rivista anarchica
anno 38 n. 333
marzo 2008


dibattito

Pensare la rivoluzione
di Maria Matteo

 

Se ne parla poco eppure è centrale nella nostra storia, nei nostri programmi, nei nostri desideri. Ma pensarci e discuterne non basta. Forse bisognerebbe iniziare a farla.

 

Di questi tempi azzardarsi a pensare il proprio agire politico sotto l’orizzonte della trasformazione sociale di senso libertario pare equivalere ad un esercizio retorico senza prospettive. Con ogni probabilità non senza ragione. Che senso concreto ha il pensare la rivoluzione quando questa pare scomparsa dall’orizzonte politico, culturale dei più? Quando non solo appare improbabile ma addirittura indesiderabile?
Eppure se il pensare la rivoluzione viene accantonato in attesa di tempi e luoghi più propizi non si rischia di rendere vacuamente contingente, occasionale, anche il nostro impegno quotidiano contro lo stato e il capitale? Contro il dominio nelle sue più diverse manifestazioni?
Qualcuno potrà dire che è inutile pensare a scalare le montagne se prima non si attraversa il deserto che ci separa da esse: meglio quindi affrontare il contingente, affondare le mani nell’oggi dolente e disperato che siamo forzati a vivere piuttosto che perdersi nel congetturare improbabili scalate. È una tentazione forte quella della concretezza, della ricerca del possibile, del rifiuto di un’inattuale prospettiva radicalmente altra. Peccato che questa concretezza sia più metaforica che reale, utile a resistere all’avanzata feroce del peggio, del tutto inadatta a passare dalla resistenza al progetto, alla proiezione, foss’anche su scala limitata verso un futuro che porti un segno diverso dall’attuale.
Resistere è necessario ma se basta a se stesso finisce per configurarsi come momentaneo rallentamento della barbarie, mentre tristemente ci si prepara a piazzare sempre più indietro la nostra barricata. La mera resistenza diviene spazio di conservazione della dimensione identitaria del rivoluzionario, una bandiera da sventolare, non il luogo di un agire politico e sociale radicale.
Il rischio o, meglio sarebbe dire, la conseguenza più volte sperimentata di quest’atteggiamento, è l’incapacità di cogliere le occasioni che si presentano perché troppo abituati a pensare che vi siano limiti difficili da valicare. Ma non solo. Il rischio ancor più forte è quello della rassegnazione, dell’accontentarsi di poco, del finire con il rendersi, fors’anche involontariamente, compatibili con l’esistente, meri testimoni di un’utopia bella e impossibile.

Salvaguardare la struttura?

Le lotte dei lavoratori, quelle antimilitariste, il fronte antirazzista ci forniscono continui esempi del chiudersi di ogni prospettiva quando i movimenti si impantanano nel presente, senza peraltro riuscire ad azzannarlo alla gola, rimanendo spesso confinati nella dimensione testimoniale.
La parabola del sindacalismo di base ne è dimostrazione lampante: al suo interno negli ultimi anni vi è stata, pur tra mille contraddizioni e forti spinte di segno opposto, la tendenza a salvaguardare la sopravvivenza della struttura in quanto tale. Talora capita che un sindacalismo nato per rompere con le burocrazie e la concertazione, finisca con l’accettare, pur non volentieri, lacci e lacciuoli imposti dalle leggi antisciopero, si adatti a fare vertenze in tribunale e a svolgere funzioni di patronato, riproduca logori meccanismi burocratici, rischiando di perdere lo slancio iniziale.
L’opposizione alle guerre che in questi anni hanno visto il nostro paese impegnato in prima fila, con uomini e mezzi nell’occupazione coloniale della Bosnia, del Kossovo, dell’Iraq e dell’Afganistan, pur coinvolgendo nei suoi momenti più alti milioni di persone, si è limitata ad una rivolta morale che ha impressionato ben poco i governanti di turno, che, convinti della missione dell’Italia nel mondo, hanno continuato a spendere miliardi per mandare i soldati tricolori in giro di qua e di là a compiere le loro imprese “umanitarie”.
Parimenti il fronte antirazzista raramente ha saputo andare oltre la denuncia delle malefatte di governanti e padroni, ancor più raramente è stato capace di dar vita ad iniziative che mettessero alle corde un meccanismo di esclusione sociale tanto feroce quanto abile nel giocare sulla paura per giustificare leggi razziste, e, nel contempo, nell’usare le leggi razziste per allargare il solco tra lavoratori immigrati e lavoratori indigeni, alimentando la guerra tra poveri.
Qualcuno potrebbe obiettare che la critica è buona quando contiene una proposta diversa, altrimenti può ridursi a mero latrare alla luna. Le difficoltà che incontra chi si muove all’interno dei vari movimenti di opposizione sociale sono grandi e non certo risolvibili con uno sforzo di volontà, con un salto in avanti, con un colpo di reni decisivo. Sappiamo bene che non basta volere, ma occorre potere e il poter fare dipende in buona parte dal consenso che le proprie proposte incontrano.
Facciamo qualche esempio: non basta voler cancellare le norme antisciopero, occorre che vi siamo tanti lavoratori disposti a violarle sino al punto da renderle inefficaci. Non basta auspicare il sabotaggio delle strutture militari, occorre che questa divenga una pratica condivisa e diffusa. Non basta volersi opporre alla guerra tra poveri, occorre un’ampia disponibilità a rompere concretamente i meccanismi che la rendono possibile, sia quelli culturali come il pregiudizio e la paura dell’altro, sia quelli materiali quali i cpt e la repressione in strada. Chi crede di sciogliere questi nodi correndo in avanti da solo, convinto della forza dell’esempio, commette un grave errore. Chiunque pretenda di accelerare senza badare alla disponibilità di altri a seguire quel percorso nega il fine adottando mezzi che lo contraddicono, ponendosi come avanguardia, al di fuori e al di sopra dei contesti sociale in nome dei quali espleta la propria azione.

L’importanza del desiderio

Allora l’unica scelta possibile è tra riformismo e velleitarismo? Tra un realismo che porta alla paralisi del futuro e un volontarismo sordo e cieco?
In buona parte ciò che apre o chiude un orizzonte è la sua desiderabilità, un suo parlare che si faccia narrazione, storia di uno e storia di tanti, humus in cui affondare radici e insieme ascia che taglia i rami morti. Ciò che mette in gioco o getta fuori dall’arena la rivoluzione non è la possibilità di farla, ma il desiderio che si realizzi.
Beninteso la narrazione di cui parliamo è in sintonia con quanto di meglio ci ha consegnato l’eredità del ’900, che vuole le narrazioni plurime, costantemente in fase di scrittura, talora sin minimaliste. Il ’900 si è chiuso con la fine di ogni grande narrazione, aborrendo qualsiasi filosofia della storia, qualsiasi codice universale capace di promettere paradisi senza neppure sottoporsi all’onere crudele della prova.
Questo argomentare non è tuttavia un serpente che si morde la coda? Un avvilupparsi di spire che non conducono altro che a se stesse? Un interrogarsi che non trova sbocco?
C’è un luogo dove si passa dalla resistenza al progetto, dove la negazione dell’oggi si coniuga alla costruzione del domani?
Sono convinta, e varie esperienze me lo confermano, che questo luogo si dia ogni volta che si realizza una rottura, anche momentanea, dell’ordine simbolico, quando il senso dell’ordine sociale si capovolge, mettendo a nudo i meccanismi del potere, ma anche la sua vulnerabilità, il suo non poter prescindere dal consenso se non sprofondando la società nel terrore. Quando ciò accade si mette in moto la consapevolezza che questo non è il solo orizzonte possibile, il solo desiderabile, il solo capace di farci vivere non troppo male.
Per una breve stagione questo è accaduto in Val Susa, quando nel 2005 si è consumata una rivolta che ha coinvolto migliaia di persone che sino a pochi mesi prima mai si sarebbero immaginate capaci di percorrere i sentieri dei padri e dei nonni per resistere alla polizia, che a suon di botte pretendeva di imporre una scelta non condivisa. Migliaia di persone hanno eretto barricate, fatto assemblee, acquisito l’inebriante consapevolezza di poter prendere in mano il proprio destino senza tutele e senza rappresentanze. Quello che è accaduto in quell’inverno non si capirebbe se non si pensasse al lungo lavoro di informazione e lotta che ha creato i presupposti per un agire locale che avesse al centro l’interesse generale. Ma nemmeno si capirebbe se non si cogliesse che la rivolta stessa ha dato una fortissima accelerata ad un processo di maturazione collettiva che altrimenti sarebbe rimasto imbrigliato nelle maglie della compatibilità istituzionale. Infine, sarebbe stolto sottovalutarlo, in quell’occasione si è vinto e vincere fa dannatamente bene. I rivoluzionari che pensano che l’etica dei santi e martiri sia la più efficace e coinvolgente dovrebbero di tanto in tanto avere il piacere di assaporare il gusto di una buona vittoria. Che la sfiga sia un blasone da esibire è un’idea sciocca che va bene solo per i nostalgici del ’900 e per i tifosi del Torino.

La proposta anarchica

La rivoluzione all’alba del 2000 non sarebbe altro che una piccola narrazione? Una storia da raccontare e vivere pezzo e pezzo in mille periferie ma nella consapevolezza di voler aggredire il presente per non privarsi del futuro? Una storia che si pensa universale solo quando racchiude in se i tanti luoghi, suoni, sapori con cui si coniuga la libertà? Sì anche. Occorre passare dall’universale astratto di matrice illuministica ad un universale concreto, che si dia nell’accettazione delle differenze, nella scommessa della pluralità delle opzioni che una relazione sociale libertaria può porre. Il che non implica l’eliminazione di un orizzonte assiologico di segno libertario, ma la volontà di esperirlo e non darlo già per dato.
La proposta anarchica, di fronte alla decadenza delle visioni autoritarie prevalenti all’interno dei movimenti di emancipazione sociale del secolo scorso, si è dimostrata estremamente vitale proprio perché, costitutivamente, non escatologica, non chiusa, non cristallizzata in una teoria rigida, non legata ad un qualsivoglia soggetto, perché, pur consapevole dell’importanza dei processi collettivi, è sempre stata attenta alla dimensione individuale dell’agire politico e sociale.
La pensabilità della rivoluzione, della trasformazione sociale, si da nell’azione quotidiana di concreta rottura dell’ordine simbolico e reale nel quale siamo immersi. Questa rottura apre un orizzonte, mostra un’alternativa, ce ne fa toccare la desiderabilità.
Viviamo in un mondo feroce impiastrato di sangue, merda e soldi e ci raccontano che questo è il migliore dei mondi possibili, viviamo in un film dell’orrore e ce lo descrivono come il giardino dell’eden. Il guaio, lo sappiamo, è che tanti, troppi vedono questo film. Poi capita che da qualche parte qualcuno apra le porte del cinema e cominci a guardare il mondo con i propri occhi. Poi capita che senza padroni e padrini qualcuno si riprenda un pezzo di vita. Il desiderio che anticipa la scelta si forgia nel progettare come nell’agire.
Si è sempre ritenuto che per fare la rivoluzione occorresse cominciare a pensarla. Forse, per pensare la rivoluzione occorre cominciare a farla.

Maria Matteo