerra ha smesso di indignarci quando abbiamo capito che non l'avremmo combattuta in prima persona, così anche le carceri per innocenti le abbiamo accettate, perché sappiamo che non saremo noi a finirci dentro. Siamo meglio disposti all'indifferenza quando i fatti non ci riguardano direttamente.
Io ci sono entrato nei centri di detenzione per immigrati illegali, ma non in Italia. La vita mi ha portato a conoscere altri “clandestini”, quelli che neanche immaginiamo, di cui non si parla e che non fanno notizia, perché gli irregolari, i sans-papier, sono sempre gli altri. Noi pensiamo di aver diritto di andare dove vogliamo, crediamo di essere accolti bene ovunque. Veniamo da un paese “civile”, noi. Eppure gli ospiti di centri di detenzione che ho avuto modo di assistere in giro per il mondo erano proprio italiani: quelli fermati all'arrivo negli aeroporti di altri paesi, rimandati a casa dopo quindici ore di volo, quattro di interrogatorio e quarantotto in cella di isolamento. Cacciati a volte solo per un errore nel visto o a causa di un malinteso. Ragazzi e uomini spesso sprovveduti, ignari, ingenui, ritrovatisi improvvisamente nei guai e messi in stanzette anonime a subire un fuoco di domande senza nemmeno il conforto di un interprete. Altri trovati su un treno, per strada, al ristorante o in discoteca col visto scaduto; altri ancora sorpresi a lavorare senza permesso. Studenti cui il visto è stato revocato per qualche infrazione. Uomini che avevano scontato una condanna penale ed erano passati direttamente dal carcere al centro di detenzione, in attesa dell'espulsione, perché, anche se in quel paese ci erano cresciuti e invecchiati, erano rimasti pur sempre degli stranieri per legge.

Nuova sigla, stesse galere

Le norme sull'immigrazione sono spesso crudeli, insensate, irragionevoli e quasi mai, per i cosiddetti clandestini, sono previste garanzie. Una volta finiti nel girone degli irregolari si è in balia dei carcerieri e dei burocrati delle frontiere. Si finisce in prigioni che non si chiamano prigioni ma sono a volte luoghi peggiori delle stesse carceri, poco più che dormitori, senza spazi adeguati per dare un senso alla giornata, senza luoghi per pregare, palestre per allenarsi o cortili per assaporare l'odore dell'aria fresca. Luoghi dove si trascorrono giorni, settimane, mesi, qualche volta anni, senza nulla da fare. Posti dove si perdono speranza e senso della vita, dove la depressione diviene la cifra e atti di autolesionismo e tentativi di suicidio sono frequenti.
I centri di detenzione in cui sono entrato io erano così: stanze anonime, materassi disordinatamente buttati a terra, accatastati anche nei corridoi; sporcizia, puzza di umanità con poca acqua per lavarsi e senza vestiti di ricambio. Qua e là una sala triste con la televisione che trasmette solo nella lingua del posto e nessun telefono per chiamare a casa. Niente sale visitatori, passatempi o lavori, nulla da fare. I migranti si presuppongono di passaggio fra la cattura e l'aereo che li riporterà indietro, perciò niente educatori, assistenti sociali o programmi alternativi alla detenzione: non devono stare “fuori” e, comunque, a che scopo spendere soldi per aiutare chi deve essere cacciato al più presto? Ma, per tanti motivi, accade che spesso la permanenza si prolunghi. A differenza del carcerato, che almeno conosce la data in cui uscirà, il clandestino aspetta, senza sapere quando finirà la sua pena, mai decretata.
Talvolta mi sono chiesto se fra gli italiani che ho conosciuto in questi piccoli inferni non ce ne sia qualcuno che ne abbia tratto una lezione, che abbia riflettuto e, tornando a casa, abbia deciso di occuparsi in qualche modo dei propri simili che subiscono da noi un peggior trattamento. Non ho risposte, né una statistica da offrire, solo pensieri pessimisti che si formano e mi turbano.
Nei miei incubi diurni mi è capitato anche di includere quegli italiani che chiedono di ricacciare a mare gli stranieri, i politici che inventano prigioni per innocenti e tutti quelli che ci guadagnano: li ho immaginati sbarcare da qualche parte nel mondo e vedersi fermati e rinchiusi, coi passaporti sequestrati, accusati di essere illegali; li ho visti dapprima sorpresi, indignati, confusi, poi angosciati, infine disperati. Un contrappasso dantesco, occasione per meditare su quella regola d'oro che sempre dimentichiamo: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.
Ultimamente le carceri per stranieri in Italia hanno nuovamente cambiato nome. Ora si chiamano CPR, Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Nuova sigla, le stesse galere. A quelli della mia generazione non sarà sfuggita l'ironica coincidenza con la CPR dei tempi della leva, la Camera Punizione Rigore cui erano destinati i militari riottosi e indisciplinati e che aveva l'effetto di allungare la durata della naja. Senza accorgersene il governo ha resuscitato quella sigla del passato per incarcerare migranti: gente obbligata al viaggio dalle avversità della vita, come i giovani italiani erano obbligati alla caserma.
Ma la partita più sporca la si gioca sull'altra sponda del Mediterraneo. I nostri ministri “moderati” sono pronti a giurare che l'Italia ha la politica più “decente” in Europa nei confronti dei migranti, perché non costruisce muri e non chiude i porti.2 Ma il muro lo stanno costruendo in Libia, consegnando i migranti nelle mani di sadici torturatori. Le condizioni disumane riservate agli stranieri in Libia sono provate: finanziando quel paese per fermare gli sbarchi l'Italia si rende responsabile di nuove sofferenze e di morti indiscriminate, però senza conteggio, senza scandalo.

Con le elezioni alle porte

Oggi il Mediterraneo è più sgombro, sono state cacciate le navi delle organizzazioni umanitarie, quelle dei trafficanti vengono fermate dalle motovedette libiche. Meno navi solcano il mare fino alle nostre coste, ma non basta ad evitare tragedie e ancora toccano in Italia meno vite, di quelle che salirono a bordo3: nel novembre 2017 i cadaveri di ventisei giovanissime africane sono arrivati a Salerno, ripescati dal naufragio della loro carretta, frazione di quanti sono morti in quel dramma senza conteggio finale, tragica testimonianza del fallimento di ogni politica che miri a fermare i migranti in viaggio verso l'Europa.
Con le elezioni alle porte la notizia è sopravvissuta solo poche ore, ma ha fatto in tempo a suscitare nei social media un'ondata di commenti crudeli e inutili, mostrando che ormai più nulla riesce a scuotere certe coscienze addormentate. È triste constatare come tanti abbiano perso la capacità di immedesimarsi nei drammi altrui, vedere che non abbiamo voglia di capire cosa possa aver spinto quelle donne ad affrontare un viaggio tanto pericoloso per arrivare in Italia.
Dei corridoi umanitari di cui si è parlato al summit di New York e che avrebbero davvero potuto salvare quelle vite è rimasta solo una labile traccia: il governo ha firmato accordi con qualche associazione di volontariato, ma in un anno intero solo 750 migranti sono giunti in Italia attraverso questi canali. Programmi lodevoli ma cifre irrisorie, corridoi troppo stretti.
In ogni caso è un argomento sotto traccia di cui è bene non parlare, perché poco popolare: gli italiani temono gli stranieri più di un territorio disseminato di luoghi di detenzione per innocenti, di un paese che si trasforma in galera e di una polizia sempre più invadente.
Ho avuto un altro incubo, dal quale forse non mi sono del tutto svegliato. Scambiato per clandestino, odiato, braccato, mi sono visto di spalle che fuggivo, volavo, verso un paese lontanissimo. Dal cielo vedevo l'Italia avvolta in un triste velo nero ed i topi uscivano dalle fogne. Dallo schermo, appiccicato sullo schienale di fronte, ascoltavo il notiziario; osservavo uomini politici di varie fazioni fare dichiarazioni, a turno, come si usa, al microfono dello stesso giornalista ossequioso. Erano tempi oscuri in cui un incontro fra amici per la strada poteva attirare l'attenzione della polizia. Era difficile dire quando fosse cominciata la caduta. Forse quando si era deciso di mettere il bracciale agli stranieri e prendere le impronte digitali ai bambini rom nei campi.
All'inizio era sembrato tutto ragionevole. Per la sicurezza di tutti, dicevano. Ma poi ci avevano preso gusto e non si erano più fermati. Decreto dopo decreto, avevano ogni volta recisa un'altra libertà. Poche voci avevano lanciato l'allarme e nessuno le aveva ascoltate. La maggioranza aveva scosso il capo in segno di approvazione. Non sempre i regimi arrivano col rombo dei carri armati, sempre più spesso entrano in casa dal tubo catodico e forse sono quelli più difficili da combattere.
Del resto anche i piccoli coloni di Bradbury, diventando marziani, si illudono solo di essersi liberati dalle catene lasciate sulla Terra e finiscono per portare sul pianeta rosso gli stessi vizi di sempre, le stesse ingiustizie, le stesse galere. Per loro migrare è servito a poco e quando scoppia la guerra sulla Terra, stupidamente, si rimettono in viaggio verso casa.

Renzo Sabatini

  1. Ray Bradbury, Martian Chronicles, 1950. Pubblicato in Italia da Mondadori col titolo Cronache Marziane.
  2. Come dichiarato dal Presidente del Consiglio Gentiloni in un'intervista del novembre 2017.
  3. Da: “Note di geografia” in “Solo andata”, Erri De Luca (ed. Feltrinelli, 2005).

Le foto sono di Paolo Poce