dibattito
L'etica del consenso
di Massimo Varengo
Un sistema che ignora le ordinarie manifestazioni di piazza, che è pronto a criminalizzare ogni evento fuori dalla norma, che mette sullo stesso piano l'espressione critica e l'atto di violenza aperta, è un sistema indisponibile ad ogni forma di dialogo e di mediazione sociale. Lo sostiene in questo intervento un militante della Federazione Anarchica Italiana.
Grande risonanza hanno avuto sui media le azioni di rottura sistematica di una serie di vetrine di banche e di negozi, l'incendio di diverse vetture e di una filiale di una banca, così come il “tappeto” di felpe, guanti, caschi abbandonati sulla carreggiata, a conclusione di dette azioni. Ovviamente molto ghiotta era l'occasione per documentare quanto fossero organizzati, determinati e violenti, gli autori di tali azioni. Un effluvio di filmati, un'orgia di fotografie, ci hanno sommerso sia dalla televisione che da internet, con tutti i loro particolari, dai ciuffi di capelli, all'orologino al polso, alla turista in posa, in una sorta di voyeurismo mediatico senza alcuna inibizione.
Non che ci sia molto da stupirsi: è risaputo che per catturare l'attenzione degli utenti/spettatori (e vendere dosi massicce di pubblicità) è importante, per i media, massimizzare ogni evento fuori dall'ordinario, dalla catastrofe, aerea o ferroviaria che sia, alla presunta diffusione di un virus, con una grande attenzione alla dimensione spettacolare dello stesso. In questo contesto si può tranquillamente affermare che quello che una volta era un evento 'fuori dall'ordinario' come una pacifica manifestazione di piazza, oggi non è più tale, tanto è vero che anche manifestazioni molto partecipate, se dissonanti con il sistema di potere, non riescono a 'conquistare' che poche righe sui giornali, contrariamente a quelle, anche se insignificanti, di 'regime'. I media, così facendo, si dimostrano sempre più a servizio di chi paga, affossando definitivamente il mito dell'informazione neutra e obiettiva, rimanendo però ancorati alla necessità commerciale della vendita dello spettacolo. Ma un sistema che ignora le ordinarie manifestazioni di piazza, che è pronto a criminalizzare ogni evento fuori dalla norma, che mette sullo stesso piano l'espressione critica e l'atto di violenza aperta, è un sistema indisponibile ad ogni forma di dialogo e di mediazione sociale; è un sistema che sollecita reazioni 'forti' e che ambisce all'uso della repressione sistematica come mezzo di risoluzione delle contraddizioni sociali.
Manifestare nel mondo dell'immagine
Per conquistarsi un po' di visibilità nel mondo dell'immagine – sempre più identificato come il mondo reale – le manifestazioni si danno allora altre forme di espressione: consumare le suole delle scarpe non è considerato più sufficiente, così come lo sventolare bandiere o l'innalzare striscioni. Ecco allora l'emergere di comportamenti concreti tesi da una parte a indicare gli obiettivi della protesta e dall'altra a manifestare la propria determinazione. Il più delle volte questi comportamenti, dalle scritte sui muri e sulle vetrine, al danneggiamento dei bancomat e al lancio di palloncini pieni di vernice, sono attuati compatibilmente con la necessità di non alzare troppo il livello di tensione esistente e comunque sufficienti a conquistare visibilità sui media, in modo da dare autorevolezza agli organizzatori della manifestazione stessa e da fungere da cassa di risonanza dei suoi contenuti in ambiti diversi. La necessità spasmodica di visibilità, in un mondo in cui tutto pare consumarsi in fretta, può però produrre dei contraccolpi imprevedibili. Chi infatti stabilisce i limiti da non superare per non avere ritorni poco graditi rispetto all'immagine che si vuole trasmettere?
La manifestazione No Expo del Primo maggio di Milano era stata concepita e organizzata per dare corpo e visibilità all'opposizione della messa in opera di politiche devastanti sul lavoro, sull'alimentazione, sul governo delle risorse, rappresentate dall'Esposizione internazionale e dai suoi sponsor, tra i principali responsabili del dissesto ecologico e della devastazione ambientale mondiale. Mesi di riunioni tra reti, comitati, centri sociali, sindacati di base avevano dato vita ad un progetto di corteo caratterizzato da vivacità e determinazione che, per gli obiettivi che avrebbe dovuto simbolicamente sanzionare – comunque in grado di conquistarsi un'adeguata visibilità nei giorni dell'inaugurazione dell'evento – avrebbe inaugurato un percorso conflittuale per tutti i sei mesi di Expo. Una manifestazione organizzata in sostanza nella logica che ha sempre contraddistinto chi si muove con l'obiettivo di costruire consenso – e quindi forza – intorno alla propria progettualità.
Due concezioni dello stare in piazza
Da parte degli organizzatori si è messo in rilievo come
l'indizione della manifestazione sia stata portata avanti secondo
il metodo del consenso tra tutti i partecipanti e non secondo
il metodo democratico, basato sulla maggioranza; da parte di
altri questo processo è stato definito 'autoreferenziale'
in quanto non includente i tanti, soprattutto i 'non milanesi',
di fatto esclusi.
In realtà ogni manifestazione, per il fatto stesso di
essere un momento collettivo di rappresentanza politica e soprattutto
sociale, non può mai pensarsi come un insieme perfettamente
regolato, anche se, negli anni, abbiamo visto (e subito) la
presenza di “servizi d'ordine” tesi a contenere,
escludere, reprimere forme d'espressione dissenzienti da quella
dominante. Il consenso quindi è un'ottima e fondamentale
base di partenza per ogni iniziativa, sicuramente necessaria
ma anche insufficiente a garantire la corretta effettuazione
del percorso progettato.
A Milano l'occasione era troppo ghiotta per chiunque. La visibilità
era assicurata, soprattutto dopo che i media avevano fatto campagna
su possibili disordini, evocando addirittura Genova 2001, e
dopo che questura e prefettura avevano blindato il centro storico
della città, predisposto l'assistenza ospedaliera e lo
spazio carcerario in previsione di feriti ed arresti. Insomma
lo scenario era pronto.
Uno scenario che è stato calcato da quanti ritengono
che, alla devastante situazione sociale, non sia sufficiente
dare risposte “classiche”, basate su manifestazioni
pacifiche, tuttalpiù agitate da azioni simboliche sostanzialmente
inoffensive, e che occorra ricorrere alle maniere forti, non
accettando i limiti polizieschi, le zone “rosse”
e quant'altro. Facendo tesoro dell'amplificazione mediatica
degli avvenimenti successi in altre metropoli, da Francoforte
a Baltimora, questi gruppi militanti, di diversa provenienza
e di diverso orientamento, si sono ritrovati a Milano ed hanno
operato nel modo che ormai sappiamo, con il chiaro obiettivo
di diffondere le proprie pratiche a livello planetario come
le uniche in grado di ottenere l'obiettivo. Sarebbe però
riduttivo, se non sbagliato, addossare solo ad una volontà
politica quanto è accaduto. Bisogna avere ben chiaro
cosa le politiche di austerità, di impoverimento sociale,
di rafforzamento autoritario, di restringimento degli spazi
di espressione e di organizzazione, stanno producendo: un malessere
sociale ed esistenziale che trova espressione nella protesta
immediata e nel conflitto aperto, nelle sue varie forme possibili,
costituendo un terreno fertile per chi opta per scelte militarizzate
di piazza, in funzione sia di una previsione di crescita esponenziale
di capacità insurrezionale, sia di un nichilismo estetizzante
ed autoreferenziale.
Comunque sia, a Milano, si sono misurate fondamentalmente due
concezioni dello stare in piazza, non previste negli accordi
presi e la cui mancata integrazione ha dato origine ad uno sfaldamento
del movimento No Expo che faticosamente si era riusciti a mettere
in piedi. Non è la prima volta, non sarà l'ultima.
Per chi si pone il problema del superamento dello stato di cose
presenti, per chi agisce, o vuole agire, per una trasformazione
sociale, costruita sulla libertà e sull'eguaglianza,
la questione della costruzione di un movimento reale di lotta
rimane ed è fondamentale. E non lo si costruisce di certo
con le forzature irrispettose delle ragioni delle altre componenti;
nemmeno però con una concezione democraticistica dei
rapporti tra gruppi ed organizzazioni; inoltre auspicare che
ognuno vada per la sua strada, non è di certo soddisfacente
né produttivo.
Nessuno ha la ricetta in tasca anche se abbondano i grilli parlanti.
Probabilmente sarà considerato ingenuo pensare che il
riconoscimento ed il rispetto reciproco siano le basi per un
percorso comune, di certo il raggiungimento di un consenso
di fondo è l'obiettivo che ci si deve porre, salvaguardando
la libertà, per ogni componente della lotta, di proposta
e di propaganda.
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La quarta di copertina del numero di aprile |
La
copertina dello scorso numero |
Costruire un percorso condiviso
In conclusione alcune considerazioni. Le trasformazioni in
atto nel paese, sia sul piano sociale che istituzionale, vanno
talmente in profondità da prefigurare scenari drammatici.
Le controriforme in atto, dalle strutture di potere alla scuola,
disegnano un sistema paese caratterizzato da un autoritarismo
di stampo aziendalista spalmato su più livelli; la pauperizzazione
imposta al corpo sociale, lungi dal produrre la ripresa della
produzione industriale basata sul basso costo del lavoro, aumenta
la divaricazione sociale; vengono promulgate leggi sempre più
autoritarie e restrittive sul diritto di sciopero e sulla rappresentanza;
con lo “Sblocca Italia” si favorisce la devastazione
ambientale ed il peggioramento delle condizioni di lavoro; aumenta
la disoccupazione ed ormai sono sei milioni le persone classificate
in povertà. Per fermare questa offensiva reazionaria
che sta scavando sempre di più nel corpo sociale del
paese, diventa sempre più indispensabile sviluppare un'azione
e un percorso di lotte sociali in grado di costruire uno sbocco
praticabile e condiviso alla situazione che stiamo vivendo e
che andrà sempre più aggravandosi: un movimento
forte e maturo, autoorganizzato ed autogestito. Riflettere su
quanto è successo è necessario, ma senza moralismi
e senza settarismi, per imparare e per andare avanti.
Il lavoro non manca, sulla strada della lotta quotidiana, dell'autorganizzazione
e dell'autogestione, del duro lavoro di costruzione di un movimento
libertario che sappia essere agente reale e concreto della trasformazione
sociale.
Massimo Varengo
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