rivista anarchica
anno 48 n. 425
maggio 2018




Autogestione/
Fare dell'anarchia una realtà del presente

Sotto un titolo lievemente fuorviante (La pratica dell'autogestione, Elèuthera, Milano 2017, pp. 223, € 16,00) il volume di Guido Candela (economista) e Antonio Senta (storico) non è, come ci si potrebbe attendere, un'analisi delle realtà autogestionarie, delle loro caratteristiche, funzionamento e differenze, quanto piuttosto un'articolata argomentazione sul senso, le prospettive e soprattutto sull'efficacia dell'agire in prima persona nelle dinamiche produttive e sociali. Testo forse destinato a polarizzare i lettori, visto che coloro i quali sono interessati alle tematiche libertarie ma allergici a ogni forma di linguaggio specialistico incontreranno nei capitoli dedicati al tentativo di conciliazione tra efficienza economica e solidarismo qualche passaggio di non immediata digeribilità. D'altra parte chi ritiene necessario combinare le idee di trasformazione radicale con l'utilizzo di una terminologia e di concetti specifici troverà pane per i propri denti.
L'idea di base è quella di comprendere se l'autogestione nelle sue diverse modalità possa essere oggetto di una valutazione che consideri con criteri standardizzati la convenienza di un'organizzazione basata sulla condivisione consapevole e non su dinamiche gerarchiche. Che si parli di egoismo-altruismo oppure di Homo oeconomicus vs. Homo reciprocans il nodo da sciogliere resta pur sempre quello che indusse Kropotkin a scrivere Il mutuo appoggio, ma questa volta discusso in base a una serie di test specifici (esperimenti-giochi) rivolti ai meccanismi che inducono a specifiche opzioni nella ripartizione delle risorse disponibili. Non è certamente questo lo spazio per mettere in dubbio o addirittura discutere la correttezza metodologica dei “giochi” ideati, che, come ogni esperimento di laboratorio, possono essere messi in atto solo grazie a una drastica semplificazione delle variabili in campo: se la riduzione degli elementi influisca sulla validità del test sarà giudizio di chi legge.
Ritengo viceversa doveroso sottolineare che il merito maggiore del saggio non sta nelle risposte, che pure vengono avanzate senza timori, quanto negli interrogativi che esplicitamente o implicitamente solleva. In primo luogo ci si potrebbe chiedere se sia veramente necessario chiamare ripetutamente in causa categorie etiche, che per certi versi contraddicono la stessa tesi fondamentale. Ovvero: se davvero conviene praticare l'autogestione anarchica, perché dovremmo invitare gli altri all'etica solidale? La cosa più sensata sarebbe quella di dire “fate come vi pare, disinteressatevi della morale, ma abbiate la bontà di osservare come noi, che viviamo con modalità di libera condivisione, campiamo assai meglio di chi fa scelte opposte”.
Qui i ripetuti richiami alla morale rendono il testo, a mio modestissimo avviso, poco efficace. Ma queste potrebbero essere idiosincrasie da vecchio stirneriano anticonfuciano, e come tali del tutto irrilevanti. Viceversa, sorvolando su molte altre interessantissime questioni aperte (apribili), voglio sottolineare come un condivisibilissimo e fondamentale messaggio sia trasmesso con modalità insidiosamente parziali. Si tratta del tema, che pervade quasi l'intero libro, della necessità di fare dell'anarchia una realtà del presente, quotidiana, della quale l'autogestione costituisca la colonna portante. L'idea del non attendere la rivoluzione che ci condurrà al sol dell'avvenire si va, per fortuna, lentamente radicando, e con essa la consapevolezza che ci sono interessi concreti a neutralizzare le realizzazioni ottenute.
Scrivono gli autori: “...nella pratica il capitalismo reale e il mercato reale sono difesi da coloro, che, nei rapporti dell'uno contro l'altro, esercitano di fatto il dominio, il quale si esplica nell'ostacolare e nel nascondere l'affermarsi dell'autogestione fino a impedirla”. Ora, tali parole possono essere ampiamente sottoscritte, ma sono anche largamente insufficienti.
Infatti, ovunque l'organizzazione orizzontale superi il livello di tolleranza che il dominio ha deciso di praticare, il problema non è affatto che il potere “ostacoli e nasconda” l'autogestione, ma che si dedichi a combatterla con i suoi strumenti: paramilitari associati a polizia e narcos in Messico, squadroni della morte in Sudamerica, carrarmati di produzione tedesca e statunitense che il governo turco scaglia contro le comunità del Rojava, in questo preciso momento, domani altri poliziotti, altri carabinieri, altri militari - chissà dove. Questo tassello, non so se centrale ma certamente ineludibile, credo meriti una giusta considerazione in qualsiasi discorso sulla libertà in via di costruzione.

Giuseppe Aiello


Arte/
Un messaggio profetico

“Forse l'arte è proprio questo, un luogo dove il mondo può mettere la sua confusione.”
(C. Bollen, Orient)

Per anni, direi decenni, mi sono illusa, continuando a frequentare esposizioni d'arte, di poter vedere qualcosa che non fosse sempre il solito gioco delle tre tavolette spostate di qui per essere messe di là. Ne ho ricavato quasi sempre la sensazione di essere stata presa in giro da curatori che, incrociando in vario modo i soliti nomi di artisti, organizzano eventi commerciali camuffati d'aura culturale per raggiungere l'obiettivo degli incassi senza preoccupazione alcuna di fornire strumenti per ampliare conoscenze, affinare sensibilità e mettere in movimento cervelli. Personalmente son davvero rare le volte che ci casco ancora buttando al vento i miei denari, ma non è sempre stato così; è l'ultimo ventennio che, anche in questo ambito, ci ha regalato il trionfo della banalità.
Ho avuto la fortuna di vedere esposizioni bellissime e, avendo provato cosa significhi essere coinvolti intimamente da una mostra ben fatta, quanto piacere e senso di gratitudine se ne possa trarre e come ci si senta arricchiti, il fatto che questo accada in percentuale così piccola da essere quasi invisibile, porta con sé la triste constatazione della povertà di spirito della nostra società.
Detto questo è ovvio che un libro come quello di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, pubblicato lo scorso anno con l'esplicito titolo Contro le mostre (Einaudi 2017, pp. 184, € 12,00) con me abbia trovato porte spalancate: finalmente qualcuno che in maniera competente e approfondita, arrivando ad analizzare caso per caso, denuncia il disastro in cui versa questo settore della cultura italiana. Non sono io ad avere le traveggole!
Centocinquanta paginette per raccontare come un marasma di gente collusa con la peggior politica, curatori seriali e assessori senza bussola gestiscano il nostro patrimonio artistico in maniera arrogante e ignorante, impegnandosi a ricavare soldi dal puro intrattenimento di bassa qualità. Dalle Biennali di Venezia passando per Roma, Milano, Napoli, Firenze ecc. il libro è un elenco di “male-fatte”, di squallidi esempi documentati con precisione, fornendo date e nomi, nonché un accorato appello affinchè l'immenso patrimonio del nostro paese possa essere gestito con saggezza e acume da gente competente non asservita al politico di turno.
L'obiettivo sembra essere univoco: non permettere all'arte di svolgere il suo compito che è comunicare, interrogare, spiazzare, creare dubbi, porre interrogativi e in questo modo educare. Infinite visioni del mondo si raccontano attraverso di essa, ma bisognerebbe saper accompagnare passo passo alla comprensione di un linguaggio, ci vorrebbero ricchezza di materiali, dedizione, sensibilità organizzativa, bisognerebbe aver nel cuore il fatto che le opere d'arte tutto sono tranne che merce da businnes e invece... viviamo un'epoca dove “una sorta di autoipnosi collettiva, indotta dall'alto, punta a dimostrare che la cultura è una merce come tutte le altre. Basta pagare il biglietto di un museo per acquistarla”. E questo, si badi bene, non ha niente a che fare con la democratizzazione della cultura, anzi è l'esatto contrario, è lo svuotamento di tutte quelle funzioni che a tutti potrebbero permettere di conoscere la storia del passato e vedere l'attualità alla luce di quella storia.
Un libro soprattutto di denuncia ma non soltanto e gli esempi di buona gestione – sempre in località minori e un po' depistate, guarda caso – sono raccontati con altrettanta appassionata meticolosità. Un libro che riflette sul senso del passato artistico in relazione alla contemporaneità e dedica le conclusioni a quanto di più attuale si possa vedere in giro per le strade, street art.
Voglio dilungarmi sull'esempio che segue perché è davvero emblematico del come vanno le cose. Nel 2016 a Bologna decisero di organizzare (riporto da una citazione del sito ufficiale) “la prima grande retrospettiva dedicata alla storia della Street Art” preoccupati “sulle modalità di salvaguardia, conservazione e musealizzazione di queste esperienze urbane”. Titolo: “Street Art. Banksy & Co.”
Se normalmente non ci sono grandi reazioni rispetto alla maggioranza delle mostre, per questa invece ce ne furono eccome, e un post del collettivo Wu Ming andò diritto al sodo denunciando “l'arroganza paciona di curatori, restauratori e addetti alla cultura, che con il pretesto dell'amore per l'arte di strada trovano un'occasione di carriera, mettendo a profitto l'opera altrui. (...) Questa mostra sdogana e imbelletta l'accaparramento dei disegni degli street artist, con grande gioia dei collezionisti senza scrupoli e dei commercianti di opere rubate alle strade. (...) Dopo aver denunciato e stigmatizzato graffiti e disegni come vandalismo, dopo avere oppresso le culture giovanili che li hanno prodotti, dopo avere sgomberato i luoghi che sono stati laboratorio per quegli artisti, ora i poteri forti della città vogliono diventare i salvatori della Street Art. Tutto questo meritava una risposta”.
La risposta fu la cancellazione da parte di Blu, uno degli artisti messi suo malgrado in cartellone, aiutato dai ragazzi di due centri sociali occupati, dei pezzi da lui dipinti a Bologna in quasi vent'anni. E questo gesto è compiuto – cito ancora Wu Ming – “da coloro che non accettano l'ennesima sottrazione di un bene collettivo allo spazio pubblico, l'ennesima recinzione e un biglietto da pagare. Lo compiono coloro che non sono disposti a cedere il proprio lavoro ai potenti di sempre in cambio di un posto nel salotto buono della città. Lo compiono coloro che hanno chiara la differenza tra chi detiene denaro, cariche e potere, e chi mette in campo creatività e ingegno. Lo compiono coloro che ancora sanno distinguere la via giusta da quella facile”.
È stato un caso eclatante che ha messo in evidenza – ci ricordano gli autori del libro – tutte le opposizioni che entrano in gioco nel mondo dell'arte, in primis quella tra il potere/denaro e la vera ricerca, a seguire il rapporto tra curatori e artisti, tra intrattenimento e conoscenza, tra cattività e libertà.
Che ci piaccia o meno, di fatto l'arte di strada mostra un modo di fare e condividere cultura ricco di futuro e totalmente in opposizione all'industria delle mostre; spesso è espressione collettiva, anonima o celata dietro pseudonimi, niente a che vedere con il culto della personalità tipico del moderno, poiché la sua ricerca è altrove. Un'arte senza nomi che in occidente rimanda a un'epoca della storia prerinascimentale, quando l'individualità degli artisti si confondeva in una sorta di configurazione collettiva dando origine a opere che ancora andiamo a rimirare; un esempio per tutti, le cattedrali gotiche dell'Ile-de-France, capolavori anonimi voluti e costruiti da comunità civili.
Ma ad altre latitudini l'arte tribale – che siano aborigeni australiani o i Dogon del Mali – è tuttora sempre più o meno anonima, un'arte che nega il nesso arte-mercato e riporta al concetto di arte-comunità. Un messaggio profetico, si dice in chiusura del libro, all'interno del quale è probabilmente racchiusa la traccia da seguire per dare futuro all'arte. Auguriamocelo.

Silvia Papi


Antropologia dell'anarchismo/
Società senza Stato? Per esempio...

Che cosa accomuna la storia di popoli come gli inuit dell'Artico nordamericano, i san dell'Africa meridionale, gli yurok californiani o i land dayak del Borneo – solo per citarne alcuni – tra loro e con i protagonisti della rivoluzione spagnola del 1936 o con i collettivi dell'Ucraina di Machno?
L'anarchia, intesa come assenza di governo, che non è né caos né un sogno utopico impossibile. Si tratta piuttosto, secondo l'autore, di una forma di organizzazione politica molto comune, che ha caratterizzato buona parte della storia umana sia su piccola scala, come in gruppi di cacciatori, raccoglitori e coltivatori, ma anche in alcune grandi popolazioni con relazioni sociali complesse, nel passato come nel presente.
“Diecimila anni fa, tutti erano anarchici” sostiene Harold Barclay nel suo saggio (Senza Governo. Un'antropologia dell'anarchismo. Meltemi, Milano 2018, pp. 238, € 16,00) il cui titolo originale People without government suggerisce un'indagine accademica sui popoli di tutto il mondo che non hanno avuto o non hanno governo. O meglio, che hanno attivato forme di autogoverno diverse per regolamentare la propria società, normandola attraverso sanzioni sociali che non si avvalessero di autorità imposte dall'alto, ma che prediligessero una distribuzione diffusa e orizzontale del potere decisionale.
Attraverso una panoramica diacronica e plurale, descritta con un “presente etnografico”, sullo sviluppo delle strutture politiche anarchiche che attraversano differenti tipologie di società, si cerca di dimostrare cosa sia la pratica dell'anarchismo. Barclay infatti fornisce numerosi esempi di realtà, che si sono avvalse di forme altre di governo, anarchiche, per mantenersi in vita. Interessante è la similitudine fra il federalismo anarchico e il sistema di lignaggio segmentario, caratteristico di molte politiche anarchiche, soprattutto in Africa, dove l'autorità più efficace sta nella più piccola unità, diminuendo direttamente quando si passa a livelli più ampi di integrazione, affinché al vertice la federazione finale abbia poca o nessuna influenza.
Emerge quindi l'esigenza di disquisire sulla natura dell'anarchia, titolo del primo capitolo, dedicato al definire la differenza tra anarchia e anarchismo; laddove per anarchia si intende quella condizione della società all'interno della quale non esiste sovrano, spesso anche associata a quelle società definite “arcaiche” e “primitive”, mentre per anarchismo quella teoria politica sociale, sviluppatasi nel diciannovesimo secolo in Europa, che incorpora l'idea dell'anarchia come parte e risultato di un più ampio sistema di valori consapevoli, che ritiene essenziali la libertà dell'uomo e l'elogio dell'individualità.
Nel farlo, bisogna considerare i diversi modi in cui, all'interno di un ambito anarchico, sia mantenuto l'ordine. E questo è a sua volta legato al problema più generale delle dinamiche che intercorrono tra libertà e autorità che caratterizza la società umana, in tutte le sue evoluzioni. Si possono distinguere infatti, tra i vari esempi di politiche anarchiche, quelle che sono “involontarie” e quelle che invece sono “intenzionali”. Queste ultime si potrebbero definire come tentativi deliberati e pianificati da parte di alcuni individui, al fine di avviare un ordine sociale in accordo con un programma predeterminato. Per utilizzare un aggettivo descrittivo, essi sono esperimenti “utopici”, sulla scia delle idee anarchiche.
La maggior parte dei campioni analizzati nel testo è “involontario”, vale a dire quei tipi di società che, come quasi tutti quelli dell'avventura umana, sono cresciuti nella totale assenza di un piano consapevole generale, mentre gli ultimi capitoli si concentrano su alcune esperienze moderne, care alla tradizione del pensiero libertario, nelle quali una collettività cosciente sperimenta relazioni non gerarchiche, almeno in apparenza, sulla base delle quali portare avanti una società di liberi ed uguali.
Barclay dedica la parte conclusiva del libro all'analisi delle motivazioni che hanno portato le comunità intenzionali al collasso, alla graduale scomparsa o alla tendenza a degenerare poi in governi normalizzanti, delineando alcuni fattori ricorrenti come cause-effetto di epiloghi spesso tragici, altri come punti di forza comuni che fungono da collante, oltre ovviamente a considerare la varietà dei fattori esterni che influenzano inesorabilmente le sorti di queste concrete utopie. E da queste considerazioni si interroga sulle possibilità future dell'anarchismo e sugli insegnamenti che da esso si possono trarre: “l'anarchia semplicemente richiede lavoro, responsabilità e una grossa scommessa”.
Per determinare se l'anarchia abbia un avvenire pragmatico, occorre inoltre considerare se sia possibile fare a meno dello Stato, che oggi domina ovunque. Come scrisse Gustav Landauer: “Lo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, ma è piuttosto una condizione, un certo tipo di relazione tra gli esseri umani, un modo di comportarsi. Possiamo distruggerlo intrattenendo un altro tipo di rapporti, comportandoci diversamente.”

Gaia Raimondi


Donne anarchiche/
Che fatica uscire dall'angolo!

Il 27 febbraio 2016 si è svolta a Carrara, nella sala Leo Gestri della Biblioteca civica Lodovici, una Giornata di studi sulle donne nel movimento anarchico italiano promossa dall'Associazione Amici dell'Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa.
L'Associazione nasce nel 2014 con l'intento di organizzare eventi culturali in linea di continuità con il patrimonio storiografico conservato dall'archivio reggiano.
All'interno dell'assemblea, che coordina tali iniziative, è nata l'esigenza di approfondire le peculiarità dell'impegno militante delle donne nel movimento libertario, tanto da far maturare la proposta di dar vita ad un Centro di documentazione specifico.
La raccolta di materiale e lo studio delle istanze ideali, sociali ed etiche di tante donne che hanno dato il loro contributo al movimento anarchico non si vuole limitare alle figure più note, ma si pone come obiettivo di far emergere anche le esperienze meno conosciute.
Recentemente sono stati pubblicati gli atti della Giornata di studi di Carrara (Le donne nel movimento anarchico italiano (1871-1956), a cura di Elena Bignami, ed. Mimesis, Milano, pp. 185, € 18,00) che testimoniano, quindi, non un punto di arrivo, bensì uno stimolo concreto per “riflettere sulle complessità di questo tema, per cercare di mettere a fuoco ciò che a proposito è stato fatto e ciò che ancora occorre fare”, come sottolinea la curatrice Bignami.
Il libro raccoglie le interessanti relazioni presentandole con criterio cronologico. La continuità degli interventi è rappresentata dal rigore storiografico, dall'ampia bibliografia, dalla precisione dei riferimenti documentativi e dalla volontà di colmare la trascuratezza dei testi antologici che, per troppo tempo, hanno limitato tante protagoniste al ruolo di comprimarie citandole per essere figlie, sorelle, mogli o compagne di militanti maschi, mentre avrebbero meritato un interesse puntuale. Queste pagine, oltre al valore dei contenuti che trasmettono, lasciano la sensazione di una partecipazione corale ed appassionata ad un tema che necessita di un'analisi appropriata.
Attraverso linguaggi e intonazioni differenti, in tutti i contributi affiora la difficoltà di una ricerca condotta su materiali incompleti e sulla scarsità di testimonianze: un coro di voci, una sorta di rapsodia che sprona a sviscerare sensibilità anticipatrici di istanze che, nelle loro specificità, oggi appaiono urgenti e attuali, ad esempio sulla coerenza di un ideale vissuto anche in ogni aspetto della quotidianità o sulla possibile convivenza fra la militanza dettata da fatti contingenti e i progetti più graduali.
Antonio Senta si è occupato dell'impegno apportato dalle donne del movimento anarchico, nel contesto della fine del secolo XIX, quando l'Associazione internazionale dei lavoratori rappresentò il fulcro delle lotte emancipatrici. Dal suo studio meticoloso dei documenti si evince quanto, soltanto a partire dalla Comune di Parigi del 1871 e alla conseguente formazione di sezioni operaie femminili, fosse emersa l'esigenza di affiancare, ai temi dell'emancipazione di classe, una critica alla discriminazione sessista nella società e ai ruoli di asservimento all'interno della famiglia patriarcale: analisi e lotte entro le quali si distinsero molte anarchiche “in un'ottica in cui la sfera politica e personale si sovrappongono e in cui esse possano essere finalmente «libere e felici»”.
La seconda relazione è curata da Mirella Scriboni, alla quale è doverosamente dedicata questa pubblicazione, vista la sua recente scomparsa. Il periodo storico preso in considerazione è quello giolittiano dell'inizio del secolo XX e ad essere oggetto di approfondimento è l'impegno antimilitarista, soprattutto in seguito al tragico interventismo nella guerra mondiale. Soltanto “riscattando dall'oblio anche le figure che hanno avuto minore visibilità”, emergerebbe il pensiero determinante di molte donne anarchiche e rivoluzionarie impegnate nella sensibilizzazione nei confronti delle politiche governative causa di lutti, restrizioni economiche, sofferenze fisiche e traumi psicologici; non casualmente, si registrarono anche molte diserzioni all'interno dell'esercito per lo più represse con internamenti nelle istituzioni totali carcerarie e manicomiali.
Edda Fonda inserisce in questo contesto il suo racconto di una fra le personalità più discusse, nonché rivalutate, del movimento anarchico grazie all'immenso ed eterogeneo lascito di scritti politici e letterari: Leda Rafanelli. Espresse il suo contributo su temi contingenti alle lotte più rilevanti e condivise l'analisi di altre anarchiche, come Emma Goldman, che videro nel suffragio universale, o negli incarichi di potere, una falsa emancipazione per le donne.
Leda seppe personalizzare sia lo stile che i contenuti di un'utopia vissuta e sofferta in prima persona anticipando, in alcuni casi, riflessioni e dando alle analisi un taglio soggettivo, tanto che l'autrice di questo intervento suggerisce uno studio della sua vita romanzesca e delle sue opere, alla ricerca degli aspetti inediti e anticipatori perché quando “si naviga al buio e (...) si mira lontano, si va incontro a onde avverse, a scogli non segnati sulle carte, capita anche di scegliere rotte audaci”.
Lorenzo Pezzica, esprimendo l'esigenza di superare una “iconografia stereotipata presente anche in molta memorialistica anarchica”, traccia profili di donne che hanno vissuto il periodo fra le due guerre mondiali soffermandosi su Maria Luisa Berneri e Lucia Sánchez Saornil nel delineare i differenti percorsi di esistenze caratterizzate dall'esilio: “un vivere a metà (...) al di fuori della normalità e della sicurezza, dove si impone uno sguardo attento e sempre in guardia”; un esilio divenuto anche la cifra di percezioni interiori che, grazie alla volontà, seppero tramutare il contesto oppressivo in opportunità.
La seconda fu una delle fondatrici delle Mujeres Libres e seppe, non soltanto denunciare, ma anche vivere in prima persona contro lo stereotipo della donna madre, sposa ed eterosessuale rivendicando scelte personali rischiosamente anticonformiste e impegnandosi nella solidarietà alle classi più sfruttate e nella militanza per la rivoluzione sociale. Nei suoi scritti sono già presenti molti dei temi che diverranno il fulcro del femminismo attuale.
Su M. L. Berneri, nata e cresciuta respirando climi libertari, offre un ulteriore approfondimento anche Giorgio Sacchetti: emerge così una personalità distintasi per le scelte militanti, i sodalizi ideali e l'attività editoriale. Già a sedici anni segnalata dal Casellario Politico Centrale, nel suo soggiorno londinese ricevette la stima delle migliori menti progressiste dell'epoca, nonché la loro solidarietà quando la Freedom Press subì attacchi repressivi e processi penali.
Fu tra le prime ad ampliare l'analisi sulle molteplici sfaccettature dei condizionamenti di una cultura che esige la riproduzione di modelli autoritari: la sua critica al dispotismo comunista e alle subdole democrazie si arricchì di riflessioni su “i modelli di pensiero precostituito, siano essi afferenti la dimensione politica, economica, etica, oppure religiosa, finanche sessuale”. La morte la colpì prematuramente e molti dei suoi scritti rimasero incompiuti.
Giuseppe Galzerano ci parla di Virgilia D'Andrea, della sua difficile infanzia, della sensibilità antimilitarista e poetica. Impegnata nell'Unione Sindacale Italiana, scrisse su «Guerra di classe» e su «Umanità Nova». Subì accuse per vilipendio e istigazione all'odio di classe, persecuzione e carcere. Fu un'instancabile e stimata conferenziera, attività che svolse anche all'estero: il suo messaggio “supera il suo tempo (...) anche oggi può destare sentimenti di umanità e libertà: nelle sue parole (...) avvertiamo il bisogno irrinunciabile di lottare per reclamare (...) più spazi di libertà”. L'aggravamento della malattia di cui soffriva la sorprese mentre era negli USA, fu sepolta a New York. Tormento, una sua raccolta di poesie, fu pubblicata con la prefazione di Errico Malatesta.
Francesco Codello dedica la sua attenzione a Giovanna Caleffi che, dopo gli anni difficili del ventennio fascista accanto al compagno Camillo Berneri e alle figlie Giliana e Maria Luisa, focalizzò il proprio impegno in esperienze significative e nella redazione di «Volontà», privilegiando i temi della disobbedienza civile e della prospettiva educazionista, riuscendo a conciliare il pluralismo culturale e il pragmatismo metodologico con battaglie civili, mirando all'emancipazione del pensiero e al superamento del bisogno indotto dei ruoli di potere e di comando. “La sua visione strategica è profondamente anarchica e dunque inevitabilmente rivoluzionaria, seppur decisamente gradualista”. Nei suoi scritti e nella sua esperienza emerge l'esigenza di perseguire una costante verifica sulla coerenza fra mezzi e fini.
La chiusura di Elena Bignami si colloca ai primi anni dell'Italia repubblicana quando il movimento libertario risentì, inevitabilmente, della sconfitta della rivoluzione catalana, dei contraddittori strascichi del fascismo e della “sofferta e controversia partecipazione alla Resistenza”. É “una storia affascinante e complicata” sulla quale molti studi hanno finora omesso, o sminuito, l'impegno di tante anarchiche. I documenti a disposizione fanno risaltare, o quanto meno intuire, un vivo e vivace panorama che richiama la necessità di ricerca, nel tentativo di giungere ad una conoscenza più completa che possa anche abbracciare l'arco di tempo a noi più vicino.
Nel tracciare alcuni esempi significativi delle esperienze di quegli anni, l'autrice delinea un percorso metodologico soffermandosi sull'importanza delle fonti orali, le sole capaci ad integrare pubblicazioni o epistolari con la viva voce delle testimonianze: “lo strumento di indagine più idoneo a recepire i modi e le forme attraverso cui la donna vive e ripensa la propria memoria, registrando soprattutto i temi del privato e del quotidiano”.

Chiara Gazzola


Architettura/
Per un rispetto di fondo delle esigenze dei singoli e delle comunità

Due sono i temi che Adriano Paolella tratta fondamentalmente in questo saggio sulla partecipazione in architettura (Partecipare l'architettura. Ovvero come progettare nella comunità, Cosenza 2017, Pellegrini, pp. 167, € 15,00) e tra loro strettamente collegati: il ruolo dell'architetto in un libero processo di sviluppo – non solo formale – della comunità e la qualità architettonica del costruito in una società egalitaria.
Lo scopo dell'attività di Paolella in quanto architetto è sempre stato chiaro, “contribuire a migliorare le condizioni ambientali e sociali del Pianeta e delle comunità insediate” per “capire, interpretare, sostenere interessi comuni piuttosto che (...) produrre manufatti” e approfondire la dimensione “culturale e sociale (...) di un mestiere unico e indispensabile”, come precisa sin dalle prime righe. Una visione ben distante da quella spacciata dai media del progettista come archistar, figura così amata dai rotocalchi, dal mercato e dalle grandi compagnie immobiliari.
Il testo analizza nei suoi vari aspetti i vari modi e tentativi di superare “la dicotomia molto profonda tra linguaggio disciplinare e necessità e desideri degli abitanti” e di riallacciare quel legame tra progettista e comunità che in alcuni momenti felici della storia e particolari contesti contemporanei esiste ed è sempre esistito. In questo Partecipare l'Architettura è una miniera di esempi e di citazioni di architetti che hanno operato in modo libertario e con strumenti partecipativi nei più diversi ambiti territoriali: dagli interventi di John Turner nelle favelas sudamericane negli anni '60 all'attuale quinta Monory del gruppo Elemental di Julio Aravena, dall'architettura partecipata di Lucien Kroll e Ralph Erskine agli interventi sociali e di autocostruzione di Colin Ward e di Giancarlo De Carlo, alle teorie di Ivan Ilich, Walter Segal, Bernard Rudofsky, il geniale autore nel '64 di Architecture Without Architects e all'opera di tanti altri architetti e teorici di impronta libertaria. Un manuale prezioso.
Se la figura dell'architetto che Paolella preconizza, in tutte le varianti partecipative e tipologie professionali ampiamente descritte nel quarto capitolo L'architetto e gli abitanti, risulta chiara e ben delineata, altrettanto chiaro è il modello architettonico e insediativo che l'autore auspica: quello 'vernacolare' di una comunità che contribuisce a realizzare in modo autonomo i propri spazi abitativi.
“Quali sono le necessità di un abitante? (...) una casa solida (...) una città non inquinata (...) Tendenzialmente tra le necessità dell'abitante non vi è un grattacielo, né una stazione ferroviaria grande quanto un paese,” – l'autore pensa al gigantismo inutile della stazione Tiburtina di Roma che cita nel testo – “né edifici pubblici monumentali, né assi stradali haussmaniani. Di questi ci si può stupire, nel caso esserne orgogliosi, ma è difficile usarli per soddisfare le richieste di benessere degli abitanti.”
Piccola scala dunque e attenzione alle esigenze abitative, anche minori che vengono dal basso, come esigenze di piccoli spazi accessori, personalizzazione dell'ambiente, possibilità di intervenire sugli spazi e le funzioni. Non l'imposizione di stili o modelli da parte di un progettista illuminato, allineato alle esigenze del mercato, ma accoglienza della complessità dei gusti e delle esigenze dei singoli nella definizione dei propri spazi: l'architettura senza architetti descritta da Rudofsky che inevitabilmente assume una conformazione 'vernacolare'. Cosa che può essere possibile solo in una comunità compatta che usa consapevolmente gli strumenti della partecipazione e con il coordinamento e l'aiuto dell'architetto che non deve “organizzare progetti 'per' e nemmeno 'con', ma 'dei' cittadini.” “I progettisti hanno un compito imponente: capire cosa vogliono i cittadini, estrarre i desideri da quanto di commercialmente e culturalmente indotto, e aiutarli a concretizzarli”. Altrove Paolella afferma: “Ecco, gli architetti sono degli artigiani, dei sarti e le case le fanno su misura per gli abitanti, come i vestiti.”
Purtroppo oggi la gran parte di noi usa abiti confezionati anonimi e per di più, per comodità e per motivi economici, li ordina in rete...
Il vestito su misura è un lusso che possiamo ancora permetterci? Farei rispondere a William Morris, che l'autore cita in queste pagine, ricordando quanto il suo messaggio sia stato frainteso, a partire dai suoi contemporanei. Morris sosteneva che fosse necessario recuperare le capacità artigianali nella realizzazione del proprio ambiente abitativo, conoscenze e tecniche che stavano sparendo alla fine del XIX secolo lasciando il posto alla produzione industriale in serie che poteva ridurre i costi e aumentare l'efficienza e la velocità di realizzazione.

I conti con una popolazione di 7 miliardi

Il suo messaggio fu scambiato dai suoi critici, soprattutto di area marxista, per una forma di conservatorismo piccolo-borghese, questi sottolineavano come i costi dei prodotti industriali fossero incomparabilmente più contenuti e adatti dunque anche alle fasce più indigenti della popolazione. Si trascurò l'aspetto fondamentale della proposta di Morris, che proponeva la diffusione delle competenze artigianali all'interno della comunità e teorizzava l'autocostruzione del proprio alloggio e la creazione di comunità autogestite in gran parte autosufficienti, anche nella produzione di manufatti e prodotti artistici. La proposta di Morris voleva essere innanzitutto il tentativo di cambiare il modello centralizzato capitalista di produzione di beni e recuperare gli elementi di mutuo appoggio comunitario che erano ancora vivi alla fine del XIX secolo.
Per Paolella la scelta è chiara: “o si opera per la diffusione di una cultura che favorisca la partecipazione attiva degli abitanti alla composizione dei loro spazi o si opera ordinando e quindi imponendo ai cittadini le soluzioni elaborate (nel chiuso del suo studio) dall'architetto.
Tra le due ipotesi vi è la stessa differenza esistente tra un bosco e un giardinetto: il primo può contare su centinaia di specie vegetali e animali, il secondo su meno di una decina di specie; il primo ha la capacità di sostenersi autonomamente, di rigenerarsi, mentre la nostra aiuola ha bisogno di manutenzione continuativa. Il primo è un sistema disordinato ma anche molto più complesso; il secondo un sistema semplificato, artificializzato, ordinato”. Nella produzione edilizia contemporanea “l'edificio tende a divenire un prodotto alienato, così come quello della catena di montaggio, e contribuisce alla perdita delle capacità tecniche proprie delle comunità locali.” “L'immagine proposta da Morris (...) rimanda ad un'organizzazione del lavoro, ad una comunanza di cultura, al perseguimento di un benessere comune ottenuto con l'attività consapevole della comunità e delinea l'architettura in forma di prodotto della cultura collettiva.”
Così, se dovesse cambiare il modo di produzione, 'il vestito su misura' potrebbe tornare ad essere la scelta più economica ed efficace.
Nella tradizione urbanistica libertaria, da Morris a Kropotkin, passando per Patrick Geddes, Lewis Mumford, sino ad arrivare a John Turner, Colin Ward e Giancarlo de Carlo, si è sempre auspicato l'insediamento sul territorio di piccole comunità autogestite e di conseguenza alla realizzazione di edifici e manufatti di dimensioni contenute; i monumenti, i grattacieli, le megastrutture che caratterizzano le metropoli attuali sono sempre state considerate come nient'altro che la forma visibile del potere economico, del controllo e dello sfruttamento. Vero.
Ma è con questo mondo di sette miliardi di abitanti che dobbiamo fare i conti oggi, e con conurbazioni mostruose di dimensioni inter-regionali. Problema che Murray Bookchin si era posto con il suo I limiti della città del 1973 (tradotto nel 1975 da Feltrinelli), alla fine proponendo di dividere città come New York in tanti municipi o comuni tra loro liberamente federati. Il problema della grande dimensione deve essere ancora affrontato in materia seria nell'ambito delle riflessioni libertarie.
In un passo del saggio Paolella dichiara la sua perplessità anche nei confronti dell'architettura in verticale, dei grattacieli, dubitando che ne possano esistere di ecologici prendendo in analisi un esempio nostrano di grande successo: “Non è semplice capire se un edificio è efficiente, sostenibile, ecologico. Si prenda ad esempio l'edificio chiamato 'bosco verticale' di Stefano Boeri a Milano. È un edificio ecologico? Tendenzialmente no. (...) La soluzione non interpreta una condizione naturale ma pone elementi naturali in condizioni di elevata artificialità impegnando energia e materiali (dalla conformazione dell'edificio ai fitofarmaci e concimi).”
Non un bosco, quindi, per Paolella, ma quello che sopra ha definito “un sistema semplificato, artificializzato, ordinato” che “ha bisogno di manutenzione continuativa”, insomma un giardinetto o una semplice aiuola.
Tutto il saggio è una dichiarazione di fiducia nelle capacità creative spontanee degli abitanti e un incitamento al recupero della dimensione comunitaria del costruire che ancor resiste in nicchie importanti sul pianeta, alla rivalutazione di uno 'stile' vernacolare, all'azione del progettista che dovrebbe “invece di imporre agli abitanti soluzioni insediative astratte, cercare una continuità con la cultura vernacolare, innovandola, interloquendo e limandone gli eventuali fattori negativi.”

Franco Bunčuga


Il ritorno di “Sacco e Vanzetti” (in blu-ray e doppio Dvd)/
Gridatelo dai tetti

A inizio Novecento lasciarono l'Italia per trovare lavoro. Si conobbero in America. Erano anarchici. Furono arrestati ingiustamente per rapina e omicidio, che non avevano commesso.
Negli Stati Uniti dell'epoca, da Chicago a San Francisco, ma anche in Inghilterra, a Londra, si mobilitarono migliaia di persone per l'evidente ingiustizia in corso, al grido di «Sacco and Vanzetti Must Not Die!». Nell'Italia del regime fascista non fu silenzio, ma quasi. Mussolini però definì il tribunale statunitense «pregiudizialmente prevenuto» e tentò di salvare Nicola e Bartolomeo tramite i funzionari del Ministero degli Esteri, l'ambasciatore italiano a Washington e il Console italiano a Boston.
Nick e Bart furono condannati alla sedia elettrica su cui morirono il 23 agosto 1927.
La storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti è limpida, quanto atroce, nella sua tragedia. Icona-simbolo chiaro della violenza a cui può spingersi il potere, caricatura di se stesso, che – nei corsi e ricorsi storici – condanna a morte due poveri cristi innocenti, “colpevoli” di essere “sovversivi”, “radicali” e per di più immigrati «venuti nel paese di Bengodi per arricchire...». Roosevelt lo definì «il più atroce delitto commesso in questo secolo dalla giustizia umana».
Il 23 agosto del 1977, nel cinquantesimo anniversario dell'assassinio di Nick e Bart, il Governatore del Massachussetts, Michael Dukakis, riabilitò – non senza retorica americana – le figure dei due compagni italiani, indicendo il 23 agosto “giorno commemorativo”.
A oltre novant'anni dai fatti narrati esce nuovamente in blu-ray e Dvd (ed. Ripley's) il film che Giuliano Montaldo realizzò nel 1971 per raccontare l'atroce verità su Nick e Bart*. Come le due canzoni Ballata di Sacco e Vanzetti e Here's To You, Nicola and Bart di Joan Baez (ed Ennio Morricone), che aprono e chiudono il film, Sacco e Vanzetti procede in un crescendo melodrammatico accorato, politico e sentito.
La prima e l'ultima sequenza sono in bianco e nero, come il materiale di repertorio che contrappunta il film. Il resto è a colori, come a dare un “presente” alle parole e alla sofferenza di Nick e Bart. Il bianco e nero della lunga sequenza finale pare invece marcare una connotazione di allucinata “atemporalità”, un “per sempre” iconicizzato, da non dimenticare, traccia tangibile e fotografica di qualcosa che è davvero esistito, benché ricreato ad arte dal Cinema.
Sacco e Vanzetti è un film “militante” e “partigiano”, perché non si può non essere dalla parte degli innocenti e degli sfruttati, dunque, fin dalla prima sequenza dell'aggressione delle forze dell'ordine al Circolo Lavoratori Italiani, Montaldo prende un punto di vista chiaro e parziale, però mai didascalico.
Opera di contrasti, in particolare fra i due caratteri opposti dei protagonisti: il parlare fluido e antipotere di “Tumlin” Vanzetti – «Ho combattuto per eliminare il delitto... primo fra tutti lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo!» – e il silenzio di Sacco che parla con lo sguardo, il volto segnato dal dolore, salvo poi fargli ritrovare parole magnifiche nella bellissima lettera al figlio: «Possono bruciare i nostri corpi, oggi, non possono distruggere le nostre idee, esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda, figlio mio, la felicità dei giochi, non tenerla per te... cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato, l'oppresso... loro sono i tuoi migliori amici.»
Pare quasi di sentire Tom Joad in Furore di Steinbeck e nella ballata che ne ha tratto Springsteen (The Ghost of Tom Joad).
Nel finale sulla sedia elettrica il nostro sguardo coincide a lungo – in soggettiva – con quello di Nicola Sacco, come a dire che la sua storia è/può essere la nostra, anarchici e non, vittime dell'ingiustizia più nera. E proprio nel nero, sulla luce che si spegne mentre Vanzetti è sulla sedia elettrica, si chiude il film.
Storia complessa quella del film Sacco e Vanzetti: tre anni per trovare un produttore, Arrigo Colombo, ebreo fuggito in America, che aveva imparato l'inglese leggendo proprio le lettere che Bartolomeo Vanzetti aveva scritto ai membri del Comitato di difesa.
Un primo potenziale produttore chiese, senza alcuna ironia, a Montaldo se Sacco e Vanzetti fossero una ditta di import-export (cfr. la prefazione del regista al libro autobiografico di Vanzetti Gridatelo dai tetti, a cura di Alberto Gedda, ed. Fusta).
Quando, tempo fa, era uscita la prima edizione dvd del film, finalmente, sembrava essere stata fatta un po' di giustizia alla versione originale cinematografica, dopo che le versioni circolate in VHS o visibili in tv sulla Rai censuravano ancora la battuta finale di Vanzetti-Volonté che si siede sulla sedia elettrica al motto (sempre ammutolito-censurato in tv) di: «Viva l'anarchia!».

Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco) e Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti)

Per tantissimi anni il film è poi rimasto fuori catalogo e si doveva ricorrere all'edizione francese. Dopo una prima edizione blu-ray del 2012 nuovamente non completa (la battuta finale della versione inglese tramutata in «I am innocent!»), oggi, grazie a Ripley's Film, è uscito finalmente in versione blu-ray e dvd a doppio disco nella sua integrità.
Osservò, tempo fa, quel genio libertario di Kurt Vonnegut (cfr. Un pezzo da galera, ed. Feltrinelli): «Quand'ero giovane, ero convinto che la storia di Sacco e Vanzetti sarebbe stata raccontata tanto spesso quanto la storia di Gesù Cristo, suscitando altrettanta commozione. Non avevano forse diritto, i moderni – pensavo – a una Passione moderna come quella di Sacco e Vanzetti, che si concludeva sulla sedia elettrica? Quanto agli ultimi giorni di Sacco e Vanzetti e al finale della loro Passione: come già sul Golgota, erano tre i condannati a morte dal potere statale. Stavolta, non uno su tre era innocente. Innocenti erano due, su tre...».
Purtroppo la storia di Nick e Bart, poveri cristi uccisi sulla croce-sedia elettrica, almeno in Italia, sembra ancora dimenticata o mai abbastanza ricordata.
Scrisse Bart Vanzetti con la potenza di un poeta (cfr. Gridatelo dai tetti): «La mia vita non può assurgere a valore di autobiografia comunque considerata. Anonimo nella folla anonima, essa trae luce dal pensiero, dall'ideale che sospinge l'umanità verso migliori destini. E questo ideale io riassumo come balena nel mio pensiero...».

Luca Barnabé

* Sacco e Vanzetti (Box blu-ray e DVD Sacco e Vanzetti, ed. Ripley's Home Video). La nuova edizione in blu-ray e Dvd di Sacco e Vanzetti contiene diversi extra speciali: booklet C'erano una volta Nick e Bart, un'intervista a Giuliano Montaldo, il provino di Rosanna Fratello che interpreta Rosa, la moglie di Sacco, Trailer, Cronache degli Anni Venti e un documento sul Comitato di riabilitazione del 1976.


Pedagogia libertaria/
A scuola con Colin

Francesco Codello ha curato per Elèuthera un libro di pedagogia scritto dall'architetto e militante anarchico inglese Colin Ward (1924 – 2010): L'educazione incidentale (Milano 2018, pp. 256, € 17,00). Ne riproduciamo qui la prefazione.
Famiglia e scuola sono sempre stati considerati i luoghi per eccellenza dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze, acquisiscono un'educazione. Colin Ward decide invece di esplorare un particolare aspetto dell'educazione che prescinde da queste istituzioni: l'incidentalità. Ecco allora che le strade urbane, i prati, i boschi, gli spazi destinati al gioco, gli scuolabus, i bagni scolastici, i negozi e le botteghe artigiane si trasformano in luoghi vitali capaci di offrire opportunità educative straordinarie.
Questa istruzione informale, volta alla creatività e all'intraprendenza, rappresenta pertanto una concreta alternativa a un apprendimento strutturato e programmato che risponde più alle esigenze dell'istituzione e del docente che alle necessità del cosiddetto discente. Si configura così un approccio al tempo stesso nuovo e antico alla trasmissione delle conoscenze in grado di fornire un'efficace risposta a quella curiosità, a quel naturale e spontaneo bisogno di apprendere, che sono alla base di un'educazione autenticamente libertaria.

Nel 1975, durante una conferenza tenuta al Garden Cities/ New Town Forum di Welwyn Garden City, in cui criticava gli esponenti di una certa cultura marxista rivoluzionaria, Colin Ward (1924-2010) sosteneva che questi ultimi sono simili «a quanti pensano che sia meglio lasciar morire di fame i poveri negli slum perché così il giorno della rivoluzione arriverà più in fretta. A parte la nostra antipatia morale per questo modo di pensare, le cose non funzionano così».
Tutti i suoi scritti, tutta la sua vita di studioso militante, di architetto ed educatore, di giornalista e insegnante, di sociologo e urbanista, di economista e osservatore delle abitudini e dei comportamenti umani, è improntata a questa convinzione. Perché una «società anarchica, una società che si organizza senza autorità», ha scritto nel suo libro forse più noto, Anarchia come organizzazione, «esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello Stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio [...] del nazionalismo [...] delle religioni».
Si potrebbe dire che l'anarchismo di Colin Ward e il suo approccio all'educazione si fonda, principalmente, su due convinzioni. La prima è stata espressa da Paul Goodman: «Una società libera non può essere l'imposizione di un 'ordine nuovo' al posto di quello vecchio: essa è invece l'ampliamento degli ambiti di azione autonoma fino a che questi non occupino gran parte del sociale». La seconda da Gustav Landauer: «Lo Stato non è qualcosa che può essere distrutto attraverso una rivoluzione, ma è una condizione, un certo tipo di rapporto tra gli esseri umani, un tipo di comportamento; lo possiamo distruggere creando altri rapporti, comportandoci in modo diverso». Da queste premesse consegue il suo inevitabile interesse per l'educazione e l'importanza che essa assume nel suo disegno di trasformazione sociale.
La scrittura di Ward è semplice, essenziale, immediata, parte da un fatto, da una serie di esempi concreti, da osservazioni dirette, per cercare di rinvenirvi degli insegnamenti, mai però esaltati, sempre proposti come spunti di riflessione critica e autocritica. Anarchico senza dogmi, intellettuale concreto poco interessato a rivolgersi a un'accolita di iniziati o a una setta, Ward non è il tipo di anarchico che scrive in codice, e non si perde mai nella polemica astiosa o nel culto devoto della tradizione. L'anarchismo, secondo la sua rivoluzionaria interpretazione, non è un «programma di cambiamenti politici ma un atto di autodeterminazione sociale». Lo «sguardo» di Ward esplora molte dimensioni della nostra vita sociale e quotidiana, a partire dalla premessa che non c'è circostanza della nostra esistenza e della vita pubblica che non presenti un grado latente di libertà e non consenta una scelta tra soluzioni «autoritarie» e «libertarie», cioè radicalmente diverse da quelle burocratiche e autoritarie dello Stato.
Questo libro non solo testimonia in maniera esemplare come si possa scrivere osservando in modo disincantato e critico ciò che ci accade intorno, ma ci stimola a riflettere suggerendo un metodo di indagine che supera le contestualizzazioni spazio-temporali da cui muove e che restituisce un senso profondo al nostro rapporto tra lo spazio e l'ambiente, spiattellandoci davanti, senza dirlo, l'orrore della pianificazione e dell'urbanizzazione delle società industriali e post-industriali. Il suo approccio, anche in questi ambiti, è globale, ricco, diversificato, interdisciplinare. Non fornisce prescrizioni tassative, ma racconta esempi che possono suggerire nuove pratiche, per un uso non formale e inconsueto del nostro ambiente e dello spazio corretto e rispettoso che noi possiamo trovare all'interno di esso.
Nei vari capitoli che costituiscono questa antologia, dedicati al tema dell'educazione e della scuola, Ward ci mette davanti una quantità di esempi concreti di come l'educazione passi attraverso un uso creativo dell'ambiente e di come la Scuola sia, di fatto, una gabbia troppo recintata che impedisce un profondo arricchimento culturale, perché estranea sempre più alla vita sociale delle giovani generazioni.
Il suo interesse per l'educazione è vivo fin dall'inizio della sua attività di pubblicista. Figlio di un maestro elementare, poi divenuto direttore di scuola primaria, Ward non è un alunno modello, abbandona presto gli studi per lavorare in diversi ambiti. Tra il 1971 e il 1979 si impiega come responsabile all'istruzione nella Town and Country Planning Association, dove cura la pubblicazione del «Bulletin of Environmental Education», per poi dedicarsi principalmente all'attività di saggista. Fedele al monito di Alexander Herzen (più volte citato nei suoi scritti), secondo cui «un obiettivo che sia infinitamente distante non è un obiettivo, è un inganno», si prodiga per portare alla luce, in vari testi sugli argomenti più disparati, quei «semi sotto la neve» che testimoniano come l'anarchia sia principalmente una teoria e una pratica di organizzazione sociale. Il suo punto di riferimento principale, in un ipotetico «pantheon» anarchico, è sempre stato quel Pëtr Kropotkin che aveva scritto Il mutuo appoggio e Campi, fabbriche, officine, cioè quella tradizione libertaria (molto anglosassone e socialista) che si è dedicata principalmente a realizzare e a sperimentare soluzioni antiautoritarie nelle varie situazioni della vita concreta.
In un libro pubblicato nel 1991, Influences. Voices of Creative Dissent, Ward ci presenta dieci pensatori che, in diversi ambiti di interesse, hanno influenzato la sua ricerca, offrendogli lo spunto per sviluppare il suo percorso di pratiche e di riflessioni. Alla voce Education egli annovera il filosofo inglese William Godwin e l'antesignana del femminismo Mary Wollstonecraft. Ambedue vengono rivalutati per le loro idee in ambito educativo e in particolare per uno stile di scrittura che sprigiona empatia verso i bambini (Wollstonecraft) e per un approccio pionieristico all'educazione libertaria (Godwin). Nella critica radicale che il filosofo inglese muove all'organizzazione statale dell'istruzione, Ward intravede le potenziali argomentazioni che pensatori moderni come Paul Goodman, Ivan Illich ed Everett Reimer hanno mosso nei confronti dei sistemi scolastici contemporanei. Una concezione completamente diversa della scuola, ci ricorda il nostro autore, è stata prefigurata proprio da Godwin già nel 1797, anno in cui sostiene la necessità di spazzare via l'intero apparato che si è fin lì assunto quel compito: «Per la precisione, sulla scena non compariranno più personaggi come il precettore o il discepolo. Il ragazzo, al pari dell'adulto, studierà perché ne ha voglia. E seguirà un programma ideato da lui personalmente, o comunque fatto suo per libera scelta». Questa idea radicale di organizzazione dell'istruzione viene collegata da Ward sia a scuole come la Summerhill di Alexander Neill o ad altre esperienze alternative simili, sia a qualche esperienza minoritaria e isolata dentro il sistema scolastico ufficiale, come la Prestolee School di Edward O'Neil nel Lancashire, attiva nel periodo successivo alla prima guerra mondiale.
In particolare egli fa sua l'idea formulata da Paul Goodman di «educazione incidentale», secondo cui sarebbe più semplice, più economico e più equo smantellare tutto il sistema scolastico e dare a ogni studente la parte che gli spetta del denaro stanziato per l'istruzione:
Il programma di Goodman è spaventosamente semplice. Prevede per i più piccoli «un ambiente protettivo e stimolante, creato decentralizzando la scuola in piccole unità che comprendono da venti a cinquanta bambini, dislocate in negozi o sedi di associazioni utilizzabili a questo scopo, con l'abolizione dell'obbligo di frequenza, collegando la scuola a piccole fattorie in cui i bambini delle città possano trascorrere uno o due mesi all'anno».
Questo programma è esattamente l'opposto delle riforme scolastiche che i vari governi hanno messo in atto nei vari Stati con i risultati che tutti noi possiamo vedere. Per Ward ogni angolo della città è un'aula scolastica, ogni strada uno spazio di incontro e di sperimentazione di relazioni vitali, ogni contesto urbano o rurale è un luogo di apprendimento, ogni occasione è propizia a stimolare l'autonomia e la partecipazione diretta alla vita sociale. Come testimoniano i suoi scritti, è indispensabile riappropriarsi dell'ambiente in cui viviamo, ricondurlo a dimensione di bambino e bambina, trasformandone ogni contesto organizzato in una sorta di aula scolastica.
Nella prospettiva di Ward, l'educazione è pertanto necessariamente «educazione ambientale», nel senso duplice che questa idea introduce, ovvero sia l'uso dell'ambiente (contesto), in luogo dell'aula scolastica, come mezzo educativo, sia l'educazione che riguarda l'ambiente naturale. Ma egli sottolinea anche la necessità che l'educazione ambientale «venga intesa come qualcosa che riguarda le città dove la stragrande maggioranza dei bambini europei vive e va a scuola». Questa educazione dovrebbe avere lo scopo di «rendere i ragazzi padroni del loro ambiente: altrimenti non si vede a cosa possa servire». L'approccio che occorre avere nei confronti dell'ambiente è quello di indagare il contesto sociale a partire dai problemi specifici e quindi diviene inevitabilmente educazione alla partecipazione. Questo implica che «l'interpretazione dell'ambiente avviene per contatto diretto con la cosa stessa, e non attraverso una sua proiezione bidimensionale nel chiuso di un'aula. La ricerca dei ragazzi sull'ambiente urbano deve avvenire nella città stessa, attraverso quello che i geografi chiamano 'lavoro sul campo' e che, nel contesto urbano, potremmo chiamare 'lavoro di strada'. Tutte le conoscenze e le esperienze che la strada (metafora del contesto sociale) può direttamente offrire al processo di apprendimento sono di fatto scomparse dalla vita quotidiana dei nostri ragazzi; anzi, scriveva Ward, 'gli sforzi della nostra società sono tutti rivolti a tenerli lontani dalla strada'. Il risultato è che 'nessuna città è gestibile se non fa crescere cittadini che la sentano propria'.
Per questo 'occorre portare avanti l'idea che la scuola deve diventare una scuola di ricerca: un'istituzione privilegiata, autorizzata a investigare e criticare in nome della prossima generazione'». Questa nuova scuola non si caratterizzerebbe più per la quantità di denaro e di investimenti richiesti, ma si configurerebbe come una scuola più «povera», cioè meno dotata di mezzi costosi, che utilizzerebbe l'ambiente locale a favore dell'istruzione dei ragazzi, mettendoli veramente al centro del processo di apprendimento. Infatti: gran parte delle nostre spese sugli insegnanti e sulle strutture è sprecata se si cerca di insegnare ai bambini ciò che non vogliono imparare in una situazione in cui non vorrebbero neanche essere [...]. La scuola è diventata uno degli strumenti con cui gli adolescenti vengono esclusi dalle responsabilità e dalle attività reali nella vita come nella società.
Ward insiste su questa visione di «povertà», non consueta rispetto alla centralità giustificativa che spesso gli stessi insegnanti reclamano a favore di sempre maggiori investimenti. Come Paul Goodman, anch'egli sottolinea sempre una visione pluralistica dell'educazione, la necessità di decentrare le istituzioni scolastiche, il ruolo strategico che devono assumere la partecipazione e il coinvolgimento dei ragazzi e di tutti coloro che a vario titolo operano nelle realtà educative. Perché, soprattutto per l'istruzione, «l'autogoverno è più importante di un buon governo». Occorre, a suo giudizio, puntare «tanto sulla disponibilità dell'eccellenza accademica quanto sull'approccio decisamente non accademico», quindi sulla flessibilità e sulla malleabilità di ogni organizzazione scolastica in modo da favorire le diverse sensibilità e i diversi talenti.
L'obiettivo dell'azione educativa che i sinceri libertari devono perseguire è quello di organizzare una società a misura di bambino, perché in questo modo sarà una società più felice: «I bambini non possono scegliere i propri genitori, le proprie condizioni economiche o il proprio luogo di residenza. Aiutiamoli quindi a trarre il meglio da ciò che possiedono». Tutto questo nella convinzione che «l'approccio anarchico al problema dell'istruzione si basa non sul disprezzo per lo studio ma sul rispetto dell'allievo».
In questa antologia Colin Ward esplora quel particolare aspetto dell'educazione, l'incidentalità, che viene opportunamente valorizzato nei diversi contributi raccolti. Ecco che le strade della città, i prati e i boschi della campagna, gli spazi deputati al gioco (più o meno strutturato), gli scuolabus e i bagni delle scuole, i negozi e le botteghe artigiane, non solo offrono opportunità straordinarie per un'educazione informale, ma sono luoghi vivi che si rivelano vitali per imparare. Questa incidentalità rappresenta pertanto una vera alternativa all'apprendimento strutturato e programmato, costituendo un'autentica risposta a quella curiosità, a quella ricerca spontanea, a quel naturale e istintivo bisogno di apprendere, che sono alla base di una profonda e coerente educazione libertaria.

Francesco Codello


Fonti orali/
Gli atti di un convegno sulla militanza anarchica

Mentre assistevo al convegno su La militanza anarchica e libertaria in Italia nel secondo Novecento. Le fonti orali: questioni metodologiche promosso dall'Archivio Berneri-Chessa e dalla Biblioteca Panizzi nel novembre 2016 a Reggio Emilia, non riuscivo a non riflettere preoccupato sulla mia memoria da pesce rosso. Per fortuna, mi consolavo, dubito che qualcuno in futuro mi verrà a intervistare, ritenendomi una fonte orale in qualche modo significativa. Rileggendo gli atti pubblicati nel volume Parlare d'anarchia. Le fonti orali per lo studio della militanza libertaria in Italia nel secondo Novecento (a cura di Enrico Acciai, Luigi Balsamini e Carlo De Maria, Biblion edizioni, Milano 2017, pp. 219, € 22,00), mi sono reso conto che le cose non sono affatto così semplici e che dietro alle fonti orali c'è qualcosa di ben più 'ciccioso' rispetto alle mie preoccupazioni circa un troppo vigoroso sfrondamento celebrale.
Mi spiego. Solitamente (e semplificando un lavoro ben più complesso) chi si occupa di storia del movimento anarchico sceglie in primo luogo l'argomento che vuole trattare (i motivi dietro a tale scelta rappresentano un'altra questione che lascerei da parte), legge ciò che è stato scritto sul tema, si immerge nel reperimento e nella consultazione delle fonti, che generalmente sono scritte: si annaspa quindi tra rapporti di polizia, si naviga nella pubblicistica, si perde la bussola tra volantini, manifesti, relazioni, bozze e comunicati. I più temerari affrontano anche i carteggi con il proposito di andare a vedere, per esempio, cosa sta dietro a particolari riflessioni oppure le ricadute sulla vita personale di determinate scelte. In questo percorso difficile, ricco di domande esistenziali e di insulti verso il mondo (parlo per me), i luoghi della ricerca non sono solo gli archivi per così dire istituzionali e le biblioteche, ma anche i centri di studio e di documentazione legati oppure più o meno affini al movimento anarchico, sulla cui realtà si può dare uno sguardo attraverso l'ottimo libro Fragili carte di Luigi Balsamini.
Questo 'schema', questo modo di procedere generale può però avere, nel caso del Novecento e soprattutto della seconda metà del secolo, un ulteriore innesto: le fonti orali, cioè le interviste, le testimonianze e i racconti di chi ha vissuto, di chi è stato in qualche modo protagonista di quello che il ricercatore vuole studiare. A differenza delle fonti scritte, quelle orali sono costruite a posteriori, con il contributo determinante e non imparziale del ricercatore stesso. Le fonti orali devono inoltre fare i conti con i filtri soggettivi e con i meccanismi di rimozione e di distorsione tipici della memoria, con le inevitabili 'aggiunte' e abbellimenti a posteriori. «La memoria», si legge in Parlare d'anarchia, esercita «un'azione di rielaborazione continua operando dei meccanismi di costruzione che intrecciano il passato con il presente: sul ricordo incidono non solo gli eventi e come sono stati vissuti nell'attimo stesso in cui sono accaduti, ma anche tutta la storia successiva della persona, che in base alle proprie esperienze quei ricordi rielabora, anche inconsciamente, finendo per riscrivere continuamente la propria memoria» (p. 189). In parole povere, questa tipologia di fonte pone dei problemi metodologici essenziali. Ciononostante, le fonti orali rappresentano un patrimonio significativo per lo studioso delle vicende del movimento anarchico e libertario, specie per la fase storica presa in considerazione dal volume in questione. Il periodo di tempo tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento rappresentano infatti, scrivono i curatori nella loro nota iniziale, uno snodo fondamentale che «ha segnato una profonda trasformazione del movimento anarchico – sempre che di movimento, al singolare, possa essere lecito parlare – sia per quanto riguarda le sue teorie di liberazione sociale, sia per la sua pratica militante, sia per il modo di concepire se stesso dentro, contro e fuori la dialettica politica contemporanea» (p. 9).
La prima parte del volume ricostruisce pertanto il contesto e le coordinate storiografiche su cui si inserisce la seconda sezione, dedicata invece alle questioni più prettamente metodologiche relative alle fonti orali. Esaminando la «storia di storie» (p. 13) dell'anarchismo italiano, Antonio Senta individua i tre piani sui quali si muove (sociale, politico ed etico) e li interseca con una periodizzazione che trova il suo spartiacque nel biennio '68-'69, specialmente in Piazza Fontana e nelle sue conseguenze. Dopo questa panoramica, Elena Bignami si concentra sulla militanza femminile anarchica, un tema che mostra già il suo potenziale «perché va a integrare non solo la realtà del movimento anarchico del secondo dopoguerra, che resta un capitolo ancora molto sfuggente, incompleto oltre che decisamente controverso, ma soprattutto la storia delle donne e del femminismo, che in Italia è deficitaria di qualsiasi riferimento alla cultura anarchica» (p. 48). Segue l'intervento di Emanuela Minuto e di Alessandro Breccia sulle attività in campo educativo di una «minoranza libertaria», il gruppo Milano 1, ricostruite attraverso «narrazioni 'in soggettiva'» che si rivelano spesso come «biografie collettive» (pp. 64-65). Questa prima sezione si chiude con il saggio di Pasquale Iuso, il quale insiste sulla necessità di inserire il movimento anarchico e libertario del secondo dopoguerra nei «molteplici fenomeni che attraversano l'Italia repubblicana» (p. 81).
La seconda parte si apre con un utile intervento di Luigi Balsamini dedicato a una prima ricognizione di ciò che già c'è (e di dove si trova) in tema di fonti orali. Se Piero Brunello delinea bene il rapporto nonni-nipoti, con tutte le sue sfaccettature e conseguenze, che sembra caratterizzare il movimento anarchico della seconda metà del secolo scorso, Alessandro Casellato presenta l'insieme delle problematicità ruotanti intorno a una testimonianza orale prendendo come caso di studio un'intervista nata... da un libro di ricette! Può sembrare uno scherzo, ma il saggio è davvero stimolante. Segue l'intervento di Giovanni Contini sulla memoria di Pietro Gori presso gli abitanti dell'Isola d'Elba (ho riso al convegno e sono tornato a ridere leggendo il suo contributo). A questo proposito, Contini precisa che talvolta gli aneddoti sono «più utili a capire chi racconta (chi raccontava) che a comprendere gli eventi e le persone ricordate» (p. 160). Infine, questa seconda sezione si chiude con il contributo di Marco Masulli, il quale restituisce attraverso la biografia di Placido La Torre uno spaccato dell'anarchismo siciliano. Parlare d'anarchia si conclude con la trascrizione riveduta dell'intervista a Gianni Carrozza, Paolo Finzi, Claudia e Silvia Pinelli, una fonte orale presa in diretta al convegno (la registrazione originale è custodita dall'Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa di Reggio Emilia).
Per ragioni indipendenti dalla volontà dei curatori del volume, manca purtroppo l'interessante intervento di Lorenzo Pezzica. Cosa diceva di preciso? Non me lo ricordo ovviamente, però potrei raccontare del perché ero a quel convegno e del percorso umano e politico che mi ci ha portato ecc. ecc. (anche se, come accennavo all'inizio, non credo che a qualcuno interessi). Questo per dire, un po' scherzando ma la faccenda va presa sul serio, che le fonti orali presentano sfide e potenzialità da non sottovalutare per la ricerca storica che possono portare lontano, al di là di facili battute sulla memoria, illuminando questioni inaspettate. Fanno perciò bene i curatori del volume a lanciare un appello «per la registrazione di testimonianze orali sulla militanza anarchica e libertaria del secondo Novecento» (p. 10).

David Bernardini


Giordana Garavini e Misato Toda

Due belle figure di anarchiche ci hanno lasciato in questi ultimi tempi: Giordana Garavini e Misato Toda.
Le ricorderemo con due specifici “dossier”, curati rispettivamente da Gianpiero Landi (che riferirà anche
di altri familiari di Giordana, a partire dai genitori Emma Neri e Nello Garavini) e da Paolo Finzi.