tecnologia
Ma quando arriva il futuro?
di David Graeber
Secondo visioni fantascientifiche ideate a partire dai primi del Novecento, il nuovo millennio avrebbe visto l'avverarsi di scenari futuristici che ad oggi, però, non si sono ancora concretizzati. Anche l'avvento della civiltà del post-lavoro sembra essere stato un abbaglio. Capitalismo, burocrazia e diseguaglianze economiche sono la causa della stagnazione tecnologico-creativa in cui siamo incappati. Lo sostiene l'antropologo americano, militante e teorico del movimento Occupy.
Una domanda inespressa aleggia intorno a noi, un senso di delusione, una promessa non mantenuta che ci hanno fatto da bambini su quello che il nostro mondo sarebbe diventato quando saremmo stati grandi. Non mi riferisco alle tipiche false promesse che si sono sempre fatte ai bambini (che il mondo è giusto, che chi lavora sodo sarà ricompensato), ma a una particolare promessa fatta a chi era bambino negli anni cinquanta, sessanta, settanta e ottanta: una promessa che non è mai stata articolata come tale, ma presentata come una serie di ipotesi su quello che sarebbe stato il nostro mondo da grandi. E siccome non è stata mai una promessa vera e propria, ora che non si è realizzata ci lascia sconcertati: indignati, ma allo stesso tempo imbarazzati per il nostro sdegno, vergognandoci di essere stati tanto sciocchi da credere ai nostri vecchi, tanto per cominciare.
Per dirla in breve, dove sono le macchine volanti? Dove sono i campi di forza, i raggi traenti, le capsule per il teletrasporto, le slitte antigravitazionali, i tricorder, le pillole dell'immortalità, le colonie su Marte e tutte le altre meraviglie tecnologiche che ogni bambino cresciuto nella seconda metà del ventesimo secolo credeva che oggi sarebbero esistite? Anche quelle invenzioni che sembravano a portata di mano, come la clonazione o la criogenia, hanno finito per tradire le grandi aspettative. Che cosa è successo?
Siamo ben informati delle meraviglie del computer, come se questa fosse una sorta di compensazione imprevista, ma, in realtà, anche in questo caso non siamo arrivati al punto che negli anni cinquanta si aspettavano: non abbiamo computer con i quali possiamo fare una conversazione interessante, non abbiamo robot che portino a spasso il cane o i nostri vestiti in lavanderia.
Io sono tra quelli che avevano otto anni al momento dell'allunaggio dell'Apollo, mi ricordo che calcolavo di avere trentanove anni nel magico 2000 e mi chiedevo come sarebbe stato il mondo. Mi aspettavo di vivere in un mondo pieno di meraviglie? Naturalmente. Come tutti. Mi sento ingannato ora? Non sembrava probabile che sarei vissuto tanto da vedere tutte le cose delle quali leggevo nei romanzi di fantascienza, ma non mi veniva mai il dubbio che non ne avrei vista nemmeno una.
Alla svolta del millennio mi sarei aspettato un profluvio di riflessioni sul perché ci eravamo tanto ingannati sul futuro della tecnologia. Invece, quasi tutte le voci più autorevoli, di sinistra e di destra, hanno iniziato a riflettere partendo dal presupposto che noi viviamo, in un modo o in un altro, in un'inedita nuova utopia tecnologica.
Il modo comune per affrontare quel senso di disagio che fa pensare che forse le cose non stanno così è di rimuoverlo e di convincersi che quello che avrebbe potuto succedere è proprio successo e di considerare tutto il resto una sciocchezza. “Ah, vuoi dire quelle storie de I Pronipoti (The Jetsons)?” mi hanno chiesto, come per dire, ma sono cose per bambini! Certo, ora che siamo grandi ci rendiamo conto che la visione del futuro presentata da I Pronipoti (The Jetsons) è altrettanto precisa quanto quella dell'Età della Pietra sui cartoni animati de Gli Antenati (The Flinstones).
Perfino negli anni settanta e ottanta, in realtà, serie fonti come quelle del National Geographic e dello Smithsonian Institute informavano i piccoli lettori delle imminenti stazioni spaziali e delle spedizioni su Marte. Gli autori dei film di fantascienza proponevano date reali, spesso non oltre quelle di una prossima generazione, nelle quali ambientavano le loro fantasie futuristiche. Nel 1968 Stanley Kubrick ritenne che il pubblico cinematografico avrebbe trovato perfettamente naturale presumere che solo trentatré anni dopo, nel 2001, avemmo avuto voli commerciali sulla Luna, stazioni spaziali grandi come città, computer con personalità umana che avrebbero mantenuto gli astronauti in vita sospesa in rotta verso Giove. Più o meno l'unico strumento tecnologico di quel film che sia apparso veramente è il videotelefono, ed era già tecnicamente possibile quando il film fu girato. Odissea nello spazio può essere visto come una rarità, ma che dire di Star Trek? I miti di quei telefilm erano ambientati negli anni sessanta, ma sono stati continuamente riproposti, lasciando che gli spettatori di Star Trek Voyager, per esempio nel 2005, tentassero di immaginarsi come, secondo la logica del programma, il mondo si sarebbe ripreso dalle lotte contro il governo di superuomini nati creati dall'ingegneria genetica nelle Guerre Eugeniche degli anni novanta.
Nel 1989, quando i creatori di Ritorno al futuro II mettevano solertemente automobili volanti e skateboard antigravità nelle mani di normali adolescenti del 2015, non era chiaro se facessero predizioni o se scherzassero.
Solo tecniche di simulazione
Nella fantascienza il trucco normale è di restare vaghi riguardo alle date, per rendere “il futuro” una zona di pura fantasia, non diversa dalla Terra di Mezzo o di Narnia, oppure, come in Guerre stellari, “tanto tempo fa in una galassia molto, molto lontana”. Per questo il nostro futuro fantascientifico, nella maggioranza dei casi, non è affatto un futuro, ma una dimensione alternativa, un tempo onirico, un Altrove tecnologico esistente in giorni a venire alla stessa stregua degli elfi e degli ammazzadraghi che esistevano nel passato: un altro schermo per mettere in scena i drammi morali e i miti fantastici nei vicoli ciechi del piacere consumistico.
Sarebbe possibile considerare la sensibilità culturale che è stata definita postmodernismo come una lunga riflessione sui cambiamenti tecnologici che non si sono mai verificati?
Mi sono fatto questa domanda mentre guardavo uno degli episodi recenti di Guerre stellari. Il film era terribile, ma non potevo fare a meno di sentirmi colpito dalla qualità degli effetti speciali. Ricordando quelli goffi dei film di fantascienza degli anni cinquanta, mi sono messo a pensare che effetto avrebbero fatto a un pubblico dell'epoca, se avesse saputo quello che sappiamo ora. Ma ho subito capito: “In realtà no, gli spettatori non ne sarebbero stati affatto colpiti. Avrebbero pensato che oggi noi saremmo stati capaci di fare tutte quelle cose, senza immaginarsi l'esistenza di mezzi più sofisticati per simularle.”
Questo verbo, simulare, è la chiave. Le tecnologie che rappresentano un progresso, dagli anni settanta in poi, riguardano principalmente la medicina e l'informatica e sono in gran parte tecniche di simulazione. Riguardano in gran parte quello che Baudrillard ed Eco chiamano “iper-reale”, la capacità di fare imitazioni che sono più realistiche degli originali. La sensibilità postmoderna, la sensazione di essere in qualche modo entrati in un nuovo e mai visto periodo storico nel quale si capisce che non c'è più niente di nuovo, che le grandi narrazioni storiche di progresso e di liberazione erano prive di senso, che tutto ora sarebbe simulazione, reiterazione ironica, frammentazione e imitazione, tutto questo ha un senso in un ambiente tecnologico nel quale gli unici rivolgimenti sarebbero quelli che rendevano più facile creare, trasferire e riorganizzare proiezioni virtuali di oggetti che esistevano già o che siamo arrivati a capire che non esisterebbero mai. Sicuramente, se fossimo in vacanza in cupole geodetiche su Marte o se ce ne andassimo in giro con impianti di fusione nucleare tascabili o dispositivi telecinetici a lettura mentale nessuno avrebbe mai ragionato in questo modo. Il momento postmoderno è stato un tentativo disperato di accettare quella che altrimenti sarebbe stata un'amara delusione e darle una veste in qualche modo epocale, emozionante e nuova.
La fine del lavoro non ci sarà
Nelle primissime formulazioni del postmoderno, che provenivano in gran parte dalla tradizione marxista, si era accettato moltissimo di quei fondamenti tecnologici. Il libro di Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, proponeva il termine “postmodernismo” per riferirsi alla logica culturale di una nuova fase tecnologica del capitalismo, quale era stata annunciata dall'economista marxista Ernest Mandel nel 1972. Mandel aveva sostenuto che l'umanità era alle soglie di una “terza rivoluzione tecnologica”, profonda come la rivoluzione agricola e quella industriale, nella quale computer, robot, nuove fonti di energia e nuove tecnologie dell'informazione avrebbero sostituito la manodopera industriale: la “fine del lavoro”, come venne ben presto chiamata, ci avrebbe ridotto tutti a designer ed esperti informatici capaci di ideare pazzesche visioni che sarebbero state prodotte in fabbriche cibernetiche.
Tra gli anni settanta e ottanta le discussioni sulla fine del lavoro erano frequenti e i sociologi riflettevano su che cosa sarebbe successo delle lotte popolari guidate dalla classe operaia, una volta che la classe operaia fosse scomparsa. (La risposta: sarebbe diventata politica identitaria). Jameson si considerava impegnato ad analizzare le forme di consapevolezza e di sensibilità storica che ne sarebbero probabilmente emerse.
Invece è successo che la diffusione degli strumenti informatici e i nuovi modi di organizzare i trasporti (le spedizioni in container, per esempio) hanno fatto sì che le stesse attività industriali non scomparissero ma fossero trasferite in Asia orientale, in America latina e in altre aree dove la disponibilità di manodopera a basso costo permetteva l'impiego di linee di produzione molto meno sofisticate dal punto di vista tecnico di quelle che si sarebbero dovute adottare da noi.
Dal punto i vista di chi viveva in Europa, in Nord America e in Giappone, il risultato sembrava proprio confermare le predizioni. Sono scomparse le ciminiere delle fabbriche, il lavoro è stato suddiviso tra uno strato inferiore di lavoratori del terziario e uno superiore di persone che giocano col computer e stanno sedute in gusci asettici. Sotto tutto questo permane una scomoda consapevolezza del fatto che la civiltà del post-lavoro è una frode colossale. Le nostre scarpe da ginnastica, frutto di un design hi-tech, non sono prodotte da cyborg intelligenti o con nanotecnologie molecolari autoreplicanti, sono fabbricate con equivalenti delle vecchie macchine da cucire Singer dalle figlie di contadini messicani o indonesiani che, a causa dei trattati commerciali promossi dall'Organizzazione Mondiale del Commercio o dal NAFTA, sono stati espulsi dalle terre dei loro avi. È un senso di colpa che sta alla base della sensibilità postmoderna e della sua celebrazione di un gioco incessante di immagini e superfici.
Come mai la progettata esplosione della crescita tecnologica che tutti si aspettavano (le basi lunari, le fabbriche robotizzate) non si è verificata? Ci sono due possibili spiegazioni.
O le nostre aspettative sul ritmo dei cambiamenti tecnici erano irrealistiche (nel qual caso dobbiamo capire perché tante persone intelligenti pensavano il contrario) oppure non lo erano (nel qual caso dobbiamo capire che cosa sia successo che ha fatto deragliare tante idee e prospettive credibili).
Gran parte degli studiosi di scienze sociali sceglie la prima spiegazione e fa risalire il problema ai tempi della gara per la conquista dello spazio tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Perché, si chiedono questi studiosi, sia gli Stati Uniti sia l'Unione Sovietica erano tanto presi dall'idea di mandare uomini nello spazio? Non è mai stata un'idea efficiente per impegnarsi nella ricerca scientifica. E ha favorito teorie irrealistiche su quello che sarebbe stato il futuro degli esseri umani.
Sarebbe possibile rispondere che tanto gli USA quanto l'URSS erano stati, nel secolo precedente, società di pionieri, una che si espandeva oltre la frontiera occidentale, l'altra sul territorio della Siberia? Non condividevano un mito di un futuro di espansione illimitata, di colonizzazione umana di vasti spazi vuoti, che convinse i leader di tutte e due le superpotenze di essere entrati un una “era spaziale” nella quale battagliare per il controllo del futuro stesso? Qui erano entrati in gioco miti di ogni genere, non c'è dubbio, ma questa spiegazione non dimostra niente riguardo alla fattibilità del progetto.
Alcune di quelle fantasie fantascientifiche (a questo punto non possiamo sapere quali) avrebbero potuto essere trasformate in realtà. Chi era cresciuto tra Ottocento e Novecento, leggendo Jules Verne o H.G. Wells, s'immaginava un mondo, diciamo nel 1960, con macchine volanti, astronavi, sommergibili, la radio e la televisione; ed è proprio quello che si è realizzato. Se non era irrealistico nel 1900 sognare uomini in viaggio per la luna, perché lo era nel 1960 sognare razzi da zaino e cameriere-robot?
In realtà, perfino mentre quei sogni prendevano forma, la base materiale per realizzarli cominciava a erodersi. Ci sono motivi per ritenere che già negli anni cinquanta e sessanta il ritmo di innovazioni stesse rallentando rispetto a quello sostenuto della prima metà del secolo. Ci fu un'ultima impennata negli anni cinquanta, quando apparvero in rapida successione il forno a microonde (1954), la pillola (1957) e i laser (1958). Dopo di che, però, i progressi tecnici hanno preso la forma di nuovi metodi intelligenti per combinare le tecnologie esistenti (come nella corsa spaziale) e per metterle a disposizione dei consumatori (l'esempio più famoso è la televisione, inventata nel 1926 ma prodotta solo dopo la guerra). Eppure, forse perché la corsa spaziale dava a tutti l'idea che si stessero verificando progressi significativi, l'impressione popolare negli anni sessanta era di un'accelerazione impressionate e incontrollabile del progresso tecnologico.
Il cambio di passo del progresso
Il bestseller di Alvin Toffler Lo shock del futuro (1970) sosteneva che quasi tutti i problemi sociali degli anni sessanta fossero riconducibili all'accelerazione dei cambiamenti tecnologici. L'incessante flusso di rivoluzioni scientifiche trasformava le basi dell'esistenza quotidiana e non lasciava agli americani nessuna idea chiara di che cosa fosse una vita normale. Basti pensare alla famiglia, dove non solo la pillola, ma anche la prospettiva della fecondazione in vitro, della riproduzione assistita, della donazione di ovuli e sperma rendevano obsoleta l'idea della maternità. Gli esseri umani non erano preparati a quel ritmo di cambiamenti, sosteneva Toffler, che coniò un termine per il fenomeno: “spinta accelerativa”. La quale era cominciata con la Rivoluzione Industriale, ma intorno alla metà dell'Ottocento era diventata un fenomeno evidente. Tutto quello che ci circondava stava cambiando, ma per molti aspetti (il sapere umano, le dimensioni della popolazione, la crescita industriale, il consumo di energia) il cambiamento era esponenziale. L'unica soluzione, sosteneva sempre Toffler, era di cominciare a imporre un certo controllo sul processo, creando istituzioni che valutassero le tecnologie emergenti e i loro probabili effetti, vietando quelle che risultassero devastanti per la società e guidando lo sviluppo nella direzione di un'armonia sociale.
Per quanto molte delle tendenze storiche descritte da Toffler fossero esatte, il libro uscì quando quei trend esponenziali si erano ormai arrestati. Proprio intorno al 1970 il numero di articoli scientifici pubblicati nel mondo, 1685, una cifra che fino ad allora era raddoppiata ogni quindici anni, cominciò ad abbassare la curva ascendente. Lo stesso si verificava per i libri e per i brevetti.
L'uso del termine “accelerazione” da parte di Toffler fu particolarmente infelice. Per quasi tutta la storia dell'uomo la velocità massima che gli esseri umani riuscivano a raggiungere era di 40 chilometri all'ora. Nel 1900 si era arrivati a 160 km/h e nei settant'anni successivi sembrò aumentare in modo esponenziale. Nel periodo in cui scriveva Toffler il record della massima velocità raggiunta dall'uomo era di 40.000 km/h, raggiunto dall'equipaggio dell'Apollo 10 nel 1969, appena un anno prima. Con una tale curva esponenziale doveva sembrare ragionevole presumere che in qualche decennio l'umanità sarebbe stata in grado di esplorare altri sistemi solari.
Dopo il 1970 non c'è più stato un ulteriore aumento. Il record resta quello dell'equipaggio dell'Apollo 10. È vero che un aereo commerciale di linea, il Concorde, che aveva compiuto il suo primo volo nel 1969, aveva toccato una velocità massima di 2.500 km/h, e l'aereo sovietico Tupolev Tu-144, realizzato per primo, aveva raggiunto una velocità ancora maggiore, di 2.795 km/h. Ma tali record non solo non aumentavano, ma addirittura calarono, perché il Tupolev Tu-144 fu tolto dal servizio e il progetto Concorde fu abbandonato.
Nessuno di questi fatti bloccò la carriera di Toffler, che continuò a rielaborare la sua analisi uscendo con nuovi e spettacolari annunci. Nel 1980 pubblicò La terza ondata, prendendo le mosse dalla “terza rivoluzione tecnologica” di Ernest Mandel; solo che Mandel pensava che quei cambiamenti avrebbero segnato la fine del capitalismo. Toffler presunse che il capitalismo fosse eterno. Nel 1990 divenne il consulente e guru personale del parlamentare americano Newt Gingrich, il quale dichiarò che il proprio “Contract With America” del 1994 era ispirato in parte dalla consapevolezza che per gli Stati Uniti fosse necessario abbandonare un atteggiamento mentale antiquato, materialista, industrialista per inaugurare una nuova epoca informatizzata di libero mercato, quella della Terza Ondata.
Ci sono vari aspetti ironici in questo collegamento. Una delle principali affermazioni di Toffler fu di avere indotto il governo a creare un ente di valutazione delle tecnologie: l'Office of Technology Assessment (OTA). Uno dei primi interventi di successo di Gingrich, per guadagnarsi la maggioranza alla Camera, fu di togliere i finanziamenti all'OTA, additandolo come esempio di inutile dispendio di risorse da parte del governo. Eppure non c'è contraddizione in questo episodio. All'epoca Toffler aveva ormai rinunciato a influenzare la politica e si rivolgeva al pubblico in generale, si guadagnava da vivere soprattutto tenendo seminari a dirigenti e consiglieri delle grandi imprese. Le sue intuizioni erano state privatizzate.
Gingrich amava definirsi un “futurologo conservatore”. Il che può anche sembrare un ossimoro, ma in realtà le teorie stesse di Toffler non erano mai state progressiste. Il progresso era sempre stato presentato come un problema che imponeva una soluzione.
Si potrebbe considerare Toffler un eponimo “soft” di Auguste Comte, il quale era convinto di trovarsi alla soglia di una nuova epoca (nel suo caso l'Età Industriale) spinta dal progresso inesorabile della tecnica, e che i cataclismi sociali dei suoi tempi fossero provocati dal sistema sociale inadeguato. Il vecchio ordine feudale aveva elaborato la teologia cattolica, un modo di pensare il ruolo dell'uomo nel cosmo perfettamente in linea con il sistema sociale dell'epoca, come pure una struttura istituzionale, la Chiesa, che veicolava a sosteneva quelle idee in modo da offrire a tutti un senso di importanza e di appartenenza. L'Età Industriale aveva elaborato un proprio sistema di idee, la scienza, ma gli scienziati non erano riusciti a creare niente che corrispondesse alla Chiesa cattolica.
Comte era arrivato a concludere che avremmo dovuto sviluppare una nuova scienza, che battezzò “sociologia”, e sostenne che i sociologi avrebbero dovuto svolgere il ruolo di sacerdoti di una nuova Religione della Società, la quale avrebbe instillato a tutti l'amore per l'ordine, la comunità, la disciplina del lavoro e i valori della famiglia. Toffler fu meno ambizioso: ai suoi futurologi non chiedeva di fare le funzioni dei sacerdoti.
Gingrich aveva un secondo guru, un teologo libertarian che si chiamava George Gilder, il quale, come Toffler, era ossessionato dalla tecnologia e dai cambiamenti della società. A suo modo, però, Gilder era più ottimista. Adottando una versione radicale della tesi di Mandel sulla Terza Ondata, Gilder affermò che quella cui assistiamo con l'avvento dei computer era una “disfatta della materia”. La vecchia Società Industriale materialista, dove il valore veniva dal lavoro fisico, cedeva il passo all'Età dell'Informazione dove il valore emerge direttamente dalla mente degli imprenditori, proprio come il mondo era apparso in origine direttamente dalla mente di Dio, come il denaro, in una società propriamente orientata all'offerta, spuntava dal nulla - dalla Federal Reserve e dalle mani di capitalisti creatori di valore. Le politiche economiche orientate all'offerta, arrivava a concludere Gilder, avrebbero garantito che gli investimenti si sarebbero allontanati dai vecchi carrozzoni pubblici, come quello del programma spaziale, per orientarsi verso le tecnologie mediche e informatiche, più produttive.
Tuttavia, se c'era un allontanamento, più o meno consapevole, degli investimenti nelle ricerche che avrebbero potuto portare a razzi e a robot più efficaci, a favore di quelle che avrebbero dato vita, per esempio, alle stampanti laser e agli apparecchi per la tomografia computerizzata, la tendenza era cominciata ben prima della pubblicazione dello Shock del futuro di Toffler (1970) e di Wealth and Poverty di Gilder (1981). Il loro successo dimostra che le questioni da loro sollevate, cioè che le forme esistenti dello sviluppo tecnologico avrebbero portato a sconvolgimenti sociali e sarebbe stato necessario orientarlo in direzioni che non toccassero le strutture esistenti dell'autorità, trovarono una certa risonanza nei corridoi del potere. Gli statisti e i capitani d'industria si misero a riflettere per un certo tempo sui problemi posti.
Il capitalismo industriale ha favorito un tasso estremamente rapido di progresso scientifico e di innovazione tecnica, senza precedenti nella storia dell'uomo. Anche i massimi critici del capitalismo, Karl Marx e Friedrich Engels, ne lodavano la liberazione delle “forze produttive”. Marx ed Engels erano anche convinti che la continua esigenza di rivoluzionare i mezzi di produzione ne avrebbe provocato la fine. Marx sosteneva che, per certe ragioni tecniche, il valore (e quindi il profitto) poteva essere ricavato solo dal lavoro umano. La concorrenza costringe i proprietari di fabbriche a meccanizzare la produzione, a ridurre il costo della manodopera, ma mentre questo è un vantaggio sul breve periodo per un'azienda, l'effetto della meccanizzazione è di far calare il saggio di profitto generale.
Per centocinquant'anni gli economisti hanno discusso della correttezza di questa tesi. Ma se lo è, la decisione degli industriali di non destinare fondi di ricerca nell'invenzione di fabbriche robotizzate, come tutti preconizzavano negli anni sessanta, e invece di spostare le proprie fabbriche in luoghi con molta manodopera e bassa tecnologia in Cina o nel Sud del mondo appare una scelta molto sensata.
Come ho notato, ci sono buone ragioni per ritenere che il ritmo dell'innovazione tecnica nei processi di produzione (nelle fabbriche stesse) abbia cominciato a rallentare già negli anni cinquanta e sessanta, ma gli effetti collaterali della rivalità tra USA e URSS facevano sembrare che l'innovazione accelerasse. C'era l'imponente corsa spaziale, accanto ai frenetici sforzi dei programmatori industriali americani per applicare le tecnologie esistenti ai prodotti di consumo, per creare un senso ottimistico di rigogliosa prosperità e di progresso garantito che avrebbe tolto spazio all'attrattiva delle politiche operaie.
Tali mosse erano reazioni alle iniziative dell'Unione Sovietica. Ma questa parte della storia gli americani hanno difficoltà a ricordarla, perché alla fine della Guerra Fredda l'immagine popolare dell'Unione Sovietica non era quella di una rivale terrificante e baldanzosa, ma di un caso disperato e patetico, l'esempio di una società che non può funzionare. Negli anni cinquanta, in realtà, molti esperti americani nutrivano il sospetto che l'Unione Sovietica funzionasse meglio. Senza dubbio ricordavano come negli anni trenta, mentre gli USA erano impantanati nella depressione, l'Unione Sovietica aveva conservato un tasso di crescita senza precedenti, tra il 10 e il 12 per cento all'anno: un'affermazione presto seguita dalla costruzione dei mezzi corazzati che servirono a sconfiggere la Germania nazista, dal lancio dello Sputnik nel 1957 e dal primo volo umano nello spazio, con il Vostok, nel 1961.
Si ripete spesso che l'allunaggio dell'Apollo rappresenterebbe la più grande conquista storica del comunismo sovietico. Di sicuro gli Stati Uniti non avrebbero mai pensato a una simile impresa se non fosse stato per le ambizioni cosmiche del Politburo sovietico. Siamo abituati a pensare che il Politburo fosse composto da grigi burocrati privi di fantasia, ma erano burocrati che osavano fare sogni sbalorditivi. Il sogno della rivoluzione mondiale era solo il primo. È anche vero che per la maggior parte quei sogni (cambiare il corso dei fiumi e roba del genere) si rivelavano disastrosi per la società e l'ambiente oppure, come lo staliniano Palazzo dei Soviet di cento piani o la statua di Lenin alta venti piani, non si concretizzarono mai.
Dopo i successi iniziali del programma spaziale sovietico, pochi di quei progetti furono realizzati, ma la leadership non smise mai di presentarne di nuovi. Perfino negli anni ottanta, quando gli Stati Uniti facevano un ultimo estremo tentativo con il progetto Star Wars, i sovietici progettavano di trasformare il mondo con la tecnologia. Pochi, fuori della Russia, si ricordano della maggior parte di quei progetti, ai quali erano state destinate enormi risorse. Vale la pena di notare come, a differenza del progetto Star Wars, che era studiato proprio per mandare a fondo l'Unione Sovietica, la maggior parte degli altri non era di natura militare, per esempio il tentavo di risolvere il problema della fame nel mondo coltivando nei laghi e nei mari un batterio commestibile chiamato spirulina, o di superare il problema dell'energia mondiale mettendo in orbita centinaia di gigantesche centrali solari e da lì irradiare elettricità sulla terra.
La vittoria americana nella gara spaziale ha comportato il fatto che dopo il 1968 i progettisti degli Stati Uniti non presero più seriamente la competizione. Per questo, anche se non è scomparsa la mitologia dell'ultima frontiera, la direzione della ricerca ha preso altre strade rispetto a quelle che potrebbero portare alla creazione di basi su Marte o di fabbriche robotizzate.
La ricerca strumentalizzata
L'interpretazione standard dice che tutto questo sarebbe stato un esito del trionfo del mercato. Il programma Apollo era un grande progetto pubblico, di ispirazione sovietica, nel senso che imponeva uno sforzo nazionale coordinato da burocrazie pubbliche. Appena scomparve con certezza dal quadro la minaccia sovietica, però, il capitalismo fu libero di tornare a linee di sviluppo tecnico più confacenti ai suoi soliti dettami, favorevoli al decentramento e al libero mercato, quali la ricerca privata per lo sviluppo di prodotti commerciabili come il personal computer. È questa la linea presa tra gli anni settanta e ottanta da personaggi come Toffler e Gilder.
In realtà gli Stati Uniti non hanno mai abbandonato i progetti pubblici di dimensioni colossali per lo sviluppo tecnologico. Per lo più sono diventati progetti militari, e non solo quelli di stile sovietico come Star Wars, ma per armamenti, per tecnologie di sorveglianza e comunicazione e per analoghe finalità legate alla sicurezza.
In una certa misura è sempre stato così: i miliardi riversati per la ricerca missilistica erano sempre andati a detrimento del programma spaziale. Tuttavia, dagli anni settanta perfino le ricerche di base finivano per essere condotte assecondando le priorità militari. Una delle ragioni per cui non abbiamo fabbriche robotizzate è che circa il 95 per cento dei finanziamenti per la ricerca nel campo della robotica veniva distribuito attraverso il Pentagono, che è più interessato a sviluppare droni senza pilota che cartiere automatizzate.
Si potrebbe obiettare che anche la svolta delle ricerche verso lo sviluppo dell'informatica e della medicina non è tanto stato un riorientamento imposto dal mercato verso prodotti di consumo, quanto un aspetto dell'impegno a tutto campo teso a umiliare tecnicamente l'Unione Sovietica per una vittoria totale nella guerra di classe globale, vista contemporaneamente come imposizione del dominio militare assoluto degli Stati Uniti all'esterno e, all'interno, come sconfitta palese dei movimenti sociali.
Perciò le tecnologie che hanno prevalso si sono dimostrate più idonee alla sorveglianza, alla disciplina del lavoro e al controllo sociale. I computer hanno aperto certi spazi di libertà, ma invece di condurci all'utopia di un mondo senza lavoro immaginata da Abbie Hoffman, sono stati utilizzati in modo da produrre l'effetto contrario. Hanno favorito la finanziarizzazione del capitale che ha fatto affondare disperatamente nei debiti i lavoratori e, nello stesso tempo, ha offerto ai padroni i mezzi per creare un regime di occupazione “flessibile” che hanno da un lato cancellato la tradizionale sicurezza del posto di lavoro e dall'altro allungato l'orario lavorativo quasi per tutti. Accanto all'esportazione di posti di lavoro in fabbrica, il nuovo regime ha soffocato il movimento sindacale e ha distrutto qualsiasi possibilità di un'efficace politica di classe.
Al contempo, malgrado gli investimenti mai visti per la ricerca e in biologia, stiamo ancora aspettando terapie per il cancro e per il normale raffreddore, mentre le novità più spettacolari che abbiamo visto in campo sanitario hanno preso la forma di medicinali come il Prozac, lo Zoloft, o il Ritalin, pensati su misura per fare sì che le nuove esigenze lavorative non ci rendano completamente e disfunzionalmente pazzi.
Con risultati del genere, come suonerà l'epitaffio del neoliberismo? Io credo che gli storici arriveranno a concludere che sia stato una forma di capitalismo che dava sistematicamente la priorità agli imperativi politici rispetto a quelli economici. Dovendo scegliere tra una linea d'azione che facesse sembrare il capitalismo l'unico sistema economico possibile e una che lo trasformasse in un sistema economico vivibile sul lungo periodo, il neoliberismo opta immancabilmente per la prima opzione.
Ci sono tutte le ragioni per credere che la distruzione della garanzia del posto di lavoro, mentre si allungano gli orari lavorativi, non crea una manodopera più produttiva (e ancor meno innovativa e leale). Probabilmente il risultato, in termini economici, è negativo, e l'impressione è confermata dai minori tassi di crescita in quasi ogni parte del globo negli anni ottanta e novanta.
Ma la scelta neoliberista è riuscita a depoliticizzare i lavoratori e a surdeterminare il futuro. Economicamente una crescita degli eserciti, dalla polizia e dei servizi di sicurezza privati rappresenta un peso morto. È infatti possibile che proprio il peso morto dell'apparato creato per assicurare la vittoria ideologica del capitalismo sia quello che lo farà affondare. Ma è anche facile vedere come il soffocamento di qualunque senso di un inevitabile futuro di riscatto, che sia diverso dal mondo presente, sia un elemento cruciale del progetto neoliberista.
A questo punto sembrerebbe che tutti i pezzi tornino ordinatamente al loro posto. Dagli anni sessanta le forze politiche conservatrici erano sempre più preoccupate per gli effetti socialmente devastanti del progresso tecnico e i padroni cominciavano a temere l'impatto economico della meccanizzazione. Mentre la minaccia sovietica evaporava, si rendeva possibile una nuova allocazione di risorse in direzioni considerate meno problematiche per le soluzioni sociali ed economiche, anzi capaci di sostenere una campagna per rovesciare le conquiste dei movimenti sociali progressisti e assicurare una vittoria decisiva in quella che la classe dirigente americana considerava una guerra di classe globale. Le nuove priorità furono presentate come una marcia indietro dei grandi progetti pubblici e un ritorno al mercato, ma in realtà il cambiamento spostava le ricerche gestite dal governo da programmi come quelli della NASA o delle fonti energetiche alternative a favore di progetti militari, informatici o sanitari.
Certo, questo non spiega ogni cosa. Sopratutto non spiega come mai, perfino nelle zone dove si sono concentrati i progetti di ricerca meglio finanziati, non abbiamo niente che assomigli alle invenzioni profetizzate cinquant'anni fa. Se il 95 per cento delle ricerche in robotica riceve finanziamenti dal settore militare, dove sono gli androidi killer alla Klaatu (Ultimatum alla Terra) che emettono raggi mortali dagli occhi?
Ci sono stati ovviamente progressi della tecnologia militare degli ultimi decenni. Una delle ragioni per cui siamo sopravvissuti alla Guerra Fredda è che, mentre le bombe nucleari potevano funzionare come era propagandato, non così era per il sistema che sarebbe servito a lanciarle. I missili balistici intercontinentali non erano in grado di colpire le città, per non parlare di obiettivi mirati dentro le città, e questo fatto significava che aveva poco senso infiggere un primo colpo nucleare, a meno che non si avesse l'intenzione di distruggere il mondo.
Gli attuali missili Cruise sono precisi in confronto, tuttavia le armi di precisione non sembrano capaci di assassinare individui specifici (Saddam, Osama, Gheddafi) anche se vengono lanciate a centinaia. E i cannoni a raggi non si sono materializzati, sicuramente non perché non ci siano stati tentativi per farli. Possiamo presumere che il Pentagono abbia speso miliardi per la ricerca del raggio della morte, ma tutto quello che è riuscito ad avere sono laser che potrebbero, se armati in modo corretto, accecare un cecchino nemico che fissi direttamente il raggio. Oltre a essere poco sportiva, il laser è un'arma patetica: è una tecnologia degli anni cinquanta. I phaser che servirebbero a stordire non sono nemmeno stati disegnati; se poi parliamo dei combattimenti di fanteria, l'arma preferita dovunque resta l'AK-47, un progetto sovietico che prende la sigla dall'anno in cui fu introdotto: 1947.
Internet è un'innovazione notevole, ma qui parliamo di una combinazione ultrarapida e globalmente accessibile di biblioteca, ufficio postale e catalogo per spedizioni postali. Se la Rete fosse stata descritta a un appassionato di fantascienza degli anni cinquanta e sessanta, e presentata come la più spettacolare conquista tecnologica dai suoi tempi, la sua reazione sarebbe stata di delusione. Cinquant'anni e questo è il meglio che i nostri scienziati sono riusciti a combinare? Noi ci aspettavamo computer pensanti!
Nel complesso i finanziamenti per la ricerca sono aumentati vistosamente dagli anni settanta, e bisogna ammettere che la percentuale di quelli che provengono dal settore privato è aumentata ancor più vistosamente, al punto che oggi le imprese private investono nella ricerca il doppio del settore pubblico, ma l'aumento è tale che la somma totale delle risorse pubbliche per la ricerca, in termini reali, è molto più altra rispetto a quella che era negli anni sessanta. Le ricerche di base, quelle indotte dalla pura curiosità e senza un obiettivo specifico e non hanno in vista nessuna applicazione pratica, che sono quelle che più probabilmente possono portare a una scoperta imprevista, ricevono una percentuale ancor più piccola dei finanziamenti, anche se oggi il denaro che viene riversato è tanto che anche le ricerche di base hanno visto un aumento delle risorse loro destinate.
Eppure gran parte degli esperti concorda nel dire che i risultati sono stati scarsi. Di sicuro non vediamo niente che assomigli al flusso continuo di rivoluzioni concettuali (ereditarietà genetica, relatività, psicoanalisi, meccanica quantistica) cui la gente si era abituata (e che si aspettava di vedere) un secolo fa. Perché?
La corsia preferenziale della “big science”
La riposta riguarda in parte la concentrazione di risorse verso un numero limitato di progetti colossali, “big science”, come la si chiama. Spesso si addita come esempio il “Progetto genoma umano”. Dopo una spesa di quasi tre miliardi di dollari, con l'impiego di migliaia di scienziati e tecnici di cinque diversi paesi, è sopratutto servito a stabilire che non c'è molto da imparare sequenziando i geni. Per giunta, lo scalpore e l'investimento politico che stanno intorno a tali progetti, dimostrano fino a che punto perfino la ricerca di base appaia pilotata da interessi politici, amministrativi e commerciali che rendono improbabile la possibilità che ne nasca alcunché di rivoluzionario.
Il fascino per le mitiche origini della Silicon Valley e di Internet ci ha in questo caso resi ciechi davanti alla realtà. Ci ha indotto a immaginare che la ricerca e lo sviluppo siano oggi pilotati soprattutto da piccoli gruppi di arditi imprenditori o da una collaborazione decentrata come quella che crea software open-source. Non è così, anche se è più probabile che sia un piccolo team a produrre risultati. Ricerca e sviluppo si svolgono sempre secondo giganteschi progetti burocratici
Quella che è cambiata è la cultura burocratica. Il crescente intreccio tra Stato, università e imprese private ha indotto tutti ad adottare il linguaggio, la sensibilità e le forme organizzative che provengono dal mondo imprenditoriale. Se ciò è forse servito a creare prodotti commerciabili, perché è per questo che sono fatte le burocrazie aziendali, per quello che riguarda il sostegno alle ricerche originali, i risultati sono catastrofici.
Le mie conoscenze vengono da università degli Stati Uniti e dell'Inghilterra. In entrambi i paesi gli ultimi trent'anni hanno visto una vera e propria esplosione della percentuale delle ore lavorative destinate a compiti amministrativi a spese di tutto il resto. Nella mia università, per esempio, abbiamo più amministratori che membri di facoltà, e da questi ultimi, per giunta, ci si aspetta un impegno di ore dedicate all'amministrazione almeno pari a quelle destinate alla didattica e alla ricerca sommate insieme. Le cose vanno così, più o meno, in tutte le università del mondo.
L'aumento del lavoro amministrativo è un esito diretto dell'introduzione delle tecniche di gestione d'impresa. Invariabilmente queste sono fatte passare come strumenti per migliorare l'efficienza e per introdurre la competizione a qualsiasi livello. Quello che a conti fatti significano in pratica è che tutti finiscono per dedicare gran parte del proprio tempo nel tentativo di vendere qualcosa: proposte di mutui, offerte di libri, valutazione di posti per studenti e richieste di finanziamenti, valutazione dei nostri colleghi, prospetti di specializzazioni interdisciplinari, istituti, workshop e conferenze, le università stesse (che sono ormai diventate marchi da promuovere presso potenziali studenti e finanziatori) e così via.
Mentre soffoca la vita universitaria, il marketing genera documenti per favorire la fantasia e la creatività che potrebbero benissimo essere studiati per soffocare nella culla immaginazione e creatività. Negli ultimi trent'anni, negli Stati Uniti, non è spuntato nemmeno un solo lavoro importante di teoria sociale. Siamo ridotti all'equivalente della scolastica medievale: si scrivono infiniti commenti alla French Theory degli anni settanta, malgrado la colpevole consapevolezza che se oggi comparissero nel mondo accademico incarnazioni di un Deleuze, di un Bourdieu o di un Foucault, negheremmo loro ogni credito.
Ci fu un tempo in cui l'accademia era un riparo dalla società per personalità eccentriche, brillanti e prive di senso pratico. Oggi per lo più languiscono nello scantinato della casa materna e, nel migliore dei casi, fanno qualche intervento, acuto ma estemporaneo, su Internet.
Questo quadro è veridico per le scienze sociali, dove la ricerca è portata avanti con costi minimi e in gran parte da singoli: possiamo immaginarci come sia molto peggiore la situazione per gli astrofisici. In effetti un astrofisico, Jonathan Katz, ha esortato gli studenti a pensarci bene prima di orientarsi verso una carriera scientifica. Anche chi emerge dal solito decennio di patimenti facendo il tirapiedi di qualcuno, sostiene Katz, dovrà aspettarsi che le proprie idee migliori siano continuamente ostacolate: “Passerete tutto il tempo a scrivere proposte invece di fare ricerca. Per giunta, siccome le vostre proposte sono giudicate dai vostri concorrenti, non potrete assecondare la vostra curiosità, ma dovrete investire energia e ingegno per prevedere ed evitare le critiche e non per risolvere importanti problemi scientifici... è un fatto risaputo che le idee originali sono il bacio della morte per una proposta, perché non si è ancora dimostrato se funzionano.”
Questa considerazione è una discreta risposta alla domanda del perché non disponiamo di dispositivi per il teletrasporto e di scarpe antigravità. Il senso comune ci dice che se vogliamo far esprimere al massimo la creatività scientifica, dobbiamo trovare persone brillanti, offrire loro le risorse necessarie per perseguire qualsiasi idea abbiano in mente, e lasciarle fare da sole. Nella maggior parte dei casi non ne uscirà niente, ma uno o due potrebbero scoprire qualcosa. Se vogliamo invece ridurre al minimo le possibilità di innovazioni impreviste, dobbiamo dire a queste persone che non riceveranno niente a meno che non impieghino quasi tutto il tempo a farsi concorrenza tra di loro per convincerci che sanno già che cosa scopriranno. Nelle scienze naturali, alla tirannia manageriale si aggiunge la privatizzazione dei risultati delle ricerche.
Come ci ha ricordato l'economista inglese David Harvie, le ricerche open source non sono una novità. Le ricerche colte sono sempre state open source, nel senso che gli studiosi condividono materiali e risultati. C'è competizione, certo, ma ha un carattere “conviviale”. Questo però non è più vero per gli scienziati che lavorano nel settore privato, dove le scoperte sono gelosamente custodite, ma la propagazione dell'etica aziendale nelle università e negli istituti di ricerca ha fatto sì che perfino gli studiosi che godono di finanziamenti pubblici trattino le proprie scoperte come proprietà personali.
L'innovazione a fruibilità ridotta
L'editoria accademica fa in modo che le scoperte che sono pubblicate siano sempre più di difficile accesso, limitando ulteriormente la comunità scientifica. Per questo la competizione amichevole e open source si trasforma in qualcosa che assomiglia sempre di più alla classica concorrenza di mercato. Esistono molte forme di privatizzazione, fino a comprendere l'acquisto e l'eliminazione di scoperte scomode da parte di grandi imprese che paventano gli effetti economici (non possiamo sapere quante formule di carburanti sintetici siano state comprate dalle compagnie petrolifere e poi chiuse in cassaforte, ma è difficile credere che casi del genere non si siano mai verificati). C'è un modo più raffinato con il quale l'etica aziendale scoraggia tutto ciò che è audace o eccentrico, soprattutto se non esistono prospettive di risultati immediati. Stranamente anche Internet può aggravare il problema. Così lo spiega Neal Stephenson: “La maggioranza delle persone che lavora nelle imprese private o all'università ha vissuto un'esperienza come questa: un certo numero di tecnici è seduto insieme in una stanza e si scambia idee. Dalla discussione spunta un nuovo concetto che sembra promettente. Poi qualcuno, con il portatile sulle ginocchia, in un angolo della stanza, dopo aver fatto una rapida ricerca su Google, comunica che quell'idea “nuova” è in realtà vecchia; in quella forma o in una vagamente simile è già stata tentata, è andata male o ha avuto successo. Se è andata male, nessun manager che vuole conservarsi il posto approverà una spesa nel tentativo di farla rivivere. Se ha avuto successo, sarà stata brevettata e si presume che non sia possibile metterla sul mercato, perché le prime persone che l'hanno pensata avranno il vantaggio della prima mossa e avranno creato barriere per ostacolare gli eventuali concorrenti. Le idee apparentemente promettenti che sono state bocciate in questo modo si possono contare a milioni. Così uno spirito pavido e burocratico soffonde ogni aspetto della vita culturale. Il suo linguaggio si adorna di parole come orpelli: creatività, iniziativa, imprenditorialità. Ma è un linguaggio privo di significato. I pensatori che con maggiori probabilità possono fare un'innovazione concettuale sono quelli che più difficilmente riceveranno finanziamenti e, se l'innovazione arriva, difficilmente troveranno qualcuno disposto a darne seguito nelle più ardite implicazioni.
Giovanni Arrighi ha osservato che dopo la crisi della South Sea Company nel 1720 il capitalismo britannico aveva in prevalenza abbandonato la forma della corporate. Nel periodo della Rivoluzione Industriale, l'Inghilterra si affidava a una combinazione tra alta finanza e piccole imprese familiari, con una formula che funzionò per un intero secolo, nel periodo della massima innovazione scientifica e tecnica (la Gran Bretagna dell'epoca era anche nota per la sua generosità nei confronti di persone stravaganti ed eccentriche quanto l'America di oggi è intollerante. Un normale espediente era di permettere che costoro facessero i parroci di campagna, i quali, com'era prevedibile, furono i principali inventori dilettanti di scoperte scientifiche).
Il capitalismo burocratico delle grandi imprese contemporanee non è figlio dell'Inghilterra, ma degli Stati Uniti e della Germania, le due potenze rivali che hanno passato la prima metà del secolo scorso a combattere due guerre sanguinose per decidere chi avrebbe preso il posto della Gran Bretagna come prima potenza mondiale, guerre che sono culminate, in modo alquanto appropriato, nei programmi scientifici finanziati dallo Stato per vedere chi avrebbe realizzato per primo la bomba atomica.
È allora significativo il fatto che l'attuale stagnazione tecnologica sembra essere cominciata nel 1945, quando gli Stati Uniti hanno rimpiazzato la Gran Bretagna nel ruolo di organizzatori dell'economia mondiale. Gli americani non amano vedersi come una nazione di burocrati (tutto il contrario) ma nel momento in cui smettiamo di immaginarci la burocrazia come un fenomeno confinato negli uffici pubblici, appare evidente che sono diventati proprio così. La vittoria finale sull'Unione Sovietica non ha portato al dominio del mercato, ma, in realtà, ha cementato l'egemonia delle élite manageriali conservatrici, burocrati aziendali che sfruttano il pretesto della rapidità, della competizione, del profitto per reprimere tutto quello che potrebbe avere una qualsiasi implicazione rivoluzionaria.
Se non ci accorgiamo di vivere in una società burocratica, è perché le norme e le pratiche burocratiche sono diventate talmente pervasive che non riusciamo più a notarle o, peggio ancora, non riusciamo a immaginarci di poter fare le cose in un'altra maniera.
I computer hanno svolto un ruolo fondamentale per limitare la nostra immaginazione sociale. Come l'invenzione di nuove forme di automazione industriale nel Settecento e nell'Ottocento aveva avuto l'effetto paradossale di trasformare gran parte della popolazione mondiale in operai a tempo pieno, il software pensato per alleviarci dalle responsabilità amministrative, ci ha trasformato in amministratori full-time o part-time. Come i docenti universitari, a quanto pare, ritengono inevitabile destinare più tempo alla gestione delle sovvenzioni, così le madri di famiglia benestanti accettano senza protestare di dedicare settimane tutti gli anni alla compilazione di formulari di quaranta pagine per iscrivere i figli alla scuola elementare. Tutti quanti impieghiamo sempre più tempo a inserire password sul cellulare, a gestire il conto in banca e la carta di credito, a svolgere mansioni che un tempo spettavano agli agenti di viaggio, ai broker, ai contabili.
Il tramonto delle tecnologie poetiche
Qualcuno una volta ha calcolato che l'americano medio passerà sei mesi della propria vita in attesa di un semaforo verde. Non so se esistano cifre simili per il tempo impiegato a riempire moduli, ma dovrebbe essere almeno altrettanto lungo. Nessun popolo nella storia ha mai speso tanto tempo su pezzi di carta.
In questa fase finale e rincretinente del capitalismo stiamo passando da tecnologie poetiche a tecnologie burocratiche. Per tecnologie poetiche intendo l'impiego di mezzi logici e tecnici che traducono le più folli fantasie in realtà. Le tecnologie poetiche, così intese, esistono da quando esiste la civiltà. Lewis Mumford ha osservato che le prime macchine complesse erano fatte di esseri umani. I faraoni egizi riuscirono a innalzare le piramidi solo grazie alla loro capacità di gestire le procedure amministrative, che rese loro possibile lo sviluppo di tecniche di produzione in linea, suddividendo complicate mansioni tra dozzine di operazioni semplici e assegnandone ognuna a una squadra di operai, anche se non disponevano di tecnologie meccaniche più complesse del piano inclinato e della leva. La sovrintendenza amministrativa trasformò eserciti di contadini in ingranaggi di un vasto macchinario. Molto tempo dopo, con l'invenzione degli ingranaggi, il progetto di meccanismi complessi elaborò i principi sviluppati in origine per organizzare le persone.
Credenze infondate sul capitalismo
Eppure abbiamo visto come quelle macchine, con parti in movimento
che potevano essere torsi e braccia oppure pistoni, ruote e
molle, venissero fatte funzionare per realizzare fantasie impossibili:
cattedrali, veicoli lunari, ferrovie transcontinentali. Certo,
le tecnologie poetiche hanno un lato terribile: la poesia può
produrre un'officina buia e infernale come può regalare
la grazia della liberazione. Ma le tecniche razionali e amministrative
sono sempre state al servizio di qualche obiettivo fantastico.
In quest'ottica tutti quei folli progetti sovietici (anche se
mai realizzati), hanno segnato il culmine delle tecnologie poetiche.
Ora abbiamo il contrario. Non che le visioni, la creatività
e le folli fantasie non siano più incoraggiate, ma per
lo più restano in uno stato etereo: non c'è più
nemmeno la pretesa che un giorno possano prendere forma e corpo.
La nazione più grande e più potente che sia mai
esistita ha passato gli ultimi decenni a raccontare ai suoi
cittadini che non possono più contemplare fantastiche
imprese collettive, anche se, come imporrebbe la crisi dell'ambiente,
il fato della Terra dipende da questo.
Dal punto di vista politico, quali sono le implicazioni? Prima
di tutto dobbiamo riconsiderare alcune nostre tesi di fondo
sulla natura del capitalismo. Una è che il capitalismo
coinciderebbe col mercato, e che entrambi perciò sarebbero
nemici della burocrazia, che a sua volta sarebbe una creatura
dello Stato.
La seconda tesi è che il capitalismo sarebbe per propria
natura votato al progresso tecnologico. Sembrerebbe che Marx
ed Engels, abbagliati dalle rivoluzioni industriali dei loro
tempi, si siano sbagliati a riguardo. Ovvero, per essere più
precisi, avevano ragione a sostenere che la meccanizzazione
della produzione industriale avrebbe distrutto il capitalismo,
si sbagliavano nel dire che la concorrenza di mercato avrebbe
comunque spinto i proprietari delle fabbriche a meccanizzare.
Se non è successo, è in ragione del fatto che
la concorrenza di mercato non è così essenziale
per la natura del capitalismo come loro presumevano. Se non
altro, il capitalismo attuale, dove molta concorrenza sembra
prendere la forma di marketing all'interno delle strutture burocratiche
di grandi imprese semi-monopolistiche, risulterebbe una totale
sorpresa per loro.
I sostenitori del capitalismo gli assegnano tre grandi meriti
storici: uno, di avere favorito una rapida crescita scientifica
e tecnica, due, che pur concentrando enormi ricchezze in poche
mani, ha fatto in modo di aumentare il benessere generale, e
tre, che, così facendo, rende il mondo più sicuro
e più democratico per tutti. È evidente che il
capitalismo non fa più niente di questo. In realtà
molti suoi difensori rinunciano a sostenere che sia un buon
sistema e si limitano a dire che è l'unico sistema possibile
o, almeno, l'unico possibile in una società complessa,
tecnologicamente sofisticata come la nostra.
Ma come si fa a sostenere che le attuali soluzioni economiche
siano anche le uniche che saranno sempre praticabili in qualsiasi
futura società tecnologica? È un ragionamento
assurdo. Come può chiunque averne la certezza?
Eppure c'è gente che prende una posizione del genere,
da entrambi i lati dell'arco politico. In quanto antropologo
e anarchico, io incontro tipi ostili alla civiltà i quali
affermano non solo che l'attuale tecnologia industriale produrrà
soltanto un'oppressione dai tratti capitalistici, ma che questo
sarà necessariamente vero anche per qualsiasi tecnologia
futura, e che pertanto la liberazione dell'uomo sarà
raggiungibile solo con un ritorno all'Età della Pietra.
La maggior parte di noi non è determinista rispetto alla
tecnologia. Ma le affermazioni sull'inevitabilità del
capitalismo non devono basarsi su un determinismo tecnologico.
E per questa stessa ragione, se il suo fine è di creare
un mondo nel quale nessuno crede che un altro sistema economico
possa funzionare, il capitalismo neoliberista ha bisogno di
eliminare non solo qualsiasi idea di un inevitabile futuro di
redenzione, ma anche di qualsiasi futuro tecnologico radicalmente
diverso. Ma c'è una contraddizione. I sostenitori del
capitalismo non possono volerci convincere che non ci sarà
più un cambiamento tecnologico, perché questo
vorrebbe dire che il capitalismo non porta al progresso. No,
essi vogliono convincerci che il progresso tecnico continua,
che viviamo in un mondo di meraviglie, ma che tali meraviglie
prendono la forma di modeste migliorie (il nuovo iPhone!), di
voci riguardo a nuove stupefacenti invenzioni (“Ho sentito
dire che in breve tempo disporremo di automobili volanti!”),
di mezzi complessi per giocare con informazioni e immagini e
di piattaforme ancor più complesse per compilare moduli
e questionari.
Non voglio che si pensi che il capitalismo neoliberista, come
qualunque altro sistema, possa davvero riuscire in questo intento.
Prima di tutto, c'è il problema di cercare di convincere
il mondo che lo si sta guidando verso un progresso tecnico,
mentre lo si fa arretrare. Gli Stati Uniti, con la loro infrastruttura
fatiscente, con la paralisi davanti al riscaldamento globale
e l'abbandono, simbolicamente devastante, del loro programma
di voli umani nello spazio, proprio mentre la Cina accelera
il proprio, stanno facendo un lavoro di pubbliche relazioni
davvero scadente. In secondo luogo, non si possono bloccare
per sempre i cambiamenti. Ci saranno nuove rivoluzionarie scoperte,
anche se scomode, e non sarà possibile eliminarle per
sempre. Altre parti del mondo, meno burocratizzate (o almeno
con burocrazie non tanto ostili al pensiero creativo) pian piano
ma inevitabilmente avranno le risorse necessarie per ripartire
da dove gli Stati Uniti e i loro alleati si sono fermati. Internet
offrirà opportunità per collaborare e diffondere
idee che ci aiuteranno ad abbattere il muro. Dove avverrà
questa svolta rivoluzionaria? Non lo sappiamo. Può darsi
che la stampa a 3D farà quello che si pensava avrebbero
fatto le fabbriche robotizzate. O magari sarà qualcos'altro.
Ma succederà.
Di una conclusione possiamo sentirci abbastanza sicuri: non
succederà nel contesto del capitalismo d'impresa contemporaneo,
né in una qualsiasi forma di capitalismo. Per cominciare
a costruire cupole su Marte, per non dire di sviluppare i mezzi
per immaginarsi se ci sono civiltà aliene con cui entrare
in contatto, dobbiamo prima immaginare un diverso sistema economico.
Dovrà prendere la forma di una nuova ingombrante burocrazia?
Perché lo pensiamo? Possiamo cominciare solo abbattendo
le strutture burocratiche esistenti. E se abbiamo l'intenzione
di inventare robot che facciano il bucato e puliscano in cucina,
dovremo assicurarci che qualunque sistema prenda il posto del
capitalismo si basi su una distribuzione più equa delle
ricchezze e del potere, un sistema che non comprenda più
persone straricche e altre disperatamente povere, disposte a
fare le pulizie nelle case delle prime. Solo allora la tecnologia
comincerà a indirizzarsi verso i bisogni degli esseri
umani. E questa è la migliore ragione per sbarazzarci
della manomorta dei manager e degli amministratori dei fondi
d'investimento: per liberare le nostre fantasie dalle gabbie
dove quegli uomini le hanno imprigionate, perché la nostra
immaginazione ricominci a essere una forza materiale della storia
umana.
David Graeber
traduzione di Guido Lagomarsino
originariamente apparso sulla rivista The Baffler con
il titolo Of flying cars and the declining rate of profit
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