“Droghe”/
Un'opera fondamentale riscatta anni di oscurantismo
A
pochi mesi dalla lettura del notevole Piante Psicoattive:
studi etnobotanici (Youcanprint, maggio 2019), arriva un'altra,
peraltro molto attesa, opera in due volumi firmata da Giorgio
Samorini, uno dei massimi esperti a livello internazionale in
materia di piante psicoattive e storia delle droghe. Terapie
Psichedeliche (Vol. 1 e 2, Shake edizioni, Milano 2019),
scritto a quattro mani dall'etnobotanico insieme all'anestesista
Adriana D'Arienzo, è un manuale che raccoglie quanto
di più significativo sia emerso fino a oggi in materia
di terapie mediche e psichiatriche con sostanze psicoattive.
Il primo volume (pp. 332, € 19,00) si sofferma sugli aspetti
generali e storici fino al 1971, anno in cui l'ONU, con
la mannaia proibizionista di Nixon, sancì il divieto
internazionale, durato per trent'anni, di condurre sperimentazioni
in materia di psichedelici. Si analizzano la terminologia e
le classificazioni delle sostanze con una scrupolosa organizzazione
a livello metodologico e concettuale, e i dati delle ricerche
ufficiali, intrecciando teoria e storia, sono sempre raffrontati
con il corpus delle ricerche “non ufficiali” portate
avanti da appassionati e studiosi costretti a muoversi in modi
sotterranei. Si parte dalle terapie più antiche come
quelle sciamaniche a base di cactus che contengono mescalina
(peyote e san pedro), collocate dall'archeologia a partire da
10.000 anni fa, fino ad arrivare agli esperimenti della fine
degli anni '60, tra cui inediti studi clinici portati avanti
in Italia all'interno di alcuni manicomi, nel trattamento con
LSD e altre sostanze di disturbi sessuali, psicosi, depressione
e una varietà di patologie minori.
Ma se il primo volume risulta ghiotto per la qualità
enciclopedica e il rigore scientifico con cui vengono ricapitolate
le terapie del passato, il secondo (pp. 332, € 19,00) si
distingue per la quantità degli “studi moderni”
assolutamente ignoti ai più, che spalancano lo sguardo
su presente e futuro, filtrando una quantità di informazioni
anche molto complesse attraverso la scrittura agile e accattivante
di Samorini, garanzia di scorrevolezza anche per chi non mastica
psichiatria e neuroscienze.
Data la quantità di materiale, gli autori scelgono di
selezionare i risultati delle pubblicazioni che non siano viziati
da approcci preconcetti, sia dal lato della visione “proibizionista”,
che da quella “libertaria”. Allo stesso modo, viene
ridotto al minimo l'aspetto “spiritualista”, nella
convinzione che l'esperienza mistica non sia un prerequisito
indispensabile per un risultato positivo (forse questo l'unico
limite della metodologia applicata: sottovalutare il potere
sottile di modificazione della coscienza che sottende
l'esperienza “psichedelica”, che “rivela la
mente”. Per quanto poi gli autori riconoscano che sia
una scelta metodologica e che, in alcuni casi, “le qualità
neurobiologiche e quelle psichedeliche siano indivisibili nella
comprensione dei benefici terapeutici”).
Ciò che colpisce di più dei nuovi studi, però,
è il fatto che l'approccio fenomenologico sia inscindibile
dall'approccio neurologico, dove per neuroscienza si intende
lo studio dei rapporti tra le attività del sistema nervoso
e il comportamento umano. Siamo dunque nel cosiddetto campo
della neurofenomenologia, disciplina che unisce neurologia,
psichiatria e biologia, nata agli inizi degli anni '90, come
ci ricorda il libro, nello stesso periodo in cui si scioglieva
il ghiaccio proibizionista di Nixon e i giovani di tutto il
mondo esplodevano in un nuovo rinascimento psichedelico che
coincise con la diffusione di rave party e discoteche. Per quanto
questa febbre del ballo fosse fiorita grazie alla diffusione
dell'Mdma, non classificabile come uno psichedelico, l'intero
spettro di droghe sintetiche o naturali cominciò a essere
esplorato dai giovani psiconauti della generazione rave, con
particolare attenzione proprio verso LSD, ketamina, funghi magici,
DMT (principio attivo, ad esempio, dell'Ayahuasca).
In
parallelo, nel mondo della ricerca scientifica, innovazioni
tecnologiche come le scansioni cerebrali spianarono la strada
a nuove scoperte. E fu così che, timidamente, nei primi
anni '90 anche istituzioni pubbliche e private cominciarono
a fare ricerca sulla psilocibina e sul DMT, prima in Svizzera
e in Messico, per poi arrivare alla situazione odierna che vede
rincorrersi, a livello internazionale, le più prestigiose
università e case farmaceutiche, con un cambio radicale
nel modello riproposto anche dai media, al punto che oggi troviamo
online notizie come questa: “La ketamina, una droga pesante
ma anche un farmaco anestetico regolarmente autorizzato, si
mostra promettente per il trattamento rapido della depressione
maggiore e dei pensieri suicidi, secondo uno studio portato
avanti (in ventisette paesi tra cui l'Italia) dai ricercatori
di Janssen e della Yale School of Medicine. È il primo
approfondimento scientifico condotto sulla ketamina da un'azienda
farmaceutica in collaborazione con un'istituzione accademica.
È stato pubblicato sull'American Journal of Psychiatry.
[...] Lo spray nasale è ora in fase di studio III prima
che possa essere autorizzato ufficialmente.” (Adnkronos,
16 aprile 2018).
Nessuno degli psiconauti degli anni '90 avrebbe mai sperato
che la ketamina fosse prodotta come spray nasale dalla Johnson
& Johnson. Né avremmo creduto, come invece apprendiamo
nel secondo volume, che potesse essere prescritta da un medico,
magari in microdosaggi, per combattere alcolismo, depressione,
disturbo da stress post-traumatico, disturbo bipolare. O che
LSD, funghi psilocibinici e semini hawaiani fossero indicati
nella terapia della cefalea a grappolo. Sapevamo, ad esempio,
che per combattere le dipendenze da eroina, cocaina e alcol
si potesse fare un “viaggio rituale” a base di Iboga
o Ayahuasca, ampiamente studiate in questi volumi. Ma è
solo negli ultimissimi anni che queste teorie sono state comprovate
dalla scienza, insieme a molte altre che nessuno avrebbe mai
potuto immaginare. Ed è in questo libro che se ne parla
con entusiasmo, inedita esaustività, ma anche con la
dovuta prudenza, fino a toccare l'argomento dell'eutanasia.
Finalmente, insomma, è arrivata un'opera monumentale
che riscatta anni di oscurantismo, illuminando con la luce del
progresso scientifico una strada antica quanto l'uomo che finora
ci è stato impedito di percorrere sotto il sole.
Come spiega lo stesso Samorini nelle conclusioni del bellissimo
Animali che si drogano, in cui passa in rassegna decine
di specie che utilizzano sostanze psicotrope per scopi disparati,
il “fenomeno droga” è un fenomeno naturale
comune al regno animale, mentre il “problema droga”
è un problema culturale che nella società moderna
è dovuto “alla deculturalizzazione dell'approccio
alle droghe”. Certamente questo lavoro contribuirà
ad alimentare il dibattito sugli psichedelici e a confermare
l'importanza che nella nostra società può avere
una corretta cultura delle droghe. Una cultura che spieghi “come
si usano e in quali contesti”, per evitare l'insorgere
di approcci impropri, quindi del “problema droga”,
e individuare “le variabili che regolano questo fenomeno
nel contesto dell'intimo rapporto fra natura e cultura umana”.
Tobia D'Onofrio
Marx, Lenin, Stalin/
In fondo a sinistra, meste utopie
Encomiabile
proposito, quello di Ruggero D'Alessandro (L'utopia possibile
– Appunti libertari, Derive Approdi, Roma 2019, pp. 192,
€ 13,00), che cerca di mettere a punto in meno di duecento
pagine un resoconto critico della storia dei movimenti rivoluzionari
o, meno ambiziosamente, della tensione alla trasformazione e
al cambiamento della società in senso progressivo e al
miglioramento collettivo delle condizioni di vita. Nel mettere
in pratica un'analisi che non ha l'intenzione di costituire
un trattato organico ed esaustivo, l'autore utilizza titolo
e sottotitolo programmatici per segnalare, prima che si apra
il volume, come lo scritto rivendichi un'impostazione libertaria
nel descrivere fallimenti e successi dei ribelli che nell'ultimo
secolo hanno provato a imboccare strade di libertà e
giustizia. La disamina è evidentemente finalizzata a
fornire un contributo che aiuti a indicare dove si trovano sentieri
che è ancora possibile percorrere, quali sono i segnali
incoraggianti emersi negli ultimi decenni e come procedere verso
l'anelato arcipelago delle utopie. I punti di riferimento interpretativi
dell'autore sono espliciti e variegati e questo, a seconda dei
gusti di chi legge, rappresenterà nota di merito o limite
principale del testo. Il pensiero di rinomati intellettuali
forestieri (Marx, Keynes, Foucault, Deleuze) e minori, a volte
minorissimi, saggisti italiani, ha contribuito a nutrire un
libro che esordisce con un doppio cenno a Marx il quale, nel
procedere delle pagine, appare più volto a rassicurare
i lettori potenzialmente critici che non a strutturare coerentemente
il resoconto a seguire (per inciso: so che il mondo acculturato
mi sbeffeggerà con sussiego, ma a me continua a risultare
misterioso come si possa essere marxisti e keynesiani al tempo
stesso). Nel primo capitolo, che ha inizio con la Rivoluzione
russa, D'Alessandro si dichiara apertamente a favore dei Soviet
e contro la dittatura bolscevica, con Luxemburg e Goldman contro
Lenin, poi con gli anarchici spagnoli e il Poum contro Stalin
e infine con i Consigli praghesi contro l'Unione Sovietica.
Schieramento condivisibile anche se il racconto si mostra in
definitiva un po' asimmetrico, con breve spazio dedicato alle
vicende di Kronštadt ma completo e curiosissimo silenzio
sulla rivoluzione machnovista.
E poi mi dà dello “stolto”. Cioè,
non proprio a me direttamente; ma quasi, quando scrive: «Così
com'è stolto il vecchio refrain di stabilire una
perfetta continuità tra il pensiero marxiano e la costruzione
di quello che molti studiosi e militanti definiscono “capitalismo
di Stato”, analogamente non si devono mai dimenticare
le fratture tra il modello leniniano e quello staliniano riguardanti
politica, economia, polizia e tribunali, ideologia, società.»
Stolto ci sarò pure, ma questa discontinuità non
riesco a percepirla: basti ricordare che la Čeka fu fondata
da Lenin, il quale benedisse serenamente tutte le repressioni
e massacri di insubordinati sin dal 1918. E forse l'autore potrebbe
considerare l'opzione che lo strano ircocervo definito “capitalismo
di Stato” non sia altro che quello che il buon Karl chiamò
“dittatura del proletariato” sotto mentite spoglie
e destinato all'esatta sorte che Bakunin aveva pronosticato;
e che magari la base teorica dell'ecatombe staliniana dei piccoli
proprietari di terra aveva trovato compiuta espressione quando
era stato scritto che i contadini «...sono reazionari,
giacché tentano di riportare indietro la ruota della
storia». Marx & Engels annata 1848, eh, mica Stalin
1937. Ma questi sono dettagli e si deve esser lieti per l'incontro
con una visione libertaria, simpatizzando per l'irruenta verve,
che tuttavia, con il secondo capitolo, in buona sostanza si
dilegua, lasciando spazio allo storico-sociologo che con piglio
quasi accademico si inoltra nella definizione dei movimenti
sociali e nella differenza tra questi e la forma partito, giustamente
parteggiando (“giustamente” per chi mediamente legge
questa rivista) per i primi. Le molteplici influenze sulle ricostruzioni
e riflessioni che seguono potranno incuriosire o lasciare perplessi,
dando la sensazione di un pensiero che attinge spregiudicatamente
da fonti disparate oppure di una notevole confusione di gusto
minestronico. Non potendo addentrarmi per ragioni di spazio
sui tanti punti che meriterebbero un approfondimento, vorrei
però evidenziare alcuni nodi che rischiano, a mio avviso,
di indebolire il discorso nella sua totalità.
In primo luogo mi pare improponibile l'idea che: «...lo
Stato in realtà non rappresenta tanto il nemico quanto
una figura ben più complessa» divenendo a volte
«addirittura sponsor rispetto ai movimenti»
(p. 59). Questa è un'affermazione ingenua in quanto da
sempre lo Stato fa – certo – da sponsor e dialoga,
ma non con i movimenti, bensì con quei suoi settori che
si dimostrano sensibili al risucchio istituzionale, capetti
con ambizioni da parlamentari, da accademici, da artisti di
successo, certo non sostiene i settori del movimento che pongono
questioni radicali; di fatto utilizza le dinamiche criptogerarchiche
presenti per fare il suo mestiere, ossia rendere la critica
innocua, anestetizzarla e riassorbirla. In questo caso D'Alessandro
è vittima dell'illusione ideologica della complessità,
fenomeno per il quale non si può mai individuare alcuna
contrapposizione perché “la realtà è
più complessa”. Che di per sé non costituirebbe
nulla di increscioso se non fosse che così vengono individuati
come «possibili alleati» (p. 60) dei movimenti niente
meno che «mass media, “professionisti della riforma”,
sindacati, partiti, gruppi di interesse», ovvero quelli
che sono e saranno sempre i becchini, non gli alleati,
di chi si oppone al dominio. So benissimo che l'autore ha prevenuto
la mia critica definendola «miope e semplificante»
(p. 59) ma è una croce che sono disposto a portare di
buon grado. Anche perché è miopia che mi impedirà
di brancolare in una nebbia dove si comincia a credere che le
politiche siano imbastite dallo Stato in conseguenza dei mali
servigi di economisti che pubblicano analisi con dati errati
(pp. 85-88), o a mitologie naïf su nefasti «Bocconi
boys» (pp. 98-102) mentre ad ogni avversario dell'oppressione
dovrebbe essere evidente che questi prestigiosi studi sono realizzati
su precisa commissione delle istituzioni al fine di dare
l'opportuna verniciatura accademica a politiche che sono altrove
decise, finalizzate all'autoconservazione del sistema; una foschia
dove si ritiene che sia opportuno appoggiare – in chiave
antiliberista – le politiche welfaristiche keynesiane,
dimenticando che il welfare è stato inventato per contenere
le spinte al cambiamento dal basso; e soprattutto sorvolando
sul fatto che invocare una più equa politica fiscale
significa esaltare la lotta all'evasione, quindi chiedere più
Stato, più controllo, più poliziotti
e finanzieri. Legittimo, per carità: ma che c'entrano
con tutto ciò e con le visioni micromeghiane che permeano
la seconda parte del volume le collettivizzazioni della Rivoluzione
spagnola evocate in precedenza? Invece di cercare lo sbarco
presso utopie possibili, con bussole del genere si va a sbattere
contro l'iceberg socialdemocratico, dove, nel migliore dei casi,
otterremo «un vitto migliore nelle nostre prigioni»;
come cantava un tizio che di socialdemocrazia un po' ne capiva.
Giuseppe Aiello
Parlare di anarchia/
Dialoghi e “lezioni” senza dogmi
L'idea
è semplice (certo, a pensarci) ed efficace: prendi alcuni
autori e intellettuali di area libertaria, metti a disposizione
un posto speciale e chiedi loro di tenere una conferenza su
temi di stretta attualità, con uno sguardo anarchico
e uno stile accessibile. È quanto accaduto presso l'Edicola
518 a Perugia, “chiosco ribelle per gli amanti della bella
carta”, fra il 2017 e il 2019; e ogni evento è
stato partecipato non solo in termini numerici, ma anche nel
senso più nobile del termine: il pubblico si è
fatto avanti, ha discusso, si è confrontato con chi parlava.
Ma è possibile recuperare questa esperienza, così
legata alla dimensione live, e metterla su carta? È
possibile: il risultato è il primo volume delle Lezioni
di anarchia. Cronache di incontri realmente avvenuti in Edicola
518, Perugia (Milano 2019, pp. 176, € 25,00), pubblicato
da elèuthera e arricchito dalle illustrazioni di Beppe
Giacobbe. Il contenuto è appunto la trascrizione, fedele
e piuttosto effervescente, di cinque “lezioni” –
da intendersi in senso lato e ironico, perché nessuno
si sogna di fare dogmatismo anarchico – più una
premessa del curatore Antonio Brizioli, animatore dell'Edicola
stessa.
Francesco Codello si occupa di offrire uno sguardo generale
sull'anarchismo, partendo dal principio chiave “Né
obbedire né comandare” e chiarendo la pluralità
di correnti all'interno di questo pensiero. In un intervento
successivo presenta l'area di cui è massimamente esperto,
ovvero l'educazione incidentale e libertaria: “tanto l'apprendimento
incidentale è naturale e inevitabile, quanto l'istruzione
formale è un intervento deliberato, che come tale ha
bisogno sempre di una giustificazione”.
Stefano Boni parla con grande puntualità del tema del
lavoro, mettendo in dubbio l'universalità di questa nozione
come viene largamente intesa, e ricostruendo l'evoluzione da
un'originaria “società opulenta” –
per dirla con Sahlins – dove i bisogni erano limitati
fino all'alienazione del lavoro contemporaneo, che fra l'altro
distrugge una serie di saperi autonomi ben inseriti nel tessuto
sociale. Critica anche l'idea dell'automazione come liberazione,
“perché le macchine non sono concepite dalla collettività
per la collettività, ma servono solo ad aumentare i profitti.
L'automazione diventa anzi arma di ricatto per togliere lavoro
a una manodopera che è incapace ormai di far da sé,
che non ha altre forme di sussistenza possibile se non quella
del lavoro salariato.”
Antonio Senta si dedica invece all'autogestione, pratica fondamentale
per l'attività libertaria, ribadendo che uno dei suoi
compiti è “quello di destrutturare quei rapporti
di dominio che nei gruppi sociali tendono a ricrearsi. Voglio
dire che anche in un contesto autogestito l'assenza di dominio
non è una cosa acquisita, è una cosa che va praticata,
garantita con una rotazione dei compiti, con la partecipazione
in prima persona, con la trasparenza, con la consapevolezza”.
Come possibile spunto, propone di recuperare e attualizzare
i consigli elementari “a cerchi concentrici” della
Rivoluzione francese: pensando “l'autogestione per frammenti”,
su piccole porzioni della società.
Infine, Lorenzo Pezzica affronta il complesso rapporto tra democrazia
e anarchia, nel solco di alcune ormai classiche riflessioni
di Amedeo Bertolo. Durante l'intervento richiama inoltre l'attenzione
sui luoghi “in cui oggi esistono tensioni magari alimentate
da posizioni reazionarie, come sul tema delle migrazioni”,
spiegando che abbandonarli è un grave errore per qualsiasi
libertario: così “si corre il rischio di derive
non solo autoritarie, ma anche legate al riemergere di pregiudizi
pericolosissimi, come del resto accade oggi in Italia e non
solo”.
Per ovvie ragioni di ogni lezione non approfondisce fino in
fondo temi così spinosi; ma li inquadra in modo più
che egregio, tutelandone al contempo la complessità e
varietà. Il libro ha tre ulteriori virtù, per
nulla scontate. Innanzitutto buoni suggerimenti bibliografici
per approfondire quanto discusso, a cura di Sara Giulia Braun:
qui sfilano autori contemporanei come Graeber, Bookchin, Ibáñez
e Ward, di fianco a classici (non solo dell'anarchismo) quali
Bakunin, Malatesta, Buber o Arendt. Poi la presenza del dibattito
dopo l'intervento, che lo amplia con una serie di botta e risposta:
penso in particolare ai capitoli sull'autogestione e l'educazione
incidentale. E infine la veste grafica del libro stesso: estremamente
gradevole e originale fin dal formato, a mo' di quaderno di
lavoro, con pagine piegate e tenute insieme da un elastico.
Gli interni sono divisi in due colori – nero per la trascrizione,
rosso per gli approfondimenti – e nel complesso l'intera
impostazione della pagina è ispirata alla massima chiarezza.
Alle ragioni estetiche si sommano così quelle espositive:
in mezzo scorre il testo della lezione, e a sinistra un apparato
di note esplicative, riferimenti, finestrelle biografiche e
persino registrazioni in diretta di quanto sta succedendo mentre
il relatore parla – applausi, risate, un bicchiere infranto,
schiamazzi… Non semplici note di costume ma una fedele
restituzione dell'atmosfera “dal vivo”, aperta e
dialogica. Quanto di meglio per parlare d'anarchia.
Giorgio Fontana
Sociopatia e violenza/
Storia di un cortocircuito sociale
Non
possiamo parlare solo del film Joker (2019), dobbiamo
parlare del fenomeno sociale Joker. Un fenomeno che sembra abbia
investito la comunità dei cinefili, e che da lì
si sia propagato fino a toccare l'io più profondo di
ogni spettatore.
Per questo non ci soffermeremo sul Leone d'oro vinto dall'opera
all'ultimo Festival del cinema di Venezia, né sull'ennesima
sublimazione artistica di Joaquin Phoenix e nemmeno sulla metamorfosi
totale e perfetta del fumetto fattosi movie.
Il regista Todd Phillips, un Gauguin cosmopolita e metropolitano,
offre un dipinto che regala un viaggio nella Tahiti che alberga
in ciascuno di noi, ma, soprattutto, obbliga a domande tanto
esistenziali quanto psicanalitiche. Il viaggio comincia al limitare
di una sfera sempre più centrale nella nostra vita: l'identità.
E qui ci si inoltra, soli. Qui inizia davvero il film, o meglio
il personale corpo a corpo con quest'ultimo.
Joker si fa gioco di specchi, si potrebbe forse dire labirinto
claustrofobico di specchi. Il Joker, nel suo incedere disperato
e continuo, ci restituisce istantanee che almeno una volta nella
vita abbiamo vissuto e alle quali avremmo, forse, voluto reagire
diversamente: occasioni in cui avremmo voluto reagire nel modo
peggiore possibile, e invece non lo abbiamo fatto.
Joker, inoltre, si fa intima esperienza sensoriale grazie a
musiche, curate dal violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir,
che sanno alternare e miscelare cadenze marziali e grottesche.
Tratto distintivo del Joker è la risata. Una risata isterica
e inconsapevole; poco importa se frutto di patologia oppure
no. È una risata in faccia alla società. E la
società non ha riguardi verso chi gli ride in faccia:
lo bolla e lo emargina. “Il riso è un vento diabolico
che deforma il volto e rende gli uomini simili a scimmie”,
sentenziava Jorge da Burgos ne Il nome della rosa. Ma
l'uomo ha sempre cercato il riso e, spesso, un riso sguaiato.
È proprio il riso l'innesco del cortocircuito fondamentale
nel film: Arthur Fleck – questo il nome del protagonista
spogliato delle vestigia del mitico nome d'arte – non
è altro che un clown triste, che vorrebbe guadagnarsi
da vivere e sublimare la sua vita difficile facendo ridere gli
altri. Ma questo non gli è permesso, anzi gli unici riscontri
che riceve sono sberleffi feroci e porte chiuse in faccia. La
società non ammette errori, la società non conosce
il perdono. E la reazione umana può abbracciare il caos
e la violenza. Così come i signori di corte necessitavano
di giullari per sollazzarsi, ancora oggi sempre più spesso
si usa prendersi gioco e sghignazzare in faccia al diverso,
in faccia allo sbandato. Questo è il ruolo cucito addosso
ad Arthur Fleck, non quello di astro nascente del varietà
televisivo come invece vorrebbe. E a tutto questo Joker decide
di ribellarsi, con gli unici strumenti che conosce e che ha
sempre subìto: la violenza e una comicità feroce
e crudele.
Questo tipo di ribellione rastrella sempre più adepti,
perché parla solo alle viscere e agli istinti primordiali
degli emarginati. La ribellione del libero arbitrio è
pratica rara, sempre più, ed è pratica dall'elevato
coefficiente di rigore e di difficoltà.
In definitiva Joker non è un anarchico, né il
paladino di qualsivoglia causa di giustizia sociale: Arthur
Fleck è la metafora dei molti sommersi contemporanei.
Matteo Pedrazzini
Madri, figlie, sorelle/
Scovare dolcezza tra le macerie
“Tutto
quello che m'è avvenuto di scrivere, e probabilmente
tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia
viaggiato e vissuto a lungo all'estero, si riferisce unicamente
a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare
dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto
d'Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente
cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese
e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri
che santi e scalpellini. La condizione dell'esistenza umana
vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi
è sempre stato considerato come la prima delle fatalità
naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli
spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al
destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo
e l'anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere
dello scetticismo, non s'è mai spenta l'antica speranza
del Regno, l'antica attesa della carità che sostituisca
la legge, l'antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali,
dei Celestini.” (Ignazio Silone)
Francescanesimo e anarchia, non si potrebbero trovare a mio
avviso sostantivi più adatti per descrivere l'atmosfera
che pervade L'arminuta (Giulio Einaudi Editore, Torino
2017, pp. 176, € 12,00), il romanzo che ha consacrato Donatella
Di Pietrantonio tra “le grandi” del panorama italiano
contemporaneo.
“La mia terra luminosa e dolente”, come lo definisce
lei, l'aspro e ruvido Abruzzo illuminato dai riflessi del mare,
è impresso nel carattere dei protagonisti. Anzi, diciamola
giusta: delle protagoniste.
Perché in questo romanzo, che non è femminista
e non tradisce impulsi di rivalsa verso l'altro genere, sono
le donne a rivestire i ruoli chiave, mentre i personaggi maschili
sembrano fare da contrappeso, offrendo spunti e spalle alle
vicende e alle evoluzioni – concrete e caratteriali –
delle loro madri, zie, sorelle ed amanti.
Nel mio immaginario la stessa autrice rassomiglia alla sua terra:
vive in provincia, a Penne, a metà strada tra il Gran
Sasso e l'Adriatico.
È figlia di contadini, dentista pediatrica di giorno
e scrittrice di notte, specie, pare, verso le cinque del mattino,
quella che lei definisce “l'ora magica”. Per Donatella
Di Pietrantonio la scrittura è “tempo rubato”,
non ricerca del successo ma piacere del confronto; è
urgenza di raccontare con parole scabre e al tempo stesso incantantrici,
che vanno dritte all'essenza dei caratteri ma senza perdersi
neppure una sfumatura.
In dialetto abruzzese “arminuta” significa “ritornata”.
La protagonista del romanzo è una ragazzina che scopre
all'improvviso di non essere chi aveva sempre pensato di essere.
La famiglia con la quale è cresciuta, la “sua”
famiglia, la carica in auto in un giorno qualunque d'agosto,
con “una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse”,
per catapultarla in una dimensione completamente diversa, tra
le poco amorevoli braccia di un'altra famiglia, quella d'origine,
che la reclama indietro.
“Ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua
e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si
era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro
che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la
salute, un riparo, una certezza”.
Quando bussa alla porta della sua nuova casa, la ragazzina ha
solo tredici anni. È l'estate del 1975, c'è “odore
di gomma bruciata nell'aria”, e in quel paese tra le montagne
d'Abruzzo inizia la sua vita adulta, quello che per lei ben
presto diviene il tempo della vergogna.
La famiglia naturale l'ha pretesa indietro, quelli che lei credeva
essere i suoi genitori, adesso scopre essere cugini alla lontana.
La sua vita passata si rivela come il semplice frutto di un
accordo non troppo dettagliato tra parenti, di decisioni prese
senza troppo dar peso alle possibili conseguenze per la bambina.
Il tema della maternità, inteso nella sua completezza
e non solo come il portare in grembo e partorire, pervade prepotentemente
il romanzo. Nel trattare due figure atipiche di “madre”
– una creduta tale ma che non può più tenere
la sua bambina, l'altra effettivamente tale ma che chissà
perché la vuole tenere – l'autrice non cede alla
retorica né ai facili giudizi, e si lancia invece nell'approfondimento
dell'insondabile, tra le pieghe nascoste della coscienza, nelle
parti in ombra, dentro le anomalie. La maternità di questo
romanzo è lontana anni luce dalla responsabilità
e dalla cura; è istinto animalesco, senso del possesso
e diritto all'abbandono.
La vita dell'Arminuta (nel romanzo la protagonista non ha altro
nome) cambia all'improvviso e in modo radicale. Dopo un'esistenza
agiata, fatta di privilegi benestanti come la danza, il nuoto,
le vacanze al mare, una confortevole casa borghese, la ragazzina
si ritrova in un contesto povero e difficile, dove occorre imparare
a lottare per un boccone di cibo in più. E pure alla
svelta.
Due mondi inconciliabili, moderno e avanzato l'uno, retrivo
e rozzo l'altro.
Nella sua nuova casa, stretta spoglia e buia, non c'è
posto per l'affetto né per lenzuola pulite, non c'è
compassione né comprensione, e anzi per due dei quattro
fratelli maschi lei diventa da subito “un accidente, un
impiccio per tutti”.
Però c'è sua sorella Adriana, più piccola
di un paio d'anni, che la accoglie con gli occhi stropicciati
e le trecce sfatte, ma che mostra di avere nei suoi confronti
sentimenti di affetto e protezione. Tanto che le due, pur così
diverse, diventano presto inseparabili. E c'è suo fratello
grande Vincenzo, quasi diciottenne, col quale si instaura un
rapporto fatto di fascinazione e affetto, che rappresenta per
l'Arminuta, pur nella sua ambiguità, un barlume di sollievo
in tanta disperazione.
È tra queste figure impegnate nella sopravvivenza quotidiana
che la protagonista cresce, suo malgrado.
Tra quegli “spiriti vivi” che dice Silone, che si
“ribellano al destino in forme accessibili”. Che,
malgrado tutto e nonostante l'evidenza, coltivano da qualche
parte particelle di speranza.
Così lei diventa grande sperimentando desolazione e violenza,
annusando la pelle di Vincenzo, condividendo il materasso con
la sorella, ascoltando il letto dei genitori che cigola di notte,
impietoso e senza amore. Ritrovandosi tra i piedi l'ennesimo
fratellino, il più indifeso.
Ma anche trovando senso alle domande inevase, e scovando pezzetti
di dolcezza in mezzo ai rifiuti.
“L'Arminuta” è una storia estrema ma dai
toni quasi riservati, che si legge d'un fiato, che resta attaccata
ai nervi prima e più che al cuore.
E se ormai Elena Ferrante è divenuta un termine di paragone
quasi obbligatorio per chi sceglie – specie se donna –
di affrontare la narrazione al femminile, ha ragione la Di Pietrantonio
quando afferma di sentirsi stilisticamente più vicina
ad Agota Kristof, con la sua prosa secca e senza cedimenti.
Come dicono i gemelli della Trilogia della città di K.:
“il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di
precisione e di obiettività”.
Vale anche in Abruzzo, terra di santi, scalpellini e anarchici.
Claudia Ceretto
Wes Anderson/
Non solo un regista che piace alla gente che piace
È considerato uno dei più innovativi e talentuosi
registi dell'ultima generazione del nuovo cinema americano:
Wes Anderson, cinquant'anni, alto, elegante, allampanato e con
un perenne sguardo da bambino curioso che si è perso
nel supermercato. I suoi personaggi si muovono imperfetti e
titubanti in un universo perfetto, senza spigoli o colori fuori
posto, i suoi set sono una sorta di case di bambole dove nessun
dettaglio è inutile.
Dal suo esordio nel 1996 con Un colpo da dilettanti,
e negli otto lungometraggi successivi fino allo splendido L'isola
dei cani (2018), film d'animazione Orso d'argento al festival
di Berlino 2018, Wes Anderson ha dato modo di far sbizzarrire
la critica americana e italiana, che ha visto in lui e nella
sua graffiante eleganza l'autore modello di una generazione
hipster, borghese, liberal e illuminata, in grado di
mettere in risalto psicologie disturbate di uomini e donne perennemente
fuori luogo in un mondo sempre più incomprensibile. Insomma,
l'autore che piace alla gente che piace, e che è in grado
di apprezzare le sue citazione colte, i suoi caratteri stilizzati
e i suoi set sgargianti e controllati.
Ciò ha determinato una sorta di miopia percettiva in
gran parte della critica, fuorviata forse dall'apparenza e dalla
patina borghese dei suoi film, che ha quasi sempre ignorato
gli aspetti di critica sociale o addirittura politici, fortemente
presenti nei suoi lavori e, in modo particolare, negli ultimi
quattro film (Fantastic Mr. Fox, Moonrise kingdom,
Gran Budapest Hotel e L'isola dei cani).
Il riferimento autoriale che viene spontaneo per la costruzione
artificiale delle sue ambientazioni è Federico Fellini.
Come lui, Anderson ha l'ossessione demiurgica di costruire un
universo intorno ai propri personaggi i quali, come in Fellini,
sono spesso stilizzati in maniera bozzettistica e quasi caricaturale.
Ma è come se, guardando il film La dolce vita,
ci fermassimo a osservare la descrizione degli ambienti, il
passeggio su via Veneto o il Cristo trasportato in elicottero
compiaciuti di tanta sapidità descrittiva, senza prestare
attenzione alla critica feroce che il regista riminese fa alla
società del suo tempo.
La famiglia, come formula e istituzione, distonica e disfunzionale,
è al centro di molti film di Anderson. I Tenenbaum
(2001) è un ritratto di famiglia in un interno dove nessuno
si sente a proprio agio e dove un padre da sempre assente, interpretato
da un eccellente Gene Hackman, cerca di recuperare il tempo
perduto e una paternità che non ha mai prima d'allora
cercato, cosciente della propria inadeguatezza.
Ma, a ben guardare, non è solo la famiglia al centro
dell'attenzione di Anderson, ma tutti gli aspetti istituzionali
che sono sottesi a un sistema autoritario, in primo luogo la
polizia, l'esercito, la difesa normativa e di fatto della proprietà.
Ma andiamo per ordine: Moonrise Kingdom è una
storia d'amore tra due adolescenti, Sam e Suzy, ambientata in
un'isola sperduta, desolata e immaginaria del New England. Non
ci sono che pochi abitanti ma vi è una pattuglia di polizia
che garantisce l'ordine contornata da cormorani e da sardine.
Il poliziotto capo è triste e cosciente della propria
inutilità, così come buona parte della popolazione
adulta, mentre gli adolescenti sono animati da una vitalità
incandescente pronti ad amare e a emozionarsi.
Nell'isola, nei pochi giorni di fine estate in cui è
ambientato il film, staziona una brigata di boy scout, tratteggiata
da Anderson come una grottesca parodia del mondo militare fatto
di adunate, encomi e rimbrotti, accettati di buon grado dai
ragazzini in divisa, messi in riga e sull'attenti, tra saluti
militari e signorsì. Completa il quadro Servizi Sociali,
un'algida signora, interpretata da Tilda Swinton, che non esita
a prospettare l'orfanotrofio e l'elettroshock al protagonista,
orfano adolescente, ribelle, innamorato e riottoso alle regole.
Anche in Grand Budapest Hotel (2014) ritroviamo la divisa
ampiamente derisa e dileggiata da Anderson in un film scoppiettante
che è una sorta di elogio della fuga che percorre due
generazioni e due epoche. In un'inventata repubblica Zubrowska,
nell'austero Grand Budapest Hotel il Novecento è attraversato
da due successive occupazioni segnate da due divise. Dapprima
quelle naziste e poi quelle delle truppe sovietiche. Il film,
che intende omaggiare il mondo fantasioso di Stefan Zweig, è
una sorta di fuga senza fine di Gustave, concierge e
successivamente padrone del Grand Budapest Hotel, inseguito
dalle polizie di mezzo mondo e aiutato da una fantomatica massoneria
dei portieri d'albergo, la “Società delle Chiavi
Incrociate”. Ancora ritroviamo le uniformi, anche se sono
solo quelle dei concierge, che passano sotto lo sguardo
irridente di Wes Anderson.
Ma è forse nel suo ultimo film, L'isola dei cani,
in cui il nostro regista si misura per la seconda volta con
il cinema di animazione, che i motivi libertari prendono forma
più evidente. La plastilina e il cinema in stop motion
rappresentano per il regista texano una straordinaria opportunità
per controllare interamente i propri set e per far muovere i
suoi personaggi in ambienti dove niente è casuale e dove
ogni dettaglio è in qualche modo funzionale alla narrazione.
Nella città, anche questa volta immaginaria, di Megasaki,
in un 2038 distopico e in un Giappone dove tradizione e modernità
si fondono in una democrazia di tipo televisivo, i cani, portatori
di un'artefatta pericolosa infezione, vengono confinati su un'isola
precedentemente destinata alla raccolta dei rifiuti. Un ragazzino,
nipote adottivo del sindaco, con un piccolo velivolo si reca
sull'isola alla ricerca del suo cane. L'isola dei cani
è probabilmente il film più riuscito e ambizioso
di Wes Anderson, per la complessità dei temi trattati,
da quello ecologico a quello della libertà individuale,
dal rapporto uomo-animale a quello, ineludibile per Anderson,
della sopraffazione dell'uomo sull'uomo che porta inevitabilmente
alle segregazioni e alle deportazioni che hanno segnato il Novecento.
Tutto questo viene presentato nel film con una compresenza e
una complessità di piani narrativi e con soluzioni fantasiose
che vanno oltre la semplice metafora uomo-animale.
Un film stratificato e complesso come la musica di Mozart, che
può essere fischiettata e apprezzata da un bambino e
nel contempo analizzata con strumenti di comprensione in grado
di valutarne la raffinata costruzione e l'intima bellezza.
Facendo un passo indietro di diversi anni, Fantastic Mr.
Fox (2009), l'esordio di Anderson nel cinema d'animazione,
è un adattamento dell'omonimo racconto di Roald Dahl.
Il rapporto uomo-animale-natura, centrale nel libro di Dahl,
non viene eluso da Anderson che sembra aggiungere una sorta
di importante postilla rappresentata dal feticismo delle merci
e dal senso di proprietà, rivelato con violenza dai tre
uomini proprietari di galline che cercano in ogni modo di eliminare
la volpe, Mr. Fox, e la sua piccola famiglia.
Nella sua fuga senza tregua, Fox scava gallerie su gallerie
e alla fine sbuca in un supermercato dove il film trova il suo
agrodolce happy end. La volpe e la sua famigliola si muovono
circospetti e felici tra le corsie del supermarket quando il
figlio porge al padre una mela rossa e lucente coperta da stelline
argentate. È il trionfo dell'artificiale e del superfluo
che ben si presta, metaforicamente, come finale di queste disordinate
note sul cinema di un grande e originale regista contemporaneo.
Gabriele Veggetti
L'anarchia tra i pali/
Ricky Albertosi, il portiere irriverente
Alla fine anche Nereo Rocco, che fu suo allenatore al Milan,
dovette riconoscere disarmato: “Ha tutto quello che non
posso sopportare: beve, fuma, fa tardi la sera, è pieno
di donne, scommette ai cavalli. Ma me lo tengo stretto perché
è il miglior portiere del mondo”. Albertosi Enrico,
per tutti Ricky, classe 1939, da Pontremoli in Lunigiana, terra
dei libri, forse non sarà stato “il migliore del
mondo” come pensava il “Paron”, ma sicuramente
il più grande e spettacolare guardiapali nella storia
del nostro calcio. Antitetico al suo rivale per eccellenza,
l'immenso Dino Zoff, ha coniugato tra i pali stile e bellezza,
stravolto canoni tradizionali, legato all'intervento delle mani
quello coi piedi e spostato in avanti la posizione, spesso fino
al dischetto del rigore. Un rivoluzionario anche nel liberare
la figura del portiere dalla luttuosa divisa nera per indossare
smaglianti maglie rosse (al Cagliari) e gialle (al Milan). Ma
Ricky il ribelle è stato, soprattutto, l'estremo difensore
che con plasticità svolazzava da un legno all'altro anche
per grazia di un fisico slanciato e leggerissimo.
Dei
veri e propri capolavori di acrobazia erano quei suoi stacchi
di reni che, tra l'elevazione dal terreno e l'arco disegnato
in sospensione dalla schiera, andavano a intercettare la sfera
dove nessun altro collega sarebbe arrivato. Spettacoli d'artista
regalava al pubblico Ricky, che Manlio Scopigno, al tempo del
fortissimo Cagliari “scudettato” di Gigi Riva, Domenghini,
Nenè, Cera, lo scavò nel fondo dell'anima fino
a considerarlo un Platone.
A questo anarchico e straordinario James Dean dell'arte pedatoria
anni sessanta-settanta è stato dedicato, per la casa
editrice Urbone Publishing, Ricky Albertosi: romanzo popolare
di un portiere (Praga – Repubblica Ceca, pp.135, €
13,00), un volume con cui per la prima volta si presenta ai
lettori il “Collettivo Soriano”, schierato con lo
scrittore Cosimo Argentina, il critico Massimo Raffaeli, l'ex-portiere
del Cesena dalle sette vite Lamberto Boranga, i cronisti Massimiliano
Castellani, Darwin Pastorin, Sergio Taccone, Emanuele Dotto
e Furio Zara. Tutti bracconieri di “storie altre”
dello sport, uniti inoltre da una sconfinata passione per la
scrittura della “vedette” argentina Osvaldo Soriano
(1943-1997).
Sarebbe qui superfluo aggiungere che la carriera di Albertosi
è stata costellata da grandi soddisfazioni, ma è
bene ricordare ancora una volta che già poco più
che ventenne alla Fiorentina superò il maestro Giuliano
Sarti e conquistò la maglia numero uno della nazionale,
vinse una Coppa Italia e una Coppa Mitropa sempre con la Viola,
due scudetti, il primo storico col Cagliari e l'altro a quarant'anni
alla corte del Milan, partecipò a quattro mondiali e
mentre si preparava per il quinto (quello del 1978 in Argentina)
venne chiamato da Enzo Bearzot che gli comunicò con qualche
imbarazzo: “Ricky scusa, ma Zoff mi ha detto che se vieni
tu come secondo non si sente tranquillo. Mi spiace”. Chiuderà
la carriera a 44 anni con l'Elpidiense in C/2 elargendo ancora
acrobazie e spettacolo. Come in un Matera-Elpidiense del campionato
1982-83. 1-1 il risultato finale, ma per un telecronista lucano
“la partita sarebbe dovuta finire 11-2 per i biancazzurri
di casa”. Il vecchio Ricky (sempre in maglia gialla) anche
in quell'occasione fece il fenomeno e all'uscita dal campo gli
applausi furono soltanto per lui, mentre un pugno di ragazzini
lo accerchiava per strappagli l'autografo.
Una carriera da primo della classe in tutti i sensi che, purtroppo,
si macchierà una domenica di marzo del 1980, quando verrà
prelevato dalle forze dell'ordine sulla tribuna di San Siro
e accompagnato in questura. Il suo nome comparirà tra
i tredici calciatori fermati per storie di partite truccate.
Albertosi finirà a Regina Coeli dove, dirà, “ho
mangiato i migliori bucatini della mia vita, li aveva cucinati
un compagno di cella”. Verrà squalificato dal giudice
sportivo per due anni, ma nel dicembre del 1980 la giustizia
riabiliterà tutti gli imputati per non aver commesso
il fatto. La vicenda delle scommesse rimarrà una ferita
aperta, dolorosa, un cruccio che lo sfrontato Ricky non è
riuscito ancora a scrollarsi.
La carriera e la vita di questa icona del nostro calcio sono
un autentico romanzo popolare, narrate nelle pagine del “Collettivo
Soriano” con slancio, calore umano e, persino, con un
delizioso racconto di fantasia di Massimiliano Castellani, il
quale immagina che quell'altro incallito scommettitore e viveur
che fu Beppe Viola ritorni fra gli uomini per intervistare l'amico
Ricky che si trova in un letto di ospedale a lottare tra la
vita e la morte.
In realtà Albertosi in coma ci è finito veramente
quando aveva sessantaquattro anni, a causa di un infarto, ma
poi si è ripreso. In un'intervista ha detto che risvegliarsi
dal coma è stata la più bella parata della sua
vita. È volato dal legno della morte al legno della vita,
soprattutto per la forza dell'amore che lo lega alla sua inseparabile
Betty e ai nipoti.
Mimmo Mastrangelo
|