rivista anarchica
anno 48 n. 429
novembre 2018


migrazioni

“Nel deserto non ci sono macchine fotografiche”

intervista di Giorgio Fontana a Emmanuel Mbolela

Dal Congo all'Europa, attraversando il deserto e poi il Mediterraneo. Tra violenze e soprusi. Emmanuel Mbolela racconta la sua storia e fa un'analisi della situazione sociale e politica del continente africano.


Emmanuel Mbolela è uno scrittore e attivista congolese, che dopo molti anni di stazionamento forzato in Marocco è riuscito a ottenere uno status di rifugiato in Europa. Il libro che racconta la sua avventura – intitolato appunto Rifugiato (Agenzia X 2018) – va ben oltre la testimonianza, per quanto tragica, e getta una luce interessante sulle lotte autogestite dei migranti: è un testo combattente ma al contempo intriso di grande sensibilità umana.
Oggi Mbolela è impegnato nell'associazione Afrique-Europe-Interact, una rete che si propone di combattere il land grabbing delle multinazionali in Africa difendendo lo sviluppo locale e sostenibile – il “diritto a restare” in condizioni dignitose, parallelo e coincidente al diritto di muoversi liberamente nel mondo.
Grazie a Marco Philopat ho avuto la fortuna di intervistare Mbolela durante il suo tour di presentazioni in Italia, nel settembre 2018: qui di seguito la nostra chiacchierata.

GiorgioPartirei dall'inizio, cioè dall'introduzione storica che precede il resoconto del viaggio dal Congo all'Europa.
Emmanuel – Per gli europei la storia dell'Africa comincia con la colonizzazione: generalmente si ignora la storia delle culture e delle civilizzazioni che l'hanno preceduta. Anche per questo ho voluto scrivere un testo introduttivo dove non solo rivendico il passato del Congo, ma anche la tragicità dell'impresa coloniale.

Non a caso il tratto originale del libro è la sua anima politica. La storia dei suoi anni di viaggio è inserita in un'ottica di analisi che interroga la situazione africana in modo radicale. Mi sembra più un saggio che un testo autobiografico, o un ibrido fra i due.
È così. Prendendo la strada per l'Europa io e i miei compagni abbiamo subito numerose atrocità. Ma quando ho pensato di scrivere un libro al riguardo, mi sono detto: se racconto solo i dettagli delle violenze subite durante il viaggio – o anche in precedenza nel mio Paese – a cosa serve? Non potevo fermarmi lì, dovevo illustrarne anche le cause. Usando un lessico ormai comune, posso dire che ci siamo tutti mossi per “ragioni economiche”. Ed è vero, più o meno. Ma dove trovano origine queste “ragioni”? In Europa c'è una visione stereotipata dell'Africa povera e derelitta: invece il mio continente è di per sé molto ricco. In quasi tutti i Paesi africani ci sono risorse straordinarie: sia naturali – penso solo alle miniere, alle materie prime – sia umane. La giovinezza, ad esempio. Eppure la gente fugge.

Nel suo caso, il tema politico precede anche il viaggio. La Repubblica democratica del Congo, da dove proviene, è uno dei dieci paesi più poveri al mondo: ma la povertà in cui versa ha ragioni strettamente legate allo sfruttamento coloniale e al tradimento delle speranze post-indipendenza. La sua storia di attivista comincia già in patria, durante il tentativo di portare pace nel Paese all'inizio del Duemila.
Qui è bene fare un passo indietro. Il Congo è sempre stata una nazione ricca di beni strategici, il caucciù prima di tutto. Re Leopoldo del Belgio, che lo considerava una sorta di proprietà privata, mise in piedi una mostruosa catena di sfruttamento per la raccolta e la vendita del caucciù, indispensabile per la produzione di pneumatici. Ogni raccoglitore doveva accumulare un tot di materiale di qualità: altrimenti, la punizione era il taglio della mano.
Quando le atrocità vennero allo scoperto, nel 1908, il Belgio trasformò il Congo in una colonia “ufficiale”: nominalmente per fermare quelle stragi, ma garantendosi comunque lo sfruttamento di altri beni strategici. Così i belgi cominciarono ad assumere congolesi e altri africani per farli lavorare nelle miniere: ma in condizioni inumane. Lentamente aumentarono le proteste proteste, lotte e rivendicazioni.

Fino a Lumumba.
Sì, nel 1960 Patrice Lumumba proclamò l'indipendenza parlando innanzitutto di cambiamenti economici. Ma durò molto poco. Come tutti sanno fu assassinato con la complicità degli americani un anno dopo, e al suo posto salì al potere un uomo che garantisse ancora lo sfruttamento delle risorse da parte belga: Mobutu. Trentadue anni di dittatura, trentadue anni di sofferenza, trentadue anni di abuso delle ricchezze congolesi.
Nel 1996 il generale Laurent-Désire Kabila riuscì a porvi fine, ma di lì a poco cominciò una guerra sanguinosa, terrificante, di cui in Europa non si parla mai. Milioni di morti. Nel 2001 Kabila fu ucciso e al suo posto venne piazzato il figlio, giusto per assicurare lo status quo internazionale. La crisi sembrava interminabile, così l'opposizione politica fece di tutto per portare il Paese alla pace: un grosso sforzo collettivo portò al Dialogo Inter-Congolese del 2002, tenuto in Sudafrica, cui partecipai io stesso come racconto nel libro. Ma nonostante i proclami, fu una sconfitta. Mentre noi discutevamo, le lobby al potere garantivano che Kabila restasse al suo posto – e così fu.

Una delusione terribile.
Sì, per me è stata una grande delusione. Io e tanti altri avevamo investito parecchie energie in quel Dialogo. Constatandone il fallimento, ho deciso di partire.

Emmanuel Mbolela

Torniamo allora al suo viaggio. Un'altra cosa che sfugge spesso al discorso comune in Europa è il tempo necessario per attraversare l'Africa e la quantità di ostacoli che questo comporta.
Sì, molti non hanno un'autentica percezione di cosa sia una rotta migratoria. Ad esempio, ora siamo in Italia: il Mediterraneo è la porta dell'Africa, e tutti sanno cosa succede in quelle acque perché ci sono dei giornalisti che lo documentano e lo fotografano. Ma nel deserto non ci sono macchine fotografiche e non ci sono giornalisti; e quanto accade lì è anche peggio.

Dove ha trovato le maggiori difficoltà?
In Africa del nord, senz'altro. Nei paesi dell'Africa nera potevo nascondermi e mescolarmi alla popolazione locale: era difficile distinguermi da un maliano o da un burkinabé. Dopo aver passato il deserto – subendo ogni sorta di violenza, di furti e altre atrocità che racconto nel libro – arrivai in Algeria pensando che il mio calvario fosse ormai finito. E invece doveva ancora iniziare: il razzismo nei confronti di noi neri era molto forte, il che mi amareggiava ulteriormente perché le lotte algerine furono fondamentali per la liberazione del continente africano. Inoltre, senza documenti non potevo affittare un appartamento.

A tal proposito. Leggendo Rifugiato ho avuto la conferma di una sensazione terribile: la riduzione dell'essere umano non solo al possesso di documenti, ma innanzitutto alla sua possibilità di pagare. Pagare per attraversare una frontiera, per corrompere la polizia, eccetera. Sembra un effetto deforme e terminale del capitalismo.
Esatto. Tutto è danaro. L'uomo in sé non ha più alcuna importanza. Immagini le condizioni in cui arrivavamo a una frontiera, dopo giorni nel deserto senza cibo e senz'acqua: eppure la sola cosa che contava per chi ci fermava erano i soldi. O qualsiasi altra forma di pagamento.

Ad esempio le donne, oggetto di violenza continua e strutturale. Trovo che nel suo libro la questione femminile sia assolutamente centrale.
Già a partire dal Mali vedevamo i guidatori dei camion litigare per avere questa o quella ragazza. All'inizio non capivo, poi ho compreso che le donne sono considerate una moneta di scambio per attraversare le varie frontiere. È stato orribile. Noi uomini siamo stati picchiati e derubati, ma le donne subivano continuamente una doppia violenza: erano stuprate, erano davvero ridotte a oggetti. E in Algeria la polizia si comportava allo stesso modo: cacciava noi uomini e tratteneva le donne per violentarle. Per non parlare degli uomini della loro stessa comunità o nazionalità, che le maltrattavano o le sfruttavano. È una cosa che mi ha profondamente atterrito, e che peraltro continua tuttora. Un mese fa ero di nuovo in Marocco e ho visto diverse ragazze incinte. Ho saputo che venivano ingannate dicendo loro che una gravidanza garantiva più possibilità di essere soccorse e ottenere documenti: ma dopo essere state violentate venivano abbandonate.

Veniamo dunque al Marocco: è là che, fra mille difficoltà, vi riappropriate del vostro ruolo politico attraverso una lotta comune. Come scrivete nel libro: “O reagiamo, o finiremo consumati”.
In Marocco era possibile trovare degli appartamenti in affitto, anche se al doppio del prezzo normale per un marocchino. La polizia conosceva le nostre abitazioni e organizzava spesso dei raid alle tre o alle quattro del mattino: arrivavano, ci arrestavano, ci pestavano e provavano a rispedirci nel deserto. A un certo punto mi sono detto: per quanto tempo dobbiamo restare in una situazione simile? O reagiamo, o finiremo consumati. Dunque ho preso contatto con degli amici e insieme abbiamo fondato un'associazione – l'Arcom, Association des Réfugiés Congolais au Maroc – per denunciare le violenze di cui siamo stati vittime, ribadendo che i nostri diritti erano diritti universali. Così è cominciata la lotta.

Insisto sulla rivendicazione di questi diritti attraverso l'azione diretta, perché la trovo decisiva per una politica che non consideri i migranti come “oggetti” da accogliere o gestire, ma come soggetti autonomi. E in effetti, la vostra lotta funziona. Cito solo un risultato enorme: la possibilità per i figli di migranti di andare a scuola.
Sì, la lotta è lunga ma finisce sempre per pagare. Quando sono arrivato in Marocco nel 2004, i figli dei migranti non potevano accedere al sistema educativo. Nel 2006 abbiamo organizzato una piccola scuola per loro e intanto abbiamo scritto al Ministero denunciando questo abuso – che peraltro accade a pochi chilometri dall'Europa, dove tanto si parla di educazione e diritti dell'infanzia! Né le autorità marocchine né l'UNESCO o l'UNICEF presenti sul territorio hanno mai fatto nulla per questo. Così abbiamo lottato a lungo, finché nel 2013 i figli dei migranti hanno ottenuto il loro diritto alla scolarizzazione. E ne siamo fieri.

Pochi anni prima aveva ottenuto lo status di rifugiato e si era reinsediato in Europa, pur con l'amarezza di lasciare molti compagni e amici in Marocco. A tal proposito, scrive di soffrire una certa solitudine nel nostro continente. Pensa sia anche un problema politico?
Sì, qui c'è un individualismo creato dal materialismo. In Africa la cultura è basata sullo stare all'aperto, sulla condivisione. Faccio un esempio in apparenza semplice, la pratica di mangiare insieme: in Europa – all'epoca ero in Olanda – mi sono ritrovato solo in un appartamento con tutti i comfort, ma non avevo appetito. Non ero abituato a mangiare da solo, e mi colpiva come tutti gli altri inquilini si chiudessero direttamente in casa. Questo individualismo è una crisi dei valori di solidarietà, dei valori umanistici che l'Europa ha tanto preteso di insegnarci, mentre considerava la civiltà africana come arretrata.

Peraltro, come scrive in Rifugiato, l'Europa ormai ha spinto i propri muri sempre più a fondo in Africa collaborando con i dittatori locali. C'è una sorta di volontà collettiva a ignorare il problema, spingendolo il più lontano possibile.
Sì, le frontiere dell'Europa sono ormai a livello del Mali o del Niger. Il vostro continente firma degli accordi con questi Paesi per tentare di arginare gli esodi di massa, ma ovviamente non risolve il problema: obbliga solo le persone a cercare nuove strade migratorie, più pericolose e soggette alla violenza.
L'Europa dovrebbe avere il coraggio di affrontare il vero tema: perché la gente se ne va da casa? Io le ho parlato un po' della storia del Congo per rispondere proprio a questa domanda. Si continua a dire che l'Africa non riesce a svilupparsi, non riesce a venire a capo della sua arretratezza nonostante i movimenti indipendentisti: ma ci si dimentica dei decenni di sfruttamento costante delle materie prime che ha continuato a subire. I proclami di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale non hanno fatto altro che distruggere il poco di sistema sociale che avevamo.
Gli accordi di partenariato economico e di libero scambio cancellano le modalità di commercio e sussistenza locali, il piccolo artigianato. E così la gente si impoverisce e scappa, senza nemmeno la certezza di potersi muovere liberamente. L'Europa dove tanti africani vogliono andare è forse il paradiso? No. Ma se avessimo i documenti e la possibilità di spostarci come ci pare, potremmo decidere di rimanervi o meno.

Giorgio Fontana