migrazioni
“Nel deserto non ci sono macchine fotografiche”
intervista di Giorgio Fontana a Emmanuel Mbolela
Dal Congo all'Europa, attraversando il deserto e poi il Mediterraneo. Tra violenze e soprusi. Emmanuel Mbolela racconta la sua storia e fa un'analisi della situazione sociale e politica del continente africano.
Emmanuel Mbolela è uno
scrittore e attivista congolese, che dopo molti anni di stazionamento
forzato in Marocco è riuscito a ottenere uno status di
rifugiato in Europa. Il libro che racconta la sua avventura
– intitolato appunto Rifugiato (Agenzia X 2018)
– va ben oltre la testimonianza, per quanto tragica, e
getta una luce interessante sulle lotte autogestite dei migranti:
è un testo combattente ma al contempo intriso di grande
sensibilità umana.
Oggi
Mbolela è impegnato nell'associazione Afrique-Europe-Interact,
una rete che si propone di combattere il land grabbing
delle multinazionali in Africa difendendo lo sviluppo locale
e sostenibile – il “diritto a restare” in
condizioni dignitose, parallelo e coincidente al diritto di
muoversi liberamente nel mondo.
Grazie a Marco Philopat ho avuto la fortuna di intervistare
Mbolela durante il suo tour di presentazioni in Italia, nel
settembre 2018: qui di seguito la nostra chiacchierata.
Giorgio – Partirei dall'inizio, cioè
dall'introduzione storica che precede il resoconto del viaggio
dal Congo all'Europa.
Emmanuel – Per gli europei la storia dell'Africa
comincia con la colonizzazione: generalmente si ignora la storia
delle culture e delle civilizzazioni che l'hanno preceduta.
Anche per questo ho voluto scrivere un testo introduttivo dove
non solo rivendico il passato del Congo, ma anche la tragicità
dell'impresa coloniale.
Non a caso il tratto originale del libro è
la sua anima politica. La storia dei suoi anni di viaggio è
inserita in un'ottica di analisi che interroga la situazione
africana in modo radicale. Mi sembra più un saggio che
un testo autobiografico, o un ibrido fra i due.
È così. Prendendo la strada per l'Europa io e
i miei compagni abbiamo subito numerose atrocità. Ma
quando ho pensato di scrivere un libro al riguardo, mi sono
detto: se racconto solo i dettagli delle violenze subite durante
il viaggio – o anche in precedenza nel mio Paese –
a cosa serve? Non potevo fermarmi lì, dovevo illustrarne
anche le cause. Usando un lessico ormai comune, posso dire che
ci siamo tutti mossi per “ragioni economiche”. Ed
è vero, più o meno. Ma dove trovano origine queste
“ragioni”? In Europa c'è una visione stereotipata
dell'Africa povera e derelitta: invece il mio continente è
di per sé molto ricco. In quasi tutti i Paesi africani
ci sono risorse straordinarie: sia naturali – penso solo
alle miniere, alle materie prime – sia umane. La giovinezza,
ad esempio. Eppure la gente fugge.
Nel suo caso, il tema politico precede anche il viaggio.
La Repubblica democratica del Congo, da dove proviene, è
uno dei dieci paesi più poveri al mondo: ma la povertà
in cui versa ha ragioni strettamente legate allo sfruttamento
coloniale e al tradimento delle speranze post-indipendenza.
La sua storia di attivista comincia già in patria, durante
il tentativo di portare pace nel Paese all'inizio del Duemila.
Qui è bene fare un passo indietro. Il Congo è
sempre stata una nazione ricca di beni strategici, il caucciù
prima di tutto. Re Leopoldo del Belgio, che lo considerava una
sorta di proprietà privata, mise in piedi una mostruosa
catena di sfruttamento per la raccolta e la vendita del caucciù,
indispensabile per la produzione di pneumatici. Ogni raccoglitore
doveva accumulare un tot di materiale di qualità: altrimenti,
la punizione era il taglio della mano.
Quando le atrocità vennero allo scoperto, nel 1908, il
Belgio trasformò il Congo in una colonia “ufficiale”:
nominalmente per fermare quelle stragi, ma garantendosi comunque
lo sfruttamento di altri beni strategici. Così i belgi
cominciarono ad assumere congolesi e altri africani per farli
lavorare nelle miniere: ma in condizioni inumane. Lentamente
aumentarono le proteste proteste, lotte e rivendicazioni.
Fino a Lumumba.
Sì, nel 1960 Patrice Lumumba proclamò l'indipendenza
parlando innanzitutto di cambiamenti economici. Ma durò
molto poco. Come tutti sanno fu assassinato con la complicità
degli americani un anno dopo, e al suo posto salì al
potere un uomo che garantisse ancora lo sfruttamento delle risorse
da parte belga: Mobutu. Trentadue anni di dittatura, trentadue
anni di sofferenza, trentadue anni di abuso delle ricchezze
congolesi.
Nel 1996 il generale Laurent-Désire Kabila riuscì
a porvi fine, ma di lì a poco cominciò una guerra
sanguinosa, terrificante, di cui in Europa non si parla mai.
Milioni di morti. Nel 2001 Kabila fu ucciso e al suo posto venne
piazzato il figlio, giusto per assicurare lo status quo internazionale.
La crisi sembrava interminabile, così l'opposizione politica
fece di tutto per portare il Paese alla pace: un grosso sforzo
collettivo portò al Dialogo Inter-Congolese del 2002,
tenuto in Sudafrica, cui partecipai io stesso come racconto
nel libro. Ma nonostante i proclami, fu una sconfitta. Mentre
noi discutevamo, le lobby al potere garantivano che Kabila restasse
al suo posto – e così fu.
Una delusione terribile.
Sì, per me è stata una grande delusione. Io e
tanti altri avevamo investito parecchie energie in quel Dialogo.
Constatandone il fallimento, ho deciso di partire.
Torniamo allora al suo viaggio. Un'altra cosa che
sfugge spesso al discorso comune in Europa è il tempo
necessario per attraversare l'Africa e la quantità di
ostacoli che questo comporta.
Sì, molti non hanno un'autentica percezione di cosa sia
una rotta migratoria. Ad esempio, ora siamo in Italia: il Mediterraneo
è la porta dell'Africa, e tutti sanno cosa succede in
quelle acque perché ci sono dei giornalisti che lo documentano
e lo fotografano. Ma nel deserto non ci sono macchine fotografiche
e non ci sono giornalisti; e quanto accade lì è
anche peggio.
Dove ha trovato le maggiori difficoltà?
In Africa del nord, senz'altro. Nei paesi dell'Africa nera potevo
nascondermi e mescolarmi alla popolazione locale: era difficile
distinguermi da un maliano o da un burkinabé. Dopo aver
passato il deserto – subendo ogni sorta di violenza, di
furti e altre atrocità che racconto nel libro –
arrivai in Algeria pensando che il mio calvario fosse ormai
finito. E invece doveva ancora iniziare: il razzismo nei confronti
di noi neri era molto forte, il che mi amareggiava ulteriormente
perché le lotte algerine furono fondamentali per la liberazione
del continente africano. Inoltre, senza documenti non potevo
affittare un appartamento.
A tal proposito. Leggendo Rifugiato
ho avuto la conferma di una sensazione terribile: la riduzione
dell'essere umano non solo al possesso di documenti, ma innanzitutto
alla sua possibilità di pagare. Pagare per attraversare
una frontiera, per corrompere la polizia, eccetera. Sembra un
effetto deforme e terminale del capitalismo.
Esatto. Tutto è danaro. L'uomo in sé non ha più
alcuna importanza. Immagini le condizioni in cui arrivavamo
a una frontiera, dopo giorni nel deserto senza cibo e senz'acqua:
eppure la sola cosa che contava per chi ci fermava erano i soldi.
O qualsiasi altra forma di pagamento.
Ad esempio le donne, oggetto di violenza continua
e strutturale. Trovo che nel suo libro la questione femminile
sia assolutamente centrale.
Già a partire dal Mali vedevamo i guidatori dei camion
litigare per avere questa o quella ragazza. All'inizio non capivo,
poi ho compreso che le donne sono considerate una moneta di
scambio per attraversare le varie frontiere. È stato
orribile. Noi uomini siamo stati picchiati e derubati, ma le
donne subivano continuamente una doppia violenza: erano stuprate,
erano davvero ridotte a oggetti. E in Algeria la polizia si
comportava allo stesso modo: cacciava noi uomini e tratteneva
le donne per violentarle. Per non parlare degli uomini della
loro stessa comunità o nazionalità, che le maltrattavano
o le sfruttavano. È una cosa che mi ha profondamente
atterrito, e che peraltro continua tuttora. Un mese fa ero di
nuovo in Marocco e ho visto diverse ragazze incinte. Ho saputo
che venivano ingannate dicendo loro che una gravidanza garantiva
più possibilità di essere soccorse e ottenere
documenti: ma dopo essere state violentate venivano abbandonate.
Veniamo dunque al Marocco: è là che,
fra mille difficoltà, vi riappropriate del vostro ruolo
politico attraverso una lotta comune. Come scrivete nel libro:
“O reagiamo, o finiremo consumati”.
In Marocco era possibile trovare degli appartamenti in affitto,
anche se al doppio del prezzo normale per un marocchino. La
polizia conosceva le nostre abitazioni e organizzava spesso
dei raid alle tre o alle quattro del mattino: arrivavano, ci
arrestavano, ci pestavano e provavano a rispedirci nel deserto.
A un certo punto mi sono detto: per quanto tempo dobbiamo restare
in una situazione simile? O reagiamo, o finiremo consumati.
Dunque ho preso contatto con degli amici e insieme abbiamo fondato
un'associazione – l'Arcom, Association des Réfugiés
Congolais au Maroc – per denunciare le violenze di cui
siamo stati vittime, ribadendo che i nostri diritti erano diritti
universali. Così è cominciata la lotta.
Insisto sulla rivendicazione di questi diritti attraverso
l'azione diretta, perché la trovo decisiva per una politica
che non consideri i migranti come “oggetti” da accogliere
o gestire, ma come soggetti autonomi. E in effetti, la vostra
lotta funziona. Cito solo un risultato enorme: la possibilità
per i figli di migranti di andare a scuola.
Sì, la lotta è lunga ma finisce sempre per pagare.
Quando sono arrivato in Marocco nel 2004, i figli dei migranti
non potevano accedere al sistema educativo. Nel 2006 abbiamo
organizzato una piccola scuola per loro e intanto abbiamo scritto
al Ministero denunciando questo abuso – che peraltro accade
a pochi chilometri dall'Europa, dove tanto si parla di educazione
e diritti dell'infanzia! Né le autorità marocchine
né l'UNESCO o l'UNICEF presenti sul territorio hanno
mai fatto nulla per questo. Così abbiamo lottato a lungo,
finché nel 2013 i figli dei migranti hanno ottenuto il
loro diritto alla scolarizzazione. E ne siamo fieri.
Pochi anni prima aveva ottenuto lo status di rifugiato
e si era reinsediato in Europa, pur con l'amarezza di lasciare
molti compagni e amici in Marocco. A tal proposito, scrive di
soffrire una certa solitudine nel nostro continente. Pensa sia
anche un problema politico?
Sì, qui c'è un individualismo creato dal materialismo.
In Africa la cultura è basata sullo stare all'aperto,
sulla condivisione. Faccio un esempio in apparenza semplice,
la pratica di mangiare insieme: in Europa – all'epoca
ero in Olanda – mi sono ritrovato solo in un appartamento
con tutti i comfort, ma non avevo appetito. Non ero abituato
a mangiare da solo, e mi colpiva come tutti gli altri inquilini
si chiudessero direttamente in casa. Questo individualismo è
una crisi dei valori di solidarietà, dei valori umanistici
che l'Europa ha tanto preteso di insegnarci, mentre considerava
la civiltà africana come arretrata.
Peraltro, come scrive in Rifugiato,
l'Europa ormai ha spinto i propri muri sempre più a fondo
in Africa collaborando con i dittatori locali. C'è una
sorta di volontà collettiva a ignorare il problema, spingendolo
il più lontano possibile.
Sì, le frontiere dell'Europa sono ormai a livello del
Mali o del Niger. Il vostro continente firma degli accordi con
questi Paesi per tentare di arginare gli esodi di massa, ma
ovviamente non risolve il problema: obbliga solo le persone
a cercare nuove strade migratorie, più pericolose e soggette
alla violenza.
L'Europa dovrebbe avere il coraggio di affrontare il vero tema:
perché la gente se ne va da casa? Io le ho parlato un
po' della storia del Congo per rispondere proprio a questa domanda.
Si continua a dire che l'Africa non riesce a svilupparsi, non
riesce a venire a capo della sua arretratezza nonostante i movimenti
indipendentisti: ma ci si dimentica dei decenni di sfruttamento
costante delle materie prime che ha continuato a subire. I proclami
di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale
non hanno fatto altro che distruggere il poco di sistema sociale
che avevamo.
Gli accordi di partenariato economico e di libero scambio cancellano
le modalità di commercio e sussistenza locali, il piccolo
artigianato. E così la gente si impoverisce e scappa,
senza nemmeno la certezza di potersi muovere liberamente. L'Europa
dove tanti africani vogliono andare è forse il paradiso?
No. Ma se avessimo i documenti e la possibilità di spostarci
come ci pare, potremmo decidere di rimanervi o meno.
Giorgio Fontana
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