Stereotipi culturali e forme della comunicazione
1.
Ogni tentativo di passaggio dal particolare all'universale – ogni generalizzazione – comporta rischi. Innanzitutto di ordine etico. Se a partire da quel pomodoro che è rosso, dico che tutti i pomidoro sono rossi mi assumo una responsabilità il cui peso potrebbe schiacciarmi da un momento all'altro, perché sarà sufficiente entrare in un qualsiasi supermercato per trovarne anche di gialli. Ma finché si tratta di pomidoro – e di fissare paradigmi facilmente contraddicibili concernenti entità cui non assegniamo dignità e autonomia biologica – alle implicazioni etiche – e politiche – non pensiamo. Quando si tratta di persone, invece, abbiamo imparato a stare più attenti. Forse. I miei dubbi nei confronti di qualsiasi generalizzazione, comunque, rimangono.
2.
Rileggendo per l'ennesima volta Il romanzo del cavallo
di Nereo Lugli mi sono imbattuto per l'ennesima volta in un'asserzione
che avrebbe pur potuto filar via liscia, stante la sua storica
ovvietà. Ricostruendo la storia delle scommesse sulle
corse dei cavalli, Lugli dice che “nulla è più
inglese che scommettere”; che scommettere farebbe parte
del “genio britannico” e sarebbe “l'espressione
più naturale e conveniente del proprio talento, la manifestazione
quasi doverosa del proprio puntiglio e della propria convinzione”.
Cose note, ormai proverbiali. Ma che si tratti di affermazioni
fondate – sensate – resta tutto da vedere. Innanzitutto:
che cosa s'intende esattamente per “genio” di una
nazione? E cosa fa sì che il puntiglio e la convinzione
– caratteristiche attribuibili ad una persona ben individuata
– possano essere estesi – come caratteristiche –
a tutto un popolo? E perché queste caratteristiche indurrebbero
ad un'esigenza socialmente diffusa come lo scommettere? In questo
stesso momento in cui scrivo, puntiglioso e convinto lo sono
anch'io – e pure non scommetto affatto. E non solo: conosco
un'inglese che, a quanto mi disse, non ha mai fatto una scommessa
in vita sua.
Per quanto rovisti nella storia della Gran Bretagna –
una storia di bassa macelleria e di rapine a mano armata non
molto dissimile dalla storia della maggior parte dei Paesi di
questo pianeta – non riesco a trovare qualcosa che giustifichi
una maggior propensione alla scommessa rispetto ad altri.
Che alle nazioni sia attribuibile un “genio”, poi,
è tutto da vedere. Con il termine “genio”
si intende una virtù non acquisita, un'attitudine innata
– perlopiù magnificamente espressa nelle arti e
nelle scienze. In latino “genius” derivava da un
verbo che significava “generare”, e costituiva l'attributo
di un semidio o di qualcuno che poteva vantare una forza divina.
Negli anni, finì con l'ibridarsi con l'“ingenium”
– anche questo considerato come facoltà inventiva
innata, una disposizione dell'animo. Ma sia che si tratti di
generare persone e sia che si tratti di generare idee, questo “genio”, come soggetto, resta piuttosto misterioso,
più passepartout per un discrimine sociale che entità
scientificamente accertata. Residuo scomodo di romanticismo,
peraltro, questo concetto – dopo i tanti suoi successi
ottocenteschi – è stato dismesso non a caso dagli
apparati analitici degli antropologi. I fattori che hanno portato
alla storica constatazione che gli inglesi sono in gran parte
affetti da scommessite acuta possono essere molteplici –
si pensi anche alla minor invadenza della morale cattolica o
al discutibile merito di aver avviato, tra i primi, all'industrializzazione
capitalistica –, ma attribuir loro facoltà particolari
– specifiche, o addirittura uniche – mi sembrerebbe
scorretto. Ogni generalizzazione – già in quanto
meccanismo mentale – implica un tentativo di cavarsela
alla svelta, accontentandosi del superficiale – e, quando
si tratta di comunità, anche a costo di apparire razzisti.
3.
Ancora nel 1959, in Francia, si stampava una “Revue de
Psychologie des Peuples” – e immagino che, in qualche
anfratto nostalgico, riviste del genere possano sopravvivere
anche ai nostri giorni. In un fascicolo di questa rivista, tempo
fa, avevo pescato un articolo che, a proposito di generalizzazioni
relative a “geni nazionali”, mi suggerisce un'analogia
che ritengo significativa. In caccia di rapporti tra struttura
di una lingua e caratteri nazionali, il linguista estone Andrus
Saareste (1892-1964) spiega che, nella sua lingua, esistono
più formule di saluto che in qualsiasi altra lingua.
A quanto pare ne hanno addirittura un centinaio. Significa forse
che il popolo estone è “più cortese e più
sociale” degli altri popoli? Sarebbe come concludere che,
dal momento che in Inghilterra si può scommettere su
più cose rispetto a quelle che vengono elette a oggetto
di legittima scommessa dalle istituzioni degli altri Paesi,
gli inglesi sarebbero più malati di scommessite acuta
degli altri. Ovviamente, Saareste nega che gli estoni siano
più cortesi e più sociali degli altri ed a me
viene fin il sospetto che l'argomento possa essere usato in
senso contrario: non sarà che, proprio per la quantità
di distinzioni escogitate nel formulare un saluto, il popolo
estone possa esser considerato più diffidente di altri?
4.
Insospettabile di impliciti razzisti – parlando dei processi
di comunicazione “nel rispetto delle differenze culturali”
e parlando di “Cultural Intelligence nel calcio”,
ovvero della capacità di interagire con persone di culture
differenti –, in un libro diventato di stretta necessità,
Guglielmo De Feis riconduce le differenze con cui siamo tutti
chiamati a confrontarci – oggi più di ieri, domani
più di oggi – a “insiemi culturali”.
Ne individua una decina di questi “insiemi” –
mappando geograficamente, politicamente e religiosamente: angloamericano,
nordico, germanico, est-europeo, latino europeo, latino americano,
confuciano, sud asiatico, africano e arabo – e, storia
e antropologia alla mano, prova a disegnarne una genealogia
sufficiente a giustificare la diversità delle forme di
comunicazione che caratterizza i parlanti. Suo scopo è
diffondere la consapevolezza di queste forme affinché
s'instauri quel principio di tolleranza senza il quale risulteremmo
del tutto incapaci di comunicare con gli altri mettendoli a
proprio agio e non vessandoli dall'alto di una presunta supremazia
culturale e, per ottenerlo, va da sé che si debba rinunciare
agli stereotipi con i quali abbiamo convissuto fino ad ora e
nei quali abbiamo incarcerato tutti coloro che abbiamo considerato
diversi da noi. Che questo scopo sia raggiunto tramite la costituzione
di altri stereotipi – come di fatto sono gli “insiemi
culturali” – può lasciarci qualche margine
di preoccupazione, ma se le differenze vanno considerate –
e vanno considerate – occorre prima saperle individuare
– valorizzandole come risorse collettive e, magari, nella
consapevolezza che ogni strumento analitico, prima o poi, è
destinato ad essere sostituito. Le ragioni dell'economia e l'economia
della ragione ci portano a generalizzare, ma la consapevolezza
politica ci dice anche che ciascuno di noi è unico: è
un paradosso che accompagna la vita sociale dell'umanità
– presumibilmente, verso il disastro; più o meno
rapidamente a seconda di quanto sappiamo conviverci.
Felice Accame
Nota
Il romanzo del cavallo di Nereo Lugli fu pubblicato
da Vallecchi, a Firenze nel 1966. La “Revue de Psychologie
des Peuples” è stata pubblicata dal 1946 al 1970,
ma il periodo d'oro della “psicologia dei popoli”
coincise con l'opera di Wilhelm Wundt (1832-1920). Il fascicolo
che contiene il saggio di Saareste, Quelques remarques
sur le rapport entre la structure d'une langue, particulièrment
de son vocabulaire, et le caractère de la Nation,
è il n. 2, del XIV anno, pubblicato nel 1959. La
Cultural Intelligence nel calcio – La comunicazione nel
rispetto delle differenze culturali di Guglielmo De
Feis è stato pubblicato da Odradek, a Roma nel 2018.
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