Rivista Anarchica Online
Quell'attentato del '73
Sul numero 20 del 26/5/93 del settimanale «Avvenimenti» è possibile leggere un
paio di interessanti articoli
dedicati alla «strategia della tensione» e alle «stragi». In uno di questi, a firma di Michele Gambino (pag. 10),
risalta il nome del «bombarolo» anarchico Gianfranco Bertoli a proposito di un'inchiesta del giudice Casson.
Secondo Casson, riferisce l'articolo: «...i1 Gianfranco Bertoli che il 17 maggio del 1973 lanciò una
bomba
davanti alla questura di Milano, 4 morti e 46 feriti, è lo stesso Gianfranco Bertoli che figura negli
elenchi di
Gladio...», successivamente verrebbe fugata l'ipotesi, artificiosamente indotta dagli attuali vertici del Sismi, che
si tratti di un caso di omonimia. Questo episodio mi ha fatto riflettere, non tanto sulla posizione di Bertoli
(che potrà, se vorrà, far conoscere le
sue considerazioni al riguardo dell'inchiesta citata), bensì sulle mie convinzioni al riguardo della nota
«pista
anarchica» sulle stragi susseguitesi negli ultimi 25 anni, ovvero sulla pretestuosità di detta pista, ormai
confutata
da riscontri oggettivi. Certo, la mia curiosità sulla collocazione di un anarchico in un capitolo
così oscuro della recente storia italiana
(alla luce dell'attuale e generalizzata convinzione che atti estremi, quali attentati e stragi, siano giustificabili solo
nell'auspicio di una risposta ed una «svolta» ancor più autoritaria da parte dello stato) non la nego.
Per quanto ne sappia, qualsiasi teoria e pratica rivoluzionaria giustificano l'uso della violenza nella lotta
di
liberazione da ogni oppressione e, è noto, la storia del movimento anarchico non è scevra di
azioni violente; ho
sempre ritenuto, queste azioni, atti isolati, giustificati da una logica (non sempre condivisibile) di liberazione
più che di terrorismo; gesti estremi di individui contro altri individui macchiatisi di gravi colpe, atti
estremi
contro manifesti simboli di oppressione. Il simbolo dell'oppressione deve essere chiaro a tutti affinché,
colpendolo, tutti capiscano la motivazione ed il mittente dell'atto violento (ed eventualmente condividano).
Francamente, la bomba del 1973 alla questura di Milano, mi sembra giustificabile solo nell'ottica della fumosa
«strategia della tensione» che il recente attentato (mafioso?) di Roma ha portato alla ribalta, e non quale atto
liberatore. Personalmente, ritengo l'uso della violenza giustificabile solo in casi di estrema difesa (condivido
la posizione dell'articolo di Z. Ostric, «A» 200) o di estrema oppressione economica, caratteristica dello
sfruttamento borghese-capitalista del proletariato (ancor oggi presente nei cosiddetti ex «paesi in via di
sviluppo») privo delle più elementari tutele sindacali. Credo che, comunque, queste posizioni
meritino di essere dibattute (magari con testimonianze di chi ha vissuto
gli anni immediatamente successivi alla «contestazione» del 1968). Cordialmente.
Alessandro Milazzo (Cerro Maggiore)
Risponde Gianfranco Bertoli
Nell'arco di vent'anni, sia quando ancora mi adagiavo nella certezza che il mio
atto di violenza fosse stato
giusto, sia quando ho cominciato a dubitarne per arrivare a ricredermi e, dopo un non facile processo di
riflessione critica, a condannarlo io stesso e a soffrirne, non mi sono risparmiato nel cercare di spiegare le mie
motivazioni, le spinte emozionali e il personale «background» esistenziale che erano origine di quel tragico
episodio. L'ho fatto nel corso del primo interrogatorio e nei successivi, fino alle dichiarazioni che ho reso
in sede
processuale. Ho continuato a farlo con scritti che sono stati pubblicati su «A» e su altre testate di aerea
libertaria. Così come
in un'intervista al quotidiano «Il Tirreno» del 16 ottobre 1990 e in quella su «La Stampa» del 17 maggio di
questo anno. Non mi sono mai tirato indietro dal replicare, dettagliatamente ed in modo esaustivo, alle tante
calunniose affermazioni e pretese «rivelazioni» che periodicamente mi venivano riversate addosso ed ho scritto
in merito decine di lettere a settimanali e quotidiani (sempre ignorate e sprezzantemente cestinate).
Confesso di essere stanco, di provare un senso di nausea davanti alla evidente constatazione della assoluta
impossibilità di districarsi dal reticolo della disinformazione pervicace con cui la «società dello
spettacolo»
soffoca le sue vittime e può arrivare agevolmente a distorcerne l'immagine, cancellandone
l'identità e lo stesso
passato per rimodellarli a suo piacimento. Su di me ne hanno dette tante che non riesco più neppure
a tenere il conto della quantità delle menzogne che
si è arrivati a costruire. Illazioni, insinuazioni, asserzioni gratuite, pseudorivelazioni che, nella
impossibilità di dimostrarle, venivano
ripetute per un poco e poi lasciate cadere. Salvo poi riprenderle con l'etichetta di «dati di fatto» acclarati e
incontrovertibili. Oggi si rispolvera allegramente la storiella della mia appartenenza a «Gladio». Non so
cosa possa spingere il
giudice Casson a riproporre questa tesi e quale sia il suo obiettivo. Mi è anche difficile comprendere
le vere
ragioni dell'accanimento con cui sulle pagine di un settimanale, per tanti versi valido ed apprezzabile, come
«Avvenimenti» si persevera nel farsi carico di far propria e divulgare acriticamente qualsiasi illazione o diceria
calunniosa che sia finalizzata ad infangarmi. So solo che non avevo mai saputo nulla dell'esistenza di
«Gladio» fino a che non ne ho letto sui giornali. Quale
che sia la verità su questo apparato e la portata della relativa inchiesta su di esso condotta, per quanto
concerne
le asserzioni secondo cui ne avrei fatto parte, l'intera vicenda si riduce ad una pura e semplice operazione
massmediatica del tutto priva di qualsiasi fondamento. La prima volta che vidi fatto il mio nome per
ricollegarlo a questa storia è stato nel contesto di un fumoso,
quanto sensazionale, articolo apparso sul numero del 23 settembre 1990 di «Panorama». Gli altri giornali
vennero a ruota e ne derivò un guazzabuglio di affermazioni e di smentite, di elucubrazioni
dietrologiche spesso
risibili e di un susseguirsi di nuove «indiscrezioni» sapientemente dosate e fatte filtrare per darle in pasto
all'opinione pubblica. Altro non so, perché mai il dotto Felice Casson (né gli altri magistrati a
cui,
successivamente, venne attribuita la competenza ad indagare) ebbe a farsi vivo per rivolgermi delle domande,
muovermi delle contestazioni o chiedermi dei chiarimenti. Tutto si svolgeva sui giornali e in nessun momento
mi è stata data notifica ufficiale del fatto che fossi oggetto di indagini. Solo il 26 febbraio 1992, in un
articolo
del «Corriere della Sera» che parlava della conclusione dell'inchiesta condotta dalla procura di Roma, ho potuto
leggere che: «Alla vicenda dell'anarchico Gianfranco Bertoli, Giudiceandrea dedica un intero capitolo (l'ottavo)
della sua requisitoria e giunge alla conclusione che il Bertoli segnalato per far parte della Gladio era
effettivamente un omonimo. Le date di nascita dei due personaggi differiscono e alcune testimonianze tra cui
in particolare quella del generale Giovanni De Luca (l'ufficiale che segnalò Bertoli, in quanto
marconista di
leva) dimostrano che non c'è nessun legame tra i due. Del resto il Bertoli marconista esiste realmente,
è vivo
e vegeto ed è stato anche sentito come testimone proprio per chiarire l'intera storia». A questo
punto avevo la conferma che effettivamente si era indagato su di me, ma anche la legittima
convinzione che l'equivoco in cui si era caduti agli inizi fosse stato chiarito e nessuno si sarebbe messo in testa
di tirarmi ancora in ballo. Non sono mai stato un «marconista» (non ho neppure fatto il militare), non ho
l'età di quel signore e neppure
sono nato a Dolo dove pare (stando ad una affermazione de «L'Espresso») sarebbe nata quella persona. Ero
troppo ottimista. Eppure avrei dovuto essere ammaestrato da una precedente storia quasi analoga. Vent'anni
fa, infatti, si giocò sull'equivoco di una quasi omonimia con un certo Bertoli Alberto che, negli anni '50,
aveva
fatto l'attacchino di manifesti per l'organizzazione di Edgardo Sogno «Pace e Libertà», per sostenere
che ero
stato un militante di quel gruppo e, di tanto in tanto, questa etichetta viene rispolverata per attribuirmela.
Così,
pur avendo a suo tempo offerto tutte le più ampie delucidazioni su episodi, risalenti al 1953, sui quali
ci si era
voluti puntellare per sostenere che ero stato un «collaboratore dei servizi segreti» e anche se è
comprovabile
che durante tre degli anni in cui si asseriva che avrei svolto questa attività mi trovavo in carcere, ancora
oggi
c'è chi ritiene lecito definirmi «l'uomo dei servizi segreti». E questo anche se nessuno è mai
stato in grado di
dire, o almeno ipotizzare, come, dove e quando avrei esercitato il mestiere dello «spione»; ai danni di chi e con
quali possibilità materiali e ambientali di farlo ( ... )
Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)
Postilla della redazione
Alla specifica richiesta di chiarimenti del lettore
Alessandro Milazzo, risponde direttamente l'interessato, cui
avevamo trasmesso la lettera nel carcere di Porto Azzurro dove sta scontando la pena dell'ergastolo. Cogliamo
l'occasione per ribadire alcuni concetti da noi più volte esternati su queste colonne. Il 17 maggio
di vent'anni fa, davanti alla questura di Milano, una bomba - lanciata da Bertoli contro il corteo
delle autorità riunite per commemorare il commissario Calabresi ad un anno dalla sua morte, e deviata
dal piede
di un poliziotto - faceva una strage: 4 morti e decine di feriti. L'autore, immediatamente arrestato dalle forze
dell'ordine, si definiva «anarchico individualista» e sosteneva di aver voluto vendicare l'assassinio
dell'anarchico
Pinelli avvenuto tre anni e mezzo prima proprio nei locali di quella questura. Il movimento anarchico
organizzato (ossia allora - la Federazione Anarchica Italiana, i Gruppi Anarchici
Federati ed i Gruppi d'Iniziativa Anarchica) prese immediatamente posizione con un comunicato-stampa
(condiviso e pubblicato anche dalla nostra redazione) nel quale - in sintesi - si condannava la strage, si
affermava l'estraneità di Bertoli dal movimento anarchico organizzato e si sosteneva che comunque
quella strage
andava inserita nel contesto violento di quegli anni segnati innanzitutto dalla «strage di stato» per antonomasia
(piazza Fontana, 12 dicembre '69) e dalla violenza istituzionale e fascista. Soprattutto dalle file della sinistra
extraparlamentare marxista (Avanguardia Operaia, Il manifesto, Lotta continua, Potere operaio, ecc.)
partì
un'opera di cosiddetta «controinformazione» (in realtà, perlopiù, di strumentale
disinformazione) tendente a
dimostrare che Bertoli era un uomo di destra, con trascorsi di picchiatore fascista e probabilmente al soldo dei
servizi segreti. L'ipotesi era plausibile (le stragi in quegli anni - e non solo allora - avevano tutte una matrice
fascista/statale: variava solo il mix tra questi due elementi), ma falsa. E false erano soprattutto tutte le «prove»
addotte in suo sostegno. Ma in quegli ambienti non si è mai andati tanto per il sottile e il carattere
rivoluzionario
della verità (come recitava uno slogan attribuito a Gramsci) scompariva di fronte alle dure
necessità della
«verità politica». Serviva un Bertoli «fascista» - e francamente faceva comodo a tutta la sinistra poter
scaricare
sulla destra anche quella orribile strage. Purtroppo anche non pochi anarchici si accodarono a questa tesi.
Da vari elementi che trapelavano sui massmedia - spezzoni di interrogatori, per esempio - e, dopo un po',
anche
dalle lettere che iniziò a scriverei Bertoli, ci rendevamo conto di trovarci di fronte ad una persona non
di destra
né ambigua, con una concezione dell'anarchismo abissalmente diversa dalla nostra ma pur sempre
anarchica.
Il comportamento di Bertoli nel corso dei due gradi del processo per la strage, le notizie che arrivavano
dall'interno delle carceri, lo scambio epistolare che abbiamo avuto per anni ed anni ci hanno sempre più
convinto della «buonafede» di Bertoli (il che, sia detto per inciso, non sposta di un millimetro la nostra drastica
condanna della strage e del delirio vendicativo che la sottendeva). Fin dall'inizio dei nostri rapporti
epistolari, poi, Bertoli ha intrapreso quel riesame del proprio comportamento
cui fa cenno anche nella sua risposta ad Alessandro Milazzo. Bertoli è diventato un collaboratore
della nostra rivista. Le sue riflessioni sulla violenza - non solo sul suo gesto
del 17 maggio '73, ma più in generale sull'uso e sul senso della violenza, sulla lotta armata, ecc. - hanno
rappresentato una parte significativa del dibattito che sull'argomento «A» ha ospitato a cavallo tra gli anni '70
ed '80. I suoi scritti dalle carceri speciali (in parte raccolti nel volume Attraversando l'arcipelago,
Edizioni
Senzapatria, Sondrio 1983), con la lucida denuncia del ruolo delle Brigate Rosse in tempi in cui ciò
comportava
non pochi rischi anche di sopravvivenza personale, rivestono a nostro avviso un'importanza che travalica la
cronaca. Un'ultima considerazione. Contrariamente a quasi tutti i lottarmatisti, Bertoli è giunto a
«rigettare» il
proprio gesto quando non c'era ancora alcuna legislazione premiale, né ha mai chiesto «sconti» sulla
base del
proprio «pentimento». .
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