Intellettuali militanti
Sandro Portelli confessa pubblicamente una personalità schizoide. Lo fa per l'ennesima volta, e con un sorriso dall'aria innocua, mentre racconta – il 2 febbraio 2018 in Fondazione Feltrinelli, a Milano – di aver condotto le sue ricerche sulla storia orale del proletariato mentre per vivere faceva altro, ovvero il professore di letteratura afroamericana. E la separazione tra i due mestieri era così consolidata da indurre il suo pubblico di allora a pensare che i Sandro Portelli, sulla scena della cultura italiana degli anni '70, fossero due.
Sandro Portelli, naturalmente, minimizza e scherza, ed è un grande affabulatore, ed è anche, aggiungerei, persona che non mi stancherei mai di ascoltare. Però un po' è vero che nella cultura italiana, ora come allora, ci si sente costretti a fare quello in cui si crede proditoriamente, cercando di non dichiararlo, e tenendosi stretti la sicurezza acquisita di un mestiere che magari amiamo anche, ma che comunque è quello che ci dà da vivere. Dunque, lo manteniamo separato dai nostri atti di libertà, perché “non si sa mai”. L'ho fatto anch'io, dunque capisco bene il processo, sebbene nel mio caso le difficoltà di adattamento siano state e siano maggiori. E per questo non credo affatto che Portelli – e gli studiosi come lui, che sono di più di quanto non si creda – sia del tutto sincero quando dice di essere riuscito a tenere separati i due mondi. Penso al contrario che l'intellettuale che crede in quel che fa non possa in alcun modo nascondere le sue convinzioni e finisca per dipanarle in modo evidente in qualunque mestiere decida di fare per mantenersi. Un po' come Nino Manfredi che, in Pane e cioccolato (F. Brusati, 1973), si tinge i capelli biondi e affetta comportamenti nordici per farsi accettare in Svizzera, dove è emigrato, per poi rivelarsi clamorosamente come italiano quando la sua squadra segna un gol.
Ora, però, questo è un guaio. Un contesto culturale che costringe chi sceglie la libertà rispetto a stereotipi modellati dal mercato ad arrampicarsi sui vetri o a nascondersi, appassisce. È inevitabile. Nessuna forma di vita intelligente si esprime attraverso la ripetizione mercificata dell'uguale. E le culture – sempre plurali, sempre differenti, sempre in interazione, dialogo, conflitto, contraddizione reciproca – non sono riducibili a un meccanismo riproduttivo prevedibile, mercificabile e promulgabile. Sono atti di libertà, a appunto, e in quanto tali, non regolamentabili. Sta alla comunità accettarli, considerarli istruttivi, imparare da essi, oppure percepirli come inaccettabili ed escludere chi li pratica da qualunque forma di relazione.
Le parole sono pietre
Credo che questo valga per ogni cosa. La questione rende palesi come increspature su una superficie tranquilla alcune incongruenze che sono incapace di accettare. Qualunque ideologia è fatta di regole, ma la libertà individuale non può star dentro, secondo me, ad alcuna regola, fatta salva la necessità del rispetto della libertà degli altri. L'appartenenza a una comunità, a qualunque comunità – nel mio caso quella degli insegnanti e quella degli scrittori – pone un semplice problema: il mio comportamento “libero” (qualunque cosa si intenda per questo) limita, danneggia, mette a rischio la libertà degli altri? È probabile che vi siano infinite complessità teoriche in questa mia affermazione. Il fatto è che io non sono una teorica, né dell'anarchia né di alcun altro discorso sul potere. Perciò mi scuso in anticipo con chi questa competenza teorica l'ha. E naturalmente, per quel che mi compete, mi riferisco alla libertà creativa, e al vantaggio cognitivo che essa può portare agli altri. C'è un vantaggio cognitivo che la comunità può trarre dalle parole?
E qui torniamo a Portelli, e a quello che ho imparato ascoltandolo, mentre dedicava il suo discorso sugli strumenti della storia orale a Giulio Regeni. Le parole sono pietre, dice Portelli, e possono cambiare il mondo. Ecco: io penso che dobbiamo continuare a credere a questo, noi che scriviamo. Giornalisti, saggisti, ricercatori, scrittori. Poeti e visionari. Le parole sono pietre, e cambiano il mondo. Ci vuole un tempo infinito, e servono ironia e perseveranza. Ma si può, io credo che si possa, usare le parole in modo libero. E spandere l'infezione.
Nicoletta Vallorani
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