Racconto
Il giornalaio anarchico
di Andrea Mincigrucci
Ricordo che era un pomeriggio d'estate, un pomeriggio come tanti
altri. Il caldo feroce era reso ancora più insopportabile
dall'umidità, che spalancava sul catrame delle strade
delle bocche di fuoco, che mordevano le gambe con il loro alito
rovente. Arrivai alla piccola stazione ferroviaria del mio quartiere,
fermai la Vespa accanto alla cabina automatica delle fototessere
e spinsi col piede sul cavalletto, fissandolo a terra.
La stazione era un edificio semplice e basso, di mattoncini
rossi. La guerra, coi suoi bombardamenti, aveva distrutto la
vecchia stazione, e una nuova era stata costruita, in fretta.
L'ingresso principale consisteva di una grande vetrata, nella
quale si apriva una porta doppia, con la cornice di metallo
dorato, ossidato dall'usura del tempo e dell'uso. La sala d'attesa,
piccola e sporca, brillava chiara al sole che filtrava dai vetri,
perennemente opachi nonostante venissero lavati ogni giorno.
Il pavimento, di mattonelle color avorio, grandi e quadrate,
e le pareti, anch'esse bianche, concentravano nella stanza un'esplosione
di luce chiarissima.
Dietro il vetro della biglietteria, due ferrovieri, in divisa
ma senza cappello, conversavano cercando di ingannare l'afa
e la noia. Come ogni settimana entravo nella piccola stazione
per comprare i giornali, i miei giornali, che in altre edicole
non venivano venduti: Umanità Nova, Lotta Sindacale
e, una volta al mese, la rivista A.
Avevo cura di venire sempre lo stesso giorno della settimana,
perché ero sicuro di trovarlo lì, seduto dietro
la massa di quotidiani e rotocalchi, nel suo chiosco di giornali.
Era un vecchio giornalaio, che ricordavo seduto lì dietro,
sempre nella medesima posizione, da quando mio nonno, quando
io ero piccolo, mi portava a vedere gli uccellini nella voliera
del piazzale e i treni merce e l'estate mi comprava anche il
gelato, al bar. Andavamo sempre di lunedì, a guardare
gli uccellini e i treni, perché mio nonno era barbiere,
e i barbieri sono sempre chiusi il lunedì. Non ricordo
se mio nonno si fermasse a chiacchierare col giornalaio o si
limitasse a salutarlo. Ricordo però che lui era seduto
sempre al solito posto, lo stesso posto dove sedeva anche quel
giorno, l'unico giorno della settimana che gli era permesso
di lavorare.
L'edicola era passata alla figlia e siccome lui era malato già
da qualche anno, lei gli permetteva di starci solo un giorno
alla settimana. Era il giorno in cui giornali che io acquistavo
venivano consegnati. Lui, il vecchio giornalaio, un anarchico
convinto, di quelli che ora non esistono quasi più, provava
ancora un gran piacere a disporre le poche copie della stampa
libertaria sull'espositore, a farne risaltare in maniera particolare
i titoli.
Mi conosceva, anche se non conosceva il mio nome, e io d'altronde
non conoscevo il suo. Mi conosceva perché ero uno dei
pochi suoi clienti che abitualmente, da anni, acquistavano quei
giornali che parlavano di libertà, una libertà
grande e bella, forse troppo grande e bella per la maggior parte
della gente che diceva essere pericolosa e stupida. Ricordo
che lui, da dietro i suoi occhiali scuri, che riparavano i suoi
vecchi occhi dalla luce troppo bianca della sala d'aspetto,
mi vedeva entrare e mi faceva un cenno di saluto, piccolo, discreto,
quasi impercettibile, e io contraccambiavo con un buongiorno.
Alle volte mi chiedeva se avessi letto dei libri che lui amava
molto, Malatesta, Bakunin, Berneri, e io rispondevo, all'occasione,
sì o no.
Quel
pomeriggio d'estate, in quel caldo terribile e accecante, davanti
a me c'era solo una signora sui trentacinque anni, che stava
scegliendo una serie di riviste d'attualità, patinate
e ingombre di fotografie. In quei giorni parlavano tutte dello
stesso argomento; poche settimane prima, c'era stata una grande
catastrofe, uno tsunami che aveva mietuto migliaia di vittime,
e che aveva suscitato scalpore tra la gente, e una paura cieca
e irrazionale verso l'ignota forza devastante della natura e
che, alimentata da apocalittici e spettrali programmi televisivi,
si stava rapidamente gonfiando ad attacco di panico collettivo.
Guardandolo mentre la donna stava appoggiando le riviste che
aveva scelto sul pianale di vetro adibito a cassa, capii il
disappunto del giornalaio da una lieve smorfia che passò
veloce sul suo viso. La donna pagò mentre io stavo prendendo
i miei giornali dall'espositore e mi stavo avvicinando alla
cassa. Il vecchio giornalaio, nel porgerle il resto, mi fece
un cenno divertito alzando le sopracciglia e chiese alla frettolosa
cliente:
- Signorina, mi scusi, ma lei ha mai letto Kropotkin?
L'espressione che muta apparve sul viso della donna era per
contro molto eloquente, e sembrava volesse dire “ma che
vuole da me questo vecchio rompiscatole?”
– No perché sa – continuò il giornalaio
– se lei avesse letto Kropotkin – scandendo bene
il nome come per imprimerlo nella mente della donna –
non avrebbe così tanta paura della natura. Colta in un
punto dolente e sensibile, la donna raccolse i suoi rotocalchi
e uscì con passo veloce dalla stazione, mentre io e il
giornalaio ci scambiavamo un sorriso divertito. Mi avvicinai
alla cassa, pagai e salutando con un cenno della mano, mi avviai
all'uscita, aspettando alle mie spalle, come un rito tradizionale,
quel suo saluto tutto speciale, col quale si accomiatava da
me ogni volta, e che arrivò puntualmente, anche quel
giorno, quando ero ormai nei pressi della porta. Misi in moto
la Vespa, riposi i giornali nello zaino, e me ne andai, ingurgitato
dal caldo torrido del viale.
Se avessi saputo che quella sarebbe stata l'ultima volta che
lo avrei visto!
Nei giorni seguenti purtroppo, forse anche a causa del caldo
insopportabile, la sua malattia, a quanto venni a sapere dopo,
ebbe una grave ricaduta, motivo per il quale la figlia decise
che sarebbe stato meglio che suo padre, il giornalaio, rimanesse
a casa. Un paio di mesi dopo morì, e la figlia vendette
il chiosco dei giornali. Dopo che riaprì sotto la nuova
gestione, ci tornai, in cerca dei miei giornali e, chissà,
magari anche di una nuova abitudine. Mi ricordo che era uno
scuro pomeriggio d'inverno e lo sconosciuto edicolante mi salutò
in maniera pulita e cortese, mentre io puntavo direttamente
all'espositore con i miei giornali, che però non trovai
più al loro posto.
- Buongiorno – dissi avvicinandomi al giornalaio –
mi scusi avrebbe Umanità Nova? O Lotta Sindacale?!
- No, in realtà non li conosco neanche. Che cosa sono?
- Sono dei settimanali, dei giornali anarchici. Li ho sempre
comprati qui!
- No non li ho purtroppo – rispose in modo professionale
ma sensibilmente infastidito, il bel tomo abbronzato e in camicia
rosa, che sedeva, usurpatore, al posto del mio vecchio amico
giornalaio.
- Non avete neanche A?
- Intende Avvenire?
- Macché Avvenire – feci io, scocciato –
A la rivista mensile anarchica.
- No quella non ce l'ho ma se le interessa, sullo stesso genere,
avrei al rivista dei giovani progressisti europei – mi
rispose con la sua faccia di bronzo, mostrandomi un'insipida
rivista bianchiccia.
No, lasci stare, grazie e arrivederci – e così
dicendo mi avviai verso l'uscita, lasciandomi alle spalle un
disinteressato buona sera che mi rincorreva al piccolo trotto
nella sala d'aspetto della stazione. Arrivato di fronte alla
porta, mi fermai un momento prima di aprire, vedendo il mio
viso riflesso sul vetro, e un'improvvisa, morbida malinconia
mi cinse le spalle, pensando al mio vecchio amico giornalaio.
Mi voltai verso il chiosco, chiusi un momento gli occhi, e fu
allora che lo rividi lì, seduto dietro la cassa, coi
suoi occhiali scuri e con i nostri giornali ben disposti sull'espositore.
Mi voltai, aprii la porta e, uscendo, sorrisi un attimo, tristemente,
riascoltando il suo saluto, col quale sempre si congedava da
me: perché anarchico è il pensiero e verso
l'anarchia va la storia.
Andrea Mincigrucci
Aquisgrana, Cafè Anvers, 17.06.2014
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