l'altro '68
Il '68 in due canzoni
di Gianfranco Manfredi
Abbiamo chiesto al cantautore/sceneggiatore/scrittore/ecc., recente autore di un bel libro sul '77, quali siano state, a suo avviso, le due canzoni più significative a livello internazionale e italiano, di quegli anni e dei successivi, fino ai giorni nostri.
1. We shall overcome
Se
si dovesse scegliere un'unica canzone per caratterizzare l'internazionalità
del '68, non potrebbe essere che questa, probabilmente la più
cantata dagli studenti (e non solo) di tutto il mondo durante
le manifestazioni e le occupazioni. A Milano fu la canzone più
cantata, per esempio, a Largo Gemelli, cioè nel tratto
di strada di fronte all'Università Cattolica occupata
in pianta stabile dagli studenti per protestare contro l'espulsione
dei “contestatori” dell'autoritarismo accademico,
tra i quali Mario Capanna, che espressero in seguito la leadership
del movimento studentesco anche in Statale.
Questa canzone era già diventata inno riconosciuto del
movimento nel corso delle lotte per i diritti civili e contro
la guerra del Vietnam, ed era stata resa universale da Joan
Baez, ma vale la pena di ricordarne la storia, lunga e complessa.
La prima versione (I'll overcome some day) risale al
1900 ed è opera di Charles Albert Tindley (1851-1933)
ministro afro-americano della chiesa metodista e autore di numerosi
gospel e inni religiosi, tra i quali la celeberrima canzone
Stand by Me. Nel 1947 il cantautore folk Pete Seeger
(1919-2014) la incluse, rielaborata e sotto il titolo We
shall overcome, in una raccolta di canti di protesta e del
lavoro. La incluse non per caso in quanto era stata cantata
dai lavoratori del tabacco, dai minatori in sciopero e da molte
altre categorie sociali in lotta.
Dall'io della prima versione, personale testimonianza
di fede e di impegno, si era dunque passati al noi. E
non si trattava di un noi che identificava genericamente gli
esseri umani, bensì, in pieno spirito evangelico, di
quegli ultimi che diventeranno primi. Si può anche
dire che la promessa evangelica, da annuncio di liberazione
futura dopo la fine dei tempi, si era trasformata in impegno
reale di vita, in testimonianza collettiva e attuale, cioè
da trascendente a immanente. Quando si dice noi, dunque,
di quali noi si parla? Degli oppressi. E non è
nemmeno necessario definirli con un pignolo elenco di categorie,
perché sono i noi che manifestano, che tutti possono
vedere fisicamente, che dedicano l'intera loro esistenza alla
lotta per l'emancipazione e la liberazione. Sono attivisti
nel senso che non si limitano ad attendere la liberazione celeste,
ma già attivamente si sentono e si rivelano liberi nella
loro lotta e nei loro comportamenti. Non subiscono più,
non attendono un nuovo mondo possibile, ma lo praticano
fin da ora.
Eppure, in questa immanenza attiva, questi uomini e queste donne
mantengono una tensione rivolta all'avvenire, perché
sanno di non poter fissare una scadenza temporale per la vittoria.
Partecipa di questo stesso spirito, in modo ancor più
estremo, la canzone di Bob Dylan Blowin' in the wind...
che alla domanda: “some day (un giorno) va bene,
ma quando?” dà una risposta tutt'altro che trionfalistica,
una risposta trascinata dal vento. In molte canzoni di Dylan,
per esempio I shall be released, e anche di altri, come
Bob Marley (Redemption Song) riecheggia questa radice
religiosa resa immanente nell'impegno quotidiano, nella lotta
attuale per la liberazione. Senza scadenza perché una
volta compiuta, la scelta della liberazione è irrevocabile,
è un impegno, una pratica concretissima, che si assume
per l'intera esistenza. E questa pratica include l'amore.
Credo sia interessante notare che a partire dal verso “deep
in my heart” la melodia di We shall overcome riprende,
anzi ricalca esattamente Caro mio ben un'aria napoletana
settecentesca di Giordani (non è certo se Tommaso Giordani,
suo fratello Giuseppe, o il Giuseppe padre di entrambi). Questa
mescolanza del resto è evidente anche in Stand by
me, che può essere intesa e cantata sia come canzone
religiosa che d'amore. We shall overcome, nella sua costante
trasformazione, rende manifesto quanto siano complesse le canzoni
del repertorio popolare, pur se ci appaiono semplici. Sono tradizionali
in quanto si trasmettono e si trasformano nei secoli.
2. Contessa
Nel
sessantotto italiano, questo inno rivoluzionario di Paolo Pietrangeli
dà pienamente conto di una specificità tipicamente
nazionale. Intendiamoci: non sto parlando affatto di nazionalismo,
perché è all'internazionalismo proletario che
ci si riferisce nella canzone. Sto parlando di un'esemplare
interpretazione, molto italiana, del Sessantotto. Si potrebbe
anche fare un parallelo con la canzone di Guy Debord Les
journées de mai che identificò il maggio francese,
ma che non era francese in senso nazionalistico, se non altro
perché trascrizione-trasposizione di un canto popolare
spagnolo adottato durante la guerra civile e, anche nella versione
francese, legato alla tradizione anarco-comunista ed esplicitamente
anti-stalinista.
L'antistalinismo, in Francia, doveva essere chiaramente espresso
a scanso di equivoci, in Italia si tendeva invece a soprassedere,
e non se ne trova infatti traccia in Contessa. Parto
da una strofa esemplare di Contessa: Se il vento fischiava
ora fischia più forte/le idee di rivolta non sono mai
morte/se c'è chi lo afferma non state a sentire/è
uno che vuole soltanto tradire/se c'è chi lo afferma
sputategli addosso/la bandiera rossa gettato ha in un fosso.
Come si vede, qui la pietra dello scandalo non è lo stalinismo,
ma il revisionismo, il riformismo. Sono loro i “traditori”
del comunismo. La tradizione cui ci si richiama è quella
resistenziale di Fischia il vento, un vento che non trascina
risposte difficili da decifrare, ma il vento che segnala un
impetuoso cambiamento di clima di cui profittare, qui ed ora,
per la spallata rivoluzionaria definitiva. All'amore, ci si
penserà dopo, l'urgenza è la lotta, violenta.
Risuonano, non testimonianze di vita, ma parole d'ordine: Compagni
dai campi e dalle officine/prendete la falce portate il martello/scendete
giù in piazza picchiate con quello/scendete giù
in piazza affossate il sistema.
Anche qui, intendiamoci: è ovvio che la violenza abbia
un suo ruolo nella Storia e non è dunque una forzatura,
non è tantomeno evasivo ricordarlo. Si sa: la rivoluzione
non è un pranzo di gala. Eppure è significativo
che una canzone tipicamente studentesca (si fa cenno nel testo
alle occupazioni e anche al libero amore) si concentri, nell'appello
rivoluzionario, sugli operai e i contadini, uniti nel sacro
simbolo della tradizione, cioè la Falce e il Martello.
Ricordo che nel '68, su questo aspetto, si ironizzava non poco,
anche tra chi questa canzone la cantava. “La falce,”
ricordavano i soliti irriducibili cani sciolti portati allo
sbeffeggio, “oggi serve al giardinaggio, il martello ad
appendere i quadretti in casa”. Il testo, nel suo rimarcato
richiamo alla tradizione comunista dura e pura, suonava desueto
anche nei confronti della realtà della condizione contadina
e operaia presenti. Tantomeno invitava a un impegno esistenziale,
di vita, ma ad approfittare di supposte circostanze favorevoli,
del tipo: ora o mai più. E questo è quanto. Nessuna
radice religiosa, nessuna espressione d'amore, unica radice
l'ideologia del comunismo rivoluzionario e di classe, rigidamente
intesa: operai e contadini, il resto mancia.
Il nostro Sessantotto italiano ha giustapposto due tradizioni
e due pulsioni piuttosto diverse. A partire dal '69 e lungo
tutto l'arco dei settanta, credo si possa dire che mentre la
prima tradizione, quella sociale e dei diritti civili, si è
allargata e ha finito per prevalere, la seconda si è
progressivamente rimpicciolita nella ricerca di un'identità
ideologica via via sempre più gruppettistica e sterile.
Sono convinto che in pieno cinquantenario, cioè a distanza
di mezzo secolo, si debba riconoscere questa crepa interna al
nostro Sessantotto e distinguere di conseguenza quanto è
ancora fecondo da quanto dovrebbe essere finalmente riconsegnato
a un passato museale. Le canzoni rivelano sempre di più
di quanto non si sospetti.
Gianfranco Manfredi
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