Strategie elettorali
Nel posto dove lavoro, si sta vivendo una pre-vigilia elettorale. Non mi piacciono le elezioni, non tanto nella loro evidenza concettuale, quanto piuttosto per il fatto che esse si trasformano sempre più spesso in un carnevale della ragione dove ogni residuo di buonsenso (dote perduta della nostra vita politica e sociale) viene meticolosamente fatto a pezzi ed esibito come esempio a folle di ultras del potere a tutti i costi.
Idealmente, la vita della comunità – di qualunque comunità e di quella formativa in particolare – si edifica sullo scambio di opinioni e sulla condivisione delle finalità nel rispetto della libertà del singolo. Questa condivisione ha da essere di sostanza e non solo di forma, e deve tradursi in un equilibrato gioco di composizione degli opposti, con il criterio di cui sopra. Idealmente, la competizione elettorale si edifica su un programma nel quale, come deve essere in qualunque testo, le parole significano, ovvero designano concetti in modo il più possibile trasparente e il meno possibile funzionale alla mera manipolazione dei futuri elettori.
Ora, lo sappiamo, il linguaggio è una pratica di significazione. E, lo sappiamo, di questa procedura di significazione la retorica politica – italiana e non solo – ha spesso fatto il grimaldello per scassinare definitivamente il prezioso scrigno dell'etica, allontanando, in modo progressivo ma inesorabile la forma dalla sostanza. Questo processo si chiama, tecnicamente, demagogia. Essa ha raggiunto in tempi recenti, e anche in ambienti più formativi che politici, livelli di sofisticazione considerevoli. Che cos'è accaduto esattamente? A guardarli ora, i passi sono anche comprensibili.
Durante la II Guerra mondiale, alla vigilia dell'entrata in guerra del Regno Unito, Winston Churchill riesce a convincere un paese in violenta recessione, politicamente spaccato e impegnato a elaborare il terribile lutto della fine dell'impero non raccontando cose non vere, ma affiancando al quadro di una recessione che il conflitto renderà ancora peggiore, l'affermazione di una identità ideale che i fatti non potevano contraddire.
In pratica, Churchill ha promesso lacrime, sudore e sangue, affermando però che la strada dolorosa e “costosa” della guerra era il solo modo per dimostrare che l'identità britannica è la migliore di tutte le altre: noi siamo gli inglesi, ha detto, e vinceremo per questo, anche se stiamo vivendo in uno dei momenti più difficili della storia. Churchill, che della retorica politica contemporanea è il padrino indiscusso, non mente: affianca una realtà triste e deprimente a un afflato ideale indiscutibile (proprio in quanto astratto) e galvanizzante. A partire da questi “contenuti rimodellati”, nel tempo e attraverso figure politiche non sempre al di sopra di ogni sospetto, è accaduto che del modello rappresentato dal discorso di Churchill sia rimasta solo la spettacolare dote della forma, mentre la sostanza è diventata irrilevante. In altri termini, progressivamente, è diventato sempre più facile ragionare su un piano di astrazione assoluta – per ciò stesso impossibile da contraddire coi fatti poiché collocata su un livello di esistenza diverso – derubricando la sostanza a supplemento non rilevante.
La tecnologia ha aiutato, in questo senso. Molte competizioni elettorali – nella vita di un paese come nella gestione di una comunità più ristretta – si sono giocate in tempi recenti sulla promessa di mirabolanti “grandi opere”. Ora, di nuovo, l'esempio inglese è d'aiuto. Il gigantesco fiasco del Millennium Dome londinese è diventato una realtà dolorosa e un buco rilevante nel bilancio (affossando in questo modo, di fatto, la carriera di Blair come politico) quando si è fatta una realtà percettiva. La fase di progettazione – come tende ad accadere sempre di più, dalle Olimpiadi all'Expo – aveva visto invece una celebrazione delle “magnifiche sorti progressive” che un'impresa di quelle dimensioni pareva garantire. Progettata e simulata, con un grado di realismo impressionante, molto prima di essere costruita e attraverso strumenti tecnologici mirabolanti e mirabilmente ingannevoli, essa ha conquistato gli amministratori. Molto meno, una volta realizzata, ha affascinato i londinesi in carne e ossa.
Ora, la pre-vigilia elettorale di cui parlavo gioca una partita di questo tipo: la competizione si dipana su raffinate simulazioni, così convincenti da parere già una realtà. In un universo parallelo, che non è quello che abitiamo, esiste un mondo perfetto, abitato da figurine – tutte giovani e belle – in un panorama – sempre salutare e florido – e con una qualità della vita – sempre ineccepibile e perfetta. Il disagio, l'imperfezione, la bellezza incompleta del reale abita altrove.
Nicoletta Vallorani
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