Rivista Anarchica Online
La nuova utopia
di Carlos A. Sabino
Per il 26-27 settembre il Centro Studi Libertari "Pinelli" di Milano (viale Monza 255,
20126 Milano) ha promosso un convegno di studi sul tema "La funzione dell'utopia". Tra i
primi contributi al dibattito è pervenuta questa relazione di Carlos Sabino, argentino,
profugo in Venezuela da diversi anni. All'università di Caracas, Sabino insegna scienze
sociali, insieme con Diaz, ha pubblicato otto anni fa il volume La dictatura de la tecnocracia
(Edizioni Proyeccion, Buenos Aires 1973).
Fuori dal tempo misurato, al di là dei giorni numerati, degli anni futuri o passati, qualunque
progettualità soccombe. Se il progetto è un tentativo di assoggettare a qualche volontà gli
infiniti
e variabili eventi possibili, se è uno sforzo per dirigere la nostra energia incanalandola in qualche
meta definita, allora il progetto non può sopravvivere al di là dell'orizzonte temporale che
conosciamo. Subito l'intrecciarsi dei fatti, la molteplicità delle possibilità che si incrociano,
amplificano o annullano, rende impossibile qualsiasi progettualità razionale. Fino a questo punto
arrivano i tecnici: pur oltre, fuori di dubbio, inizia l'ambito indeterminato degli utopisti. L'utopia cresce
così in un terreno aperto, non regolato dalle leggi fisiche o sociali, e ci si presenta
come una creazione libera dello spirito. Più questa libertà non è assoluta, più
può essere
ingannevole supporre che chi la pensa, chi la sogna, si trova anch'esso collocato fuori dal tempo.
L'utopista è un essere che vive il mondo dei suoi contemporanei, che è partecipe in qualche modo
dei suoi stessi valori e concetti, che non può sfuggire ai desideri e ai timori del suo tempo. Al
contrario, mentre concepisce un mondo diverso, l'uomo incontra la migliore occasione per
esprimere quello che vive oscuramente dentro di sé e costruisce in modo esternamente coerente i
suoi desideri più profondi, i suoi stati latenti, i suoi presagi più oscuri. Per questo l'utopia è
una
proiezione e non un progetto, una espressione dell'inconscio e non di una volontà razionale, una
finestra aperta sull'interiorità dell'essere umano prima che un programma per la società. Per
questo le utopie possono essere tanto diverse, tanto contrastanti. Si avranno allora utopie statiche, conservatrici,
che immaginano un mondo immutabile, costruito
intorno a qualche "perfezione"; e utopie critiche, che denunciano l'ordine esistente mostrandoci
alcune delle possibilità creative che possediamo, o segnalandoci le atroci conseguenze che
potrebbero generare i mali conosciuti. Le prime saranno i paradisi, gli stati fissi e imperturbabili
costruiti ad esempio da tante religioni, e che per questo hanno sempre finito coll'essere ben poco
suggestivi per i fedeli. Perché niente può obbligare la volontà dell'uomo a uno stato di
assoluto
equilibrio, una realtà sempre identica a se stessa, che esclude il mutabile e quindi la libertà e la
vita. Queste visioni saranno la proiezione fuori dal tempo non di un ordine qualunque, ma di un
ordine determinato, e al limite si convertiranno nella proiezione di qualche forma di ordine
storico: sotto i cieli atemporali della contemplazione di Dio e dei suoi angelici accoliti sarà
presente, implicita, la gerarchia terrena della chiesa; tra le strade regolari della perfetta città
rinascimentale si potrà indovinare la presenza dei borghesi europei, pieni di fede in se stessi. Il pensiero
utopico, però, raccoglierà anche molte altre alternative. Potrà mostrare la possibilità
di
un mondo in cui siano assenti certe oppressioni quotidiane, potrà essere critica - diligente e
indiretta - al potere esistente, o presenterà come un ammonimento le spaventose tendenze in
incubazione nella presente società. Senza dubbio, al di là di tutta questa varietà policroma,
la
parola utopia avrà sempre una carica perturbatrice per chi si sollazza con i privilegi reali e
concreti, rappresenterà una minaccia per chi gode del potere e della ricchezza in quanto postula la
possibilità e il desiderio di una società diversa. Per questo le utopie, senza essere combattute
come le eresie, dovranno sempre essere svalorizzate sdegnosamente da chi governa come
un'infelice follia della mente umana. Per questo, inoltre, qualunque proposta rinnovatrice che
trascenda gli stretti limiti dell'ordinamento vigente sarà disprezzata come utopistica, tentando in
tal modo di evadere la possibilità della sua esistenza concreta e relegandola quindi nella sfera
dell'impossibile.
Il marxismo e l'utopia socialista
L'immenso desiderio di libertà e di giustizia che percorreva - a volte come più di un fantasma
-
l'Europa borghese del secolo passato, si plasmò come un insieme di correnti sociali e di pensatori
individuali che assunsero il nome di socialisti (includiamo nel termine le diverse correnti
anarchiche, comuniste, ecc.). All'interno della sua polifonica ricchezza il socialismo si andò
delineando come una somma di tendenze diverse, a volte nettamente opposte tra di esse, e tra
queste una, il marxismo, assunse, col passare del tempo, una specie di ruolo fondamentale. Però il
marxismo si impegnava - e si impegna ancora - a negare coscientemente qualunque
velleità utopica nel suo discorso, postulandosi invece come il prodotto della scienza, come l'unica
formulazione scientifica del socialismo. Engels non casualmente pubblicò nel 1880 il suo saggio
"Dal socialismo utopico al socialismo scientifico" in cui affermava che quest'ultimo era la
"espressione teorica del movimento proletario", una costruzione scientifica che, sull'analisi dello
sviluppo storico-sociale, ardiva prevedere il futuro con la stessa mancanza di sogno che
caratterizzava la fisica esatta. Sarebbe inutile e faticoso ripetere ora le considerazioni - già
anacronistiche - che supportavano tali affermazioni, mentre ciò che ci interessa di più è di
evidenziare l'attitudine di Engels, come di tutti i marxisti, di fronte alla questione del socialismo:
in essa si legavano indissolubilmente la volontà di costruire una società diversa da quella
capitalista con la fede in ciò che risultava inevitabile, fede che nasceva dalle conoscenze che
l'economia e la socio-politica del suo tempo potevano offrire. Messo al primo posto il valore
della scienza l'utopismo veniva relegato al ruolo di mera fantasia prescientifica, inefficiente e
puramente letteraria. Il progetto storico particolare che i marxisti difendevano si ricopriva quindi
degli attributi indiscutibili della scienza per superare tutti i tentativi precedenti e erigersi
infallibile nella misura in cui si basava sulla ragione e non sul desiderio. Esisteva una
convinzione, crediamo sincera, che a partire dalle conoscenze e dalle analisi storico-sociali era
possibile dare uno sbocco pratico ed effettivo al sogno egualitario e libertario degli oppressi. La
vittoria del mondo nuovo, quindi, era già contenuta in germe nello sviluppo dialettico del
capitalismo. A prescindere dalle sue pretese di scientificità, il marxismo non era, certamente, solo
scienza.
Senza occuparci qui di determinare l'indubitabile apporto di Marx alle scienze sociali, e
accettando a priori che esso sia stato considerevole, esiste nel marxismo un residuo, un elemento
irriducibile al pensiero razionale che ne fece un movimento sociale importante, internazionale,
che suscitò adesioni militanti, odio ed entusiasmo. Oltre le formule sul plus-valore e sul valore di
scambio, oltre i fondamenti di una sociologia o una teoria dello stato v'era una volontà di azione,
una proposta di cambiamento che pretendeva di portare la società a una meta superiore.
Costituiva, tutto questo, una utopia? Non è facile rispondere in un solo modo, affermativo o
negativo. Quello che è certo è che, in ogni caso, si trattava di un'utopia che negava
dichiaratamente il suo essere tale, che faceva i massimi sforzi possibili per affermarsi come pura
deduzione di una nuova scienza. Il marxismo si poneva una meta lontana, alla quale si alludeva con fermezza
ma nebulosamente:
era la visione di una società senza classi e senza sfruttamento, il regno dell'abbondanza e del
lavoro creativo, della fine della coercizione e della violenza e dell'uomo libero che avrebbe
potuto superare la "preistoria" del suo vivere in miseria. Era in realtà lo stesso ideale dei
rivoluzionari dell'89, affinato e arricchito da due generazioni di ribelli e di teorici e condiviso in
linea generale da tutti i socialisti di quel tempo. Erano le linee maggiori di un'utopia che,
deliberatamente, i marxisti si rifiutavano di precisare. Però insieme a questa immagine del
lontano futuro raggiungibile si postulava una via, molto più concreta e determinata, che si
presentava come il corollario della ricerca scientifica e storica. Era il mezzo, a volte desiderato o
inevitabile, per raggiungere l'obiettivo finale: l'organizzazione del proletariato come classe, la sua
rivoluzione contro il sistema, la dittatura del proletariato, l'appropriazione di tutte le ricchezze
produttive da parte dello stato "in nome di tutta la società", la pianificazione dell'economia, ecc.. Quindi,
per i marxisti, si verificava una felice coincidenza tra le aspirazioni ultime e il decorso
prevedibile della storia: la meta finale dei sognatori utopisti poteva avvicinarsi solo utilizzando
una serie di mezzi che, a loro volta, nascevano dallo sviluppo delle contraddizioni sociali. Le
tappe previste non erano tracciate da nessuna fantasia esaltata, bensì dalla fredda analisi
dialettica: la stessa necessità implicita nelle leggi che governavano lo svolgimento sociale dava
impulso alle trasformazioni rivoluzionarie anelate e intraviste da tutti i socialisti. Quindi non era
compreso il diritto ad essere utopico, bensì si era obbligati a comprendere positivamente lo
spirito della scienza moderna. L'utopia si cancellava così da sola, si mostrava vuota, inoperante,
inutile. L'illusione della scienza, oggi lo possiamo dire, sembrava superare il desiderio
soggettivo, lo occultava allo sguardo inquisitore dei critici. Il mito si affermava sotto l'aureola
intangibile della scienza e su di essa si dispiegava come fervente crociata, basata su una fede che
si vanagloriava della sua razionalità. Proprio per questo il marxismo non poteva essere
indifferente alla storia, come lo erano state le religioni e i miti antecedenti. Aspirava non solo ad
avere ragione ma anche a detenere il potere effettivo per realizzare il suo progetto. Doveva
impadronirsi dello stato per iniziare la marcia verso il socialismo che pretendeva di costruire. E
lo ha fatto.
La critica alla tecnocratizzazione
Questa non è una storia del marxismo e pertanto ci scusiamo se abbiamo trattato rapidamente
solo alcuni temi che potrebbero essere di indiscutibile interesse. Il fatto è che, trionfante in
Russia, il marxismo ebbe l'opportunità, almeno in teoria, di portare le sue aspirazioni più
profonde sul terreno della pratica. E allora, sullo sfondo sempre più dichiarato degli ideali ultimi,
sorse velocemente un progetto concreto di ordinamento sociale, progetto ripreso, con piccole
varianti, dalle successive rivoluzioni. Convertito in filosofia di un nuovo modello di stato, si
dispiegò completamente il contenuto latente dei suoi presupposti ideologici e divenne così
supporto di una nuova classe emergente, la tecnoburocrazia. La sua carica utopica, velata, come
dicevamo, dalle sue pretese di scientificità, sopravvisse solo in chi militava comunque per una
rivoluzione mondiale, ma dovette piegarsi ai desideri delle nuove élites dominanti adattandosi
alle necessità di chi si afferrava al potere. Il razionalismo conservatore, da cui era tanto
apprezzata l'idea borghese del progresso indefinito, emerse trionfante e lo stesso messaggio
teorico si degradò fino ad un economicismo razionalista e ad un teoricismo sempre meno
creatore. Dalla lotta per il comunismo, visione paradisiaca di libertà e di abbondanza, si passò
in seguito
alla più concreta ricerca del socialismo concepito come obiettivo immediato possibile: da lì,
quando il socialismo apparve troppo utopico per gli ex rivoluzionari convertiti in uomini di stato,
il centro di interesse si spostò su forme di "transizione" al socialismo, o alla battaglia per la più
conosciuta democrazia. L'utopia svaniva, velocemente. Dalla estinzione dello stato e la
sparizione delle classi, dalla presa dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori organizzati, si
passò a obiettivi molto più definiti, molto meno ambiziosi, che negavano l'essenza della
volontà
rivoluzionaria socialista. Così si rafforzò lo stato, trasformato in apparato onnipresente, con la
conseguente necessaria corte di burocrati privilegiati. La statalizzazione dell'economia, la
pianificazione centralizzata e l'enfasi nella tecnicizzazione, produssero una robusta classe
tecnocratica, padrona effettiva dell'apparato produttivo e beneficiaria del lavoro degli sfruttati di
sempre. Se il socialismo, secondo Lenin, poteva essere riassunto nella formula: "Soviets più
elettrificazione", oggi si può constatare che l'URSS ha effettivamente elettrificato, ma che il
potere dei soviet - intesi come espressioni autonome di operai e contadini - fu divorato dalla
macchina centrale del partito molto prima del 1921. La nobiltà terriera e la borghesia proprietaria
furono eliminate come classi sociali, ma la tecnoburocrazia si consolidò come nuova classe
privilegiata occupando il posto degli antichi dominatori. Il centralismo, il disprezzo per
l'individualità, l'ossessivo terrore statale contro qualunque dissidenza, negarono brutalmente gli
illusori discorsi sul "lavoro libero e creativo". Se il marxismo, grazie alla sua vittoria in Russia, arrivò
ad ottenere un monopolio quasi assoluto
sul socialismo rivoluzionario, arrivando a dominare e a imporre i suoi criteri a quasi tutto il
movimento anticapitalista, l'impatto del processo di burocratizzazione fu ampio e profondo
benché i suoi effetti abbiano preso corpo gradualmente. L'utopia socialista, compressa prima
dalle esigenze di una discutibile scientificità e quindi imprigionata da una ideologia legittimatrice
di un nuovo tipo di stato, andò diluendosi senza vigore, rinunciando a presentare un modello
alternativo al mondo del capitalismo. A parte alcuni ovvi miglioramenti in campi specifici come
la sanità, i trasporti o l'educazione, i "socialismi reali" possono offrire ben poco oggi al mondo
capitalista che possa accendere una volontà di vera lotta rivoluzionaria, e anche questo solo in
quelle zone in cui la dipendenza e l'arretratezza economica prospettano con urgenza tali
necessità. Per la classe operaia dei paesi più sviluppati è poco suggestivo un mondo in cui
i
lavoratori continuano ad essere passivi e salariati, in cui non esistono i margini di dissenso che
offrono le nazioni occidentali. Il marxismo ha abbandonato definitivamente i cieli irrealizzabili dell'utopia in
cambio delle cifre
- neanche reali - dei pianificatori. Ha preteso di superare l'illusione, ma ha finito per falsare la
scienza. Per cui oggi, legato ai suoi interessi politici e di classe, ha perso non solo la sua capacità
creativa di spingere verso un mondo migliore, ma anche - e non casualmente - la sua potenzialità
critica, la sua acuta percezione dell'ingiustizia. Come ideologia legittimatrice della
tecnoburocrazia "socialista" è stata incapace di scoprire la tecnocratizzazione del capitalismo, le
sue profonde modificazioni contemporanee, la sempre maggiore estensione del ruolo dello stato
o la complessità che oggi richiede il problema della gestione. E il panorama contemporaneo si oscura
sempre più perché non solo manca una forte ed
emergente utopia egualitaria e libertaria, ma anche perché, invece, l'utopia dominante è quella
reazionaria. È quella che vede nella costante tecnicizzazione, nella soggiogante regolazione
centralizzata della vita, nel conformismo massiccio, nella burocratizzazione e nel mercantilismo
generale non solo l'unico futuro possibile, ma anche l'unico desiderabile. È una meta che si cerca
di imporre con la minor violenza possibile, ancora in funzione di una razionalità difficile da
controbattere, come se attraverso di essa potessimo raggiungere uno stato di dolce e permanente
compiacenza. Si tratta di un'utopia apparentemente progressista ma che con i suoi pacifici tratti
non riesce a dissimulare il fantasma evocato da Orwell in 1984. È il paradiso dei
tecnoburocrati,
la loro limpida, ordinata e statica città ideale, che si estende identica da ambedue i lati del muro
di Berlino. A nulla valgono contro di essa i discorsi sul plusvalore o la proprietà privata dei
mezzi di produzione; a nulla servono le invettive contro la "anarchia" della produzione o le
denunce contro la mancanza di educazione del popolo. Certamente ogni utopia genera una illusoria
felicità irraggiungibile. Ma è anche certo che senza
questa motivazione è impossibile trascendere i limiti dell'azione quotidiana, che questo obiettivo
lontano è necessario per abbandonare il falso realismo, piatto e conservatore, di chi si arroga il
diritto di pianificare in nome della società. Per questo l'utopia non muore mai completamente e si
rende indispensabile in momenti storici come questo in cui il vuoto di obiettivi e di valori si
percepisce con più intensità. Ma è possibile costruire dal nulla una nuova utopia, che
ci proponga un modello - forse
irrealizzabile, ma motivante - alternativo al mondo che i tecnocrati di sinistra e di destra ci stanno
fabbricando? Non sappiamo se è possibile, sappiamo che vale la pena provarci. Perché in ogni
modo il mondo che ci promette l'ordine tecnologico vigente, e che parrebbe ampliarsi e
svilupparsi all'infinito, è un mondo fallace che non può continuare a svilupparsi in questo modo,
dilapidando le energie e le risorse, annullando la capacità creativa degli esseri umani. È un
mondo destinato allo sfacelo, a breve o a lungo termine, che reclama una nuova forma di
organizzazione sociale e nuovi valori. E sappiamo che la gente, anche se non si ribella, non è
comunque in sintonia con questo paradiso di dolce apparenza, che i desideri di libertà e
autonomia non possono essere previsti come semplici variabili economiche né eliminati
totalmente come dissidenze fastidiose. Per questo abbiamo scritto queste righe, col desiderio di reimpostare il
destino sofferto dalla più
grande utopia di questo secolo. Evidenziando l'urgenza di continuare la critica implacabile alla
società contemporanea, assumendo la necessità di rivelare il contenuto conservatore dei miti del
nostro tempo, cercando nelle sorgenti della eterna ribellione, teorica e pratica, il modo di radicare
una nuova utopia.
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