dibattito femminismo
La sfida intersezionale
di Elena Tognoni
“La sfida intersezionale dei femminismi tra umani, animali e natura” è il titolo originario di questo scritto. Una riflessione sull'evoluzione dei pensieri femministi a contatto con le problematiche poste da approcci ecologici e vegani. Un dibattito aperto.
“Noi non possiamo addurre come scusa
l'ignoranza, ma solo l'indifferenza. La nostra generazione sa
come stanno le cose. Siamo noi quelli a cui chiederanno a buon
diritto: tu che cos'hai fatto quando hai saputo la verità
sugli animali che mangiavi?”
Jonathan Safran Foer
Quando mio fratello (già sul finire del 2015) ha deciso
di diventare vegano, sono rimasta sorpresa - e sconvolta - dalla
sua scelta: fino ad allora non avevamo mai parlato di animali
e di alimentazione, per entrambi gli animali erano cibo
e non ci eravamo mai interrogati sull'origine di questo legame...
Sarò per sempre grata a mio fratello per questo “scossone”
della coscienza.
Da quando ho iniziato ad interrogarmi, come sempre accade per
le grandi domande, la ricerca non si è sostanzialmente
mai esaurita: più ci si interroga, più le questioni
diventano grandi, coinvolgono altri ambiti, toccano e si intersecano
con diversi temi. Più leggevo, studiavo, mi documentavo,
più mi rendevo conto di quanto tutto quello che stavo
scoprendo fosse ingiusto, di quanto il nostro modo di vivere
presupponesse un privilegio invisibile e intoccabile, quello
umano.
Mi sono sempre considerata una femminista: mi sono occupata
di storia delle donne, della storia dei nostri diritti, prima
negati, ancora oggi minacciati; credevo di essere una persona
consapevole, consapevole del mio ruolo nel mondo, della mia
storia come giovane donna bianca, occidentale, consapevole del
privilegio che porto con me, nei miei geni. Eppure, quando ho
scoperto quale sia l'impatto delle mie scelte alimentari sulle
donne del Sud del mondo e sulle femmine delle altre specie,
i cui corpi riproduttivi, come il mio, sono violentati, annichiliti,
sfruttati, e poi uccisi, ho dovuto rimettere tutto in discussione.
Il
femminismo, inteso come metodo di lettura della realtà,
è un discorso critico che tende a rivolgere domande scomode
su tutte le forme di oppressione e che mette in discussione
le strutture sociali, storiche, culturali delle dinamiche di
dominio. In alcuni paesi occidentali, l'oppressione e la discriminazione
nei confronti delle donne sono oggi meno evidenti e meno immediati
di 50 o 60 anni fa: le donne hanno accesso al voto, le donne
possono lavorare, le donne hanno praticamente accesso a tutti
i tipi di professione e hanno garantiti tutti i cosiddetti “diritti
umani”. A prima vista potrebbe sembrare che non sia più
necessario un movimento femminista, e questo è esattamente
ciò che il sistema vuole che crediamo: che il femminismo
sia qualcosa del passato.
Ma se andiamo più in profondità e ampliamo la
nostra prospettiva, le sfide sono oggi più grandi che
mai, e le parole chiave sono tutte intorno a espressioni come
“oppressioni interconnesse” e “riconoscimento
dei privilegi”.
Dobbiamo ringraziare le riflessioni del femminismo Black per
la consapevolezza di come i diversi livelli di oppressione e
discriminazione debbano essere riconosciuti per essere adeguatamente
combattuti: il femminismo nero è stato il primo ad aver
parlato appunto di intersezionalità volendo sottolineare
come sessismo e razzismo non siano due fenomeni diversi, divisi,
separati, ma come invece non solo si intersechino nella vita
delle donne nere, ma anche e soprattutto come provengano da
un'origine comune. Il mancato riconoscimento di questa radice
è il vero mezzo attraverso cui le discriminazioni si
mantengono e rinforzano.
Per avere femminismi veramente inclusivi e intersezionali, dobbiamo
tornare all'inizio: il femminismo si è affermato come
“la nozione radicale che anche le donne sono esseri umani”.
Il problema è che quella stessa nozione di “umanesimo”,
di “ciò che definisce l'umano” non è
mai stata messa in discussione. Le femministe hanno dato per
scontata la correttezza della nozione occidentale di “umano”.
Non è sufficiente ridefinire le donne dall'essere meno
che umani ad esseri umani. Quello che dobbiamo fare è
mettere in discussione la nozione stessa di ciò che si
definisce umano e, andando ancora oltre, mettere in discussione
la nozione di essere umano come l'elemento in cima a tutte le
gerarchie. I femminismi della terza ondata hanno riconosciuto
che i problemi con le società umane (e specialmente quelle
occidentali) si fondano su concetti binari che creano dinamiche
di gerarchia e privilegio come maschio/femmina, bianco/nero,
cultura/natura, ecc.
L'archetipo delle oppressioni: il privilegio umano
Ho iniziato questo articolo dicendo che il femminismo è
qualcosa che riguarda le oppressioni, in tutte le sue possibili
forme. C'è una sola scuola di pensiero femminista che
sin dall'inizio ha sfidato la nozione di umano, e che ha approfondito
e allargato le lotte delle femministe creando una visione inclusiva
di tutte le oppressioni e di tutti gli esseri viventi oppressi:
questa scuola di pensiero si definisce “EcoFemminismo”,
o meglio ecofemminismi, al plurale, in quanto le teorie ecofemministe
si articolano in varie formulazioni e sono da considerarsi parte
sia dell'ecologismo, che del femminismo (o meglio degli ecologismi
e dei femminismi).
Gli ecofemminismi sfidano direttamente il “concetto binario”
e portano il concetto di “intersezionalità”
(per il quale - voglio ribadire - dobbiamo ringraziare le femministe
nere e la loro profonda analisi delle strutture di oppressione
e discriminazione) ad un nuovo livello: non solo le categorie
di sesso, razza, classe, ma finalmente anche la categoria di
umano/non umano, che è poi la categoria delle “specie”,
viene aggiunta all'analisi teorica.
Per citare le parole della più famosa ecofemminista del
movimento, Carol J. Adams: “L'uguaglianza non è
un'idea; è una pratica. La pratichiamo quando non trattiamo
altre persone o altri animali come oggetti”.1
Le femministe avevano (e hanno tuttora) il grande merito di
aver problematizzato, discusso e svelato molti privilegi. Gli
ecofemminismi sfidano l'archetipo di tutte le oppressioni: il
privilegio umano. Ciò è particolarmente interessante
in quanto, in diversi momenti della storia, gli uomini hanno
usato la categoria di “animale” per molti esseri
diversi, compresi gli esseri “umani” (come tutti
sappiamo, comprese le donne e i neri) sottolineando ancora una
volta come le categorie oppressive non siano soltanto dannose
in sé, ma per il modo in cui possono essere utilizzate
e interpretate. Tutti quelli che, di volta in volta, sono stati
identificati come “animali” sono stati oppressi,
discriminati e uccisi. Ecco perché è il concetto
stesso di “animalità” ad essere problematico.
La
prospettiva è rivoluzionaria perché richiede alle
femministe di interessarsi non solo agli esseri della specie
umana, ma di allargare la riflessione a tutti gli esseri viventi,
compresi quelli di altre specie. C'è un solo e potente
esempio che mi ha colpito da quando l'ho scoperto la prima volta
(e posso sicuramente dire che scoprirlo ha cambiato la mia vita
di donna, come attivista e femminista): come posso considerarmi
una femminista, lottando per porre fine all'oppressione e alla
discriminazione, se non mi interessa (e peggio, se prendo parte)
al sistema che manipola, abusa e sfrutta i corpi riproduttivi
di animali come le mucche, che vengono ingravidate solo perchè
così noi - umani - possiamo ottenere il latte che vogliamo
sui nostri tavoli e nel nostro cibo? Sono profondamente convinta
che i diritti riproduttivi e i corpi riproduttivi delle femmine
di non-umani sfruttati per il privilegio degli esseri umani
siano particolarmente problematici da una prospettiva femminista,
una prospettiva che si è giustamente occupata della libertà
dei corpi femminili di essere scollegati dal loro potenziale
riproduttivo.
Angela Davis, probabilmente una delle più grandi femministe,
teoriche e attiviste nere di tutti i tempi, ha recentemente
rilasciato un'intervista in cui usa le seguenti parole: “Com'è
sedersi a tavola e mangiare quel cibo che viene generato solo
per lo scopo del profitto e che creano tanta sofferenza?”2
È così che si entra in un campo ecofemminista
ancora più specifico, cioè l'eco-femminismo vegano:
la mia lotta femminista per porre fine alle oppressioni include
la scelta di smettere di nuocere e uccidere gli animali, la
scelta di smettere di vedere gli animali come cibo, e iniziare
a riconoscer loro il diritto alla vita e di esseri senzienti.
Suffragette e vegetariane
Potremmo pensare che si tratta di una corrente femminista molto nuova, ed è anche quello che ho pensato quando ho incontrato per la prima volta il lavoro di alcune ecofemministe, come Carol J. Adams (probabilmente la più famosa), Marti Kheel, Greta Gaard, o il lavoro rivoluzionario di Amie Breeze Harper, precursora nel campo dell'ecofemminismo nero con il suo lavoro pionieristico “Sistah Vegan”. Ma quando ho terminato la mia tesi specialistica in Storia, che ho deciso di scrivere proprio su questo movimento femminista, la vera sorpresa è emersa: gli intrecci tra il movimento femminista e la liberazione animale hanno radici molto profonde e antiche, che provengono direttamente dalle origini di entrambi i movimenti, e risalgono alla seconda metà del 1800, all'interno del movimento Suffragista del Regno Unito.
È così che ho scoperto come le suffragette combattevano sia per il loro diritto al voto, sia per porre fine alla vivisezione. Molte di loro erano vegetariane, organizzavano cene vegetariane per raccogliere fondi per le loro campagne e per i loro incontri si davano appuntamento nei primissimi ristoranti vegetariani di Londra. Ciò che è interessante notare è che ciò che queste donne hanno realizzato: e cioè che la loro situazione di donne aveva molto in comune con la situazione in cui vivevano gli animali:
“Vedere questa pecora sembrava rivelarmi per la prima volta la posizione delle donne in tutto il mondo. Mi sono resa conto di quanto spesso le donne siano disprezzate come esseri al di fuori della dignità umana, escluse o confinate, derise e insultate a causa di condizioni di cui non sono responsabili, ma che sono dovute a ingiustizie fondamentali nei loro confronti, e agli errori di una civiltà che non hanno potuto contribuire a formare”.3
E l'ambiente?
Proprio come danneggiare gli animali è una questione femminista, anche danneggiare l'ambiente è una questione femminista. Peccato che, spesso, la preoccupazione per l'ambiente non sia direttamente collegata al consumo di carne: sono dati ormai noti. L'allevamento animale è responsabile del 20% delle emissioni di gas serra, più delle emissioni combinate di tutti i settori del trasporto. L'allevamento animale è responsabile per l'80-90% del consumo di acqua negli Stati Uniti. Sono necessari 2.500 litri d'acqua per produrre 1 chilo di carne di manzo. L'allevamento animale è responsabile per il 20%-33% di tutto il consumo di acqua nel mondo.4 E, per finire: un terzo delle risorse idriche mondiali viene utilizzato per l'allevamento, e il 70% della produzione globale di cereali finisce nelle mangiatoie degli animali da macello, sottraendo cibo e risorse alle popolazioni umane povere: attualmente stiamo coltivando abbastanza cibo per nutrire 10 miliardi di persone.
Uccidendo gli animali stiamo danneggiando e uccidendo il pianeta.
Il femminismo non dovrebbe avere paura di dire la verità:
scoprire e sfidare ciò che è considerato “normale”
è sempre stata la missione femminista.
Allargare gli orizzonti
L'eco-veg-femminismo porta le prove di come diverse forme di sfruttamento e oppressione siano interconnesse. Non possiamo porre fine a una forma di oppressione o un'altra; non possiamo scegliere di prenderci cura di una sola forma di oppressione (Donne? Animali? Ambiente?): dobbiamo renderci conto che, identificando le radici del sistema oppressivo, tutte le oppressioni saranno affrontate.
“Tutte le disuguaglianze sociali sono collegate. Un completo cambiamento sistemico avverrà solo se saremo consapevoli di queste connessioni e lavoreremo per porre fine a tutte le disuguaglianze - non solo le nostre preferite o quelle che influenzano più direttamente la nostra parte dell'universo. Nessuno è in disparte; con le nostre azioni, o inazioni, con la nostra cura o indifferenza, siamo o parte del problema o parte della soluzione.”5
Questa è oggi la più grande sfida per il femminismo: riscoprire una prospettiva più ampia e inclusiva all'oppressione e alla violenza, che includa finalmente esseri viventi di tutte le specie e riconnetta gli umani, i non umani e la natura in un mondo pacifico e gentile per tutti.
Mi rendo conto di quanto il tema sia scottante: nonostante l'origine patriarcale e maschile delle strutture sociali in cui siamo tutti e tutte incastrati, quando si volge lo sguardo allo sfruttamento animale, è anche il genere femminile ad essere messo “sotto accusa”, in quanto portatore di quel privilegio dell'umano rispetto al non-umano, la base della dinamica specista e antropocentrica. Mi auguro che il movimento femminista, anche e soprattutto quello italiano, abbia il coraggio di allargare i propri orizzonti e di mettere in discussione il proprio privilegio.
Elena Tognoni
- Adams Carol J., The Sexual Politics Of Meat, Continuum, New York 1991
- “Vegan Angela Davis Connects Human and Animal Liberation”
su www.counterpunch.org
- Leah Leneman, The awakened instict: vegetarianism and the women's suffrage movement in Britain in “Women's History Review”, p. 279
- Gerbens-Leenes, P.W. et al. The water footprint of poultry, pork and beef: A comparitive study in different countries and production systems. “Water Resources and Industry. Vol. 1-2”, March-June 2013, Pages 25-36
- Michelle R. Loyd-Paige, una delle ecofemministe incluse nel libro Sistah Vegan.
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