Rivista Anarchica Online
Quella strana
valle
di Maria Teresa Romiti
L'ultimo libro
di Ursula Le Guin descrive una società al contempo vera ed
irraggiungibile. Ma soprattutto, dietro le vicende dei Kesh e dei
Condor, mette il dito nella piaga del nostro mondo, della nostra
società.
Sarà una valle
tranquilla, felice, pacifica. Il respiro dell'universo, i respiri
delle anime saranno i suoi ritmi, la sua musica. Non sarà però un
mondo di zucchero filato. Ci sarà posto per il dolore, il piacere,
la gioia, l'angoscia. Avrà amicizia, generosità, amore, ma anche
passione, gelosia, odio, pregiudizi, stupidità. Un buon posto per
viverci. L'amo, dell'amore
impossibile di chi sa che il sogno gli è precluso perché io non
potrò mai riposare tra le verdi colline sotto il Monte Sinshan. E
non perché quel mondo è uscito dalla penna di Ursula K. Le Guin
(Sempre la valle, Mondadori, Milano 1986, p. 532, lire 45.000);
la dimensione fantastica ha un suo spazio. Il motivo è più
profondo, più tragico. Quel mondo che ho amato dal primo istante mi
è anche profondamente estraneo. Per me, per noi, uomini del XX
secolo, non c'è spazio tra quelle colline e vicino a quei fiumi.
Siamo troppo diversi, malati di una malattia forse inguaribile e
pericolosa: "...uomini che hanno la testa girata al contrario".
Le porte della valle ci sono chiuse. Ai nostri occhi
appare gentile, pacifica, femminea. E lo è, almeno rispetto alla
nostra cultura, alle nostre decodificazioni, e non lo è per nulla
rispetto alle migliaia di società che hanno popolato questa roccia
vagante nello spazio. È
una società matrilineare, matrilocale, matricentrica; la vita è il
mondo, l'ambiente, il femminile, è dono, scambio, movimento da e
verso il centro, la vita è riflessione, ma è anche vissuto che non
si può spiegare in parole, è mistero, respiro, suono, luce,
oscurità, silenzio. È
il tutto. Una cultura che considera il perno, il centro e il simbolo
dell'universo, del sé la doppia spirale, heyaya-if; ripetuta e
ricopiata in mille forme, il significante e il significato. Una
società che promuove la poesia, la musica, in cui lo studio è
attività quotidiana per tutti, che considera la conoscenza la sola
vera ricchezza, il cui tempo è scandito dalla danza, e che si muove
nel ritmo quotidiano e concreto dell'esistente: coltiva, raccoglie,
alleva, costruisce, distrugge, caccia, produce.
Il mondo al
contrario
Un mondo così
diverso e così uguale, vero. Donne, uomini che amano e odiano,
ridono e piangono, sbagliano e correggono. In questo mondo appaiono i
Condor, gli stranieri. Coloro che non incontrano, che non si
mescolano: i guerrieri. Percorrono la valle come i grandi uccelli le
vie dei cieli, vicini e irraggiungibili. Parlano di guerra e di
conquista, disprezzano e depredano, violentano e uccidono. Portano
con sé la malattia. E infettano, immancabilmente, come è successo
nel nostro mondo. I Kesh non capiscono, non possono capire, non
possono difendersi. È il
mondo al contrario, il mondo a testa in giù che si presenta. E nella valle
sorgono le Logge dei guerrieri - uomini, solo uomini - che vogliono
combatterli e che imparano da loro, si fanno uguali agli stranieri.
La guerra, l'attività degli adolescenti, posta al margine della
società, diventa il loro fine e il loro pensiero. Cominciano a
disprezzare le donne, a diventare aggressivi, ad avere strani rituali
violenti. E sorgono le Società dell'Agnello - solo di donne - che
accettano, che seguono i guerrieri: "Le donne della Loggia
dell'Agnello mi dissero che non potevamo conoscere i riti dei
guerrieri, poiché l'unico modo adatto a una donna di conoscere tali
misteri consisteva nell'amare, nel servire, e nell'obbedire gli
uomini che li capivano". È
possibile lottare per il proprio mondo, per la propria libertà senza
dover accettare le regole della morte, della violenza, della
distruzione? È possibile salvarsi dalla malattia della testa girata
al contrario senza dover accettare la schiavitù?
E le parole mi
mancano
Pietra che narra -
la donna Kesh, figlia di un Condor che, nata nella valle, sceglierà
di andare a vivere fra gli stranieri per poi tornare a casa - sembra
dire di sì. I Condor muoiono da soli, uccisi dal loro stesso morbo,
e i Kesh, non troppo profondamente infetti, riescono a salvarsi. Ma
la prossima volta? Perché ci sarà una prossima volta, perché la
malattia dell'uomo è come "...i virus mutanti e le tossine: in giro
ce ne sarà sempre qualche nuova forma, o sarà portata dall'esterno,
od opera di gente che si muove o viaggia, e ci sarà sempre il
rischio d'infezione. Ciò che dicevano coloro che erano stati colpiti
dalla malattia è vero, è una malattia legata alla nostra condizione
di esseri umani, una malattia spaventosa". Si può guarire dal morbo?
Si possono raggiungere le sorgenti dove l'acqua scorrendo purifica, o
quell'acqua è per noi, malati, irrimediabilmente preclusa? Poter respirare
l'aria pura del fiume Na. Vivere finalmente giorno dopo giorno nel
ritmo sacro della vita. Essere consapevoli, accettare l'umanità con
tutto ciò che comporta. Vedere e non solo guardare il mondo. Essere
partecipi. E le parole mi mancano. Si frantumano mentre le uso. Come
posso spiegare la molteplicità nei termini dualistici del nostro
pensiero. Come spiegare il
sacro che non è sacro. Il mistero che non è mistero. Il senso di
ciò che è interno ed esterno, dentro e oltre l'essere individuale.
Vivente/non vivente. Come posso spiegare quello che non ha parole
nelle nostre lingue. Quello che anch'io sento solo confusamente,
senza riuscire a chiarirlo. Non ho strumenti. Un libro che non
può essere raccontato, che sfugge come il mondo che descrive: non un
romanzo, men che meno di fantascienza, non un'utopia. Forse un saggio
etnografico scritto sotto forma di poesia, un canto di speranza per
l'umanità, il recupero di tutto ciò che abbiamo incontrato più e
più volte e mai compreso, un viaggio impossibile e necessario "...un
sogno fatto in un brutto momento, un "Al Diavolo!" rivolto
a tutta la gente che gira sul fuori strada, fabbrica e prepara campi
di concentramento, da parte di una casalinga matura, una critica del
concetto che la civiltà sia solo per i paesi civili, un'affermazione
che finge di essere un rifiuto, un bicchiere di latte per lo stomaco
ulcerato dalla pioggia acida, un'esemplare di jeanjacqueria pacifista
e una danza dei cannibali in mezzo ai selvaggi, nei giardini pagani
dell'Ovest più remoto". Un libro che
descrive una società vera, almeno quanto quelle visitate da
etnografi di tutto il mondo, un mondo che sembra dietro l'angolo ed
è, per la sua stessa essenza, irraggiungibile. Come vivere in un
posto così differente, anche se solo sulle ali della fantasia? Come
superare la barriera? Io, noi,
internamente piegati, schiavi del nostro mondo. Legati con catene
invisibili. Noi i signori del mondo. Signori che non sanno vivere e
non sanno neppure di non vivere. Noi che costruiamo e cambiamo
continuamente la terra perché la sua realtà ci fa paura. Noi che
non vediamo al di là del nostro naso. Orgogliosi padroni delle
tecniche e delle arti, riusciti a piegare acque e venti, fuoco e
materia. I signori della razionalità, convinti che la nostra logica
sia l'unica valida. Pronti a considerare tutti gli altri bambini
incapaci. Noi abbiamo nascosto nelle profondità del nostro io i
fantasmi che non abbiamo il coraggio di affrontare, i sentimenti che
vorremmo definire, incasellare, chiudere, controllare. Non li capiamo
più, la loro potenza ci spaventa. Abbiamo costruito i nostri dei
all'interno delle nostre menti e ne siamo diventati i servitori.
Abbiamo paura di noi stessi e degli altri, abbiamo paura del mondo.
La malattia dei
Condor
Non siamo capaci di
com-prendere l'universo e non abbiamo il coraggio di esserne parte.
Viviamo nell'illusione di riuscire ad arginare la realtà che non
vogliamo conoscere, che vogliamo cancellare e dominare. Poveri esseri
impazziti. Assomigliamo ai Condor, gli unici abitanti delle valli che
praticano la guerra di conquista, che gerarchici e stratificati
"hanno dimenticato le loro madri", che considerano le donne
inferiori, che cercano disperatamente di rimanere puri e quindi
"dovevano separarsi dal resto dell'esistenza, lavandosela via
dalla mente e dal corpo, uccidendo il mondo, in modo da poter
rimanere perfettamente puri". I Condor che non riuscivano a
comprendere nulla, che pensavano che il loro dio avesse creato il
mondo, ma fosse diviso da esso e che "...a causa del fatto di
credere che tutto apparteneva all'Unico, costringevano se stessi a
pensare per coppie: o è questo, o è quello. Non erano in grado di
vivere la molteplicità". I Condor muoiono,
distruggono se stessi. La loro malattia li divora. Vana speranza,
racconto fantastico. Non poi tanto. Quanti popoli si sono distrutti
logorati dalla malattia dei Condor, malattia della gerarchia,
dell'odio, della violenza, dell'incapacità del rapporto con
l'ambiente, del concetto di dominio che piega a sé tutti i pensieri.
Purtroppo è una malattia altamente infettiva, altri hanno preso il
loro posto tra noi. E forse ora saremo pronti a distruggere l'intero
pianeta insieme a noi stessi. Oppure moriremo noi, i malati,
lasciando uno spazio vuoto, che potrà essere riempito dai gentili
Kesh. I Kesh, esseri
umani come noi, né migliori né peggiori, eppure lontani,
irraggiungibili. Hanno costruito il loro mondo su scelte diverse, o
forse solo una, fondamentale: la vita, con tutto ciò che comporta,
responsabilità, accettazione, oneri. Vita intesa come cambiamento,
respiro, continuità, sempre diversa e sempre uguale, di cui la morte
è l'altra faccia, parte inscindibile, necessaria; non è pensabile
l'una senza l'altra. L'universo intero,
il mondo, la società, la cultura, gli essere viventi visti come
vita, parte di un tutto e singolarità irripetibili. "Siamo
raccoglitori e raccolti. Costruendo e distruggendo, siamo fatti e
veniamo disfatti; dando al mondo e uccidendo, prendiamo per mano e
lasciamo andare. La gente umana pensante e gli altri animali, le
piante, le rocce e le stelle, tutti gli esseri che pensano o che sono
pensati, che sono visti o che vedono, che stringono o sono stretti,
tutti noi siamo creature delle Nove Case dell'Esistenza, e danziamo
la stessa danza. È con la mia voce che parla la roccia blu, e la
parola che pronuncio è il nome della roccia blu. È
con la mia voce che l'universo parla, e la parola che gli odo dire
quando ascolto è me stesso". Una società libera, ma non priva
di regole, concreta, pragmatica eppure astratta, che vive e accetta,
incorporandole, tradizioni. Come la vita. Come uscire dagli
schemi allora? Non la ricopiatura vuota di altre culture di cui si
possono ripetere i gesti, ma com-prendere quel significato profondo a
noi così estraneo. Come scardinare fino in fondo i concetti per
ricostruirli da capo? Dentro, profondamente, alle essenze del nostro
io. Quelle essenze alle quali non si possono dare nomi, che non
possono essere delimitate, oggettivate, specchiate, ma che volendo
possiamo ascoltare, piano silenziose, tra lo stormire delle foglie in
una giornata di sole, nel correre eterno e pur sempre diverso del
ruscello, nel sasso levigato dall'acqua che ho tenuto nella mano,
nella musica cosmica del cielo notturno. E in noi, dentro, profonde:
hanno il ritmo del respiro, il battito del cuore, lo sguardo umido
del cucciolo di animale, la dolcezza infinita del mare al tramonto, e
ancora, ancora. Ovunque. È
il respiro del mondo , è il nostro io. Diverso e uguale in ogni
momento e in ogni persona. E allora forse
anche di noi, dei nostri discendenti come di altri si potrà dire:
"Possedevano la loro valle con grande leggerezza, con mano
delicata. Camminavano piano piano".
Ursula Le Guin
Ursula Kroeber Le Guin è una delle maggiori scrittrici di fantascienza - ma la definizione è restrittiva, le rare semplificazioni dei mondi creati, la cura dei particolari (1), le conoscenze antropologiche e culturali che riversa nelle sue opere, ne fanno una scrittrice a pieno titolo.
La sua opera, essenzialmente narrativa, è quasi sempre incentrata sul viaggio, reale o metaforico, esplorazioni e conoscenza degli altri popoli e della realtà, ma anche, attraverso l'incontro/scontro con il diverso, del proprio io. La sua non è quindi fantascienza pura, piena di astronavi e congegni tecnici, ma esplorazione di mondi diversi, popolati da società aliene che spesso diviene base per riflessioni sottili sulle possibili interazioni del sociale, sui vari modi di essere del potere e del dominio. In uno dei suoi più grandi capolavori, "I reietti dell'altro pianeta", la Le Guin traccia lo spaccato di un mondo anarchico realizzato analizzandone le involuzioni gerarchiche, i pericoli legati al conformismo, all'eterodirezione, alla supina accettazione di ciò che è.
Spesso è anche analisi dei rapporti maschile e femminile, delle implicazioni di una relazione che raramente, anche nella fantasia, risulta essere paritaria. Ne "La mano sinistra delle tenebre" riflette sulle connessioni sia mitiche che filosofiche della dualità sessuale raccontando gli abitanti androgini di un mondo invernale. È analisi dei rapporti tra società/ambiente, tra scienza/società cioè del nostromondo e della nostra società attraverso la differenza di altre. Siamo noi i pazzi agli occhi stupiti e angosciati degli abitanti de "Il mondo della foresta" sfortunatamente visitati da un gruppo di coloni terrestri. Impossibile citare tutte le soste che la Le Guin fa nel suo lungo viaggio alla ricerca della libertà, delle sue forme e soprattutto della sua mancanza.
(1) (Basti pensare che con l'ultimo libro "Sempre la valle" c'è una cassetta registrata con le canzoni e poesie in "lingua Kesh", il popolo protagonista del libro).
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