Rivista Anarchica Online
Chi ha paura del lupo cattivo
di Guido Musso
Discorso sul neo-fascismo e sul neo-antifascismo
Prima di fare un discorso sul fascismo degli anni '70, è forse
necessario dedicare qualche parola agli
antifascisti degli anni '70. Si tratta di un antifascismo divenuto ormai di comodo, quasi un alibi per
scaricare la propria coscienza dalle molte collusioni col potere costituito e con lo stesso fascismo
più o
meno mascherato. Una antifascismo serio, come pretende di essere quello nato dalla lotta contro la
dittatura e dalla Resistenza, avrebbe da tempo spazzato via le ultime vestigia di Salò e non
avrebbe certo
permesso il costituirsi, oltre che del MSI, delle squadracce nere. Ma, al di là del generico invito
all'unità
antifascista, non c'è la reale volontà di farla finita per sempre col fascismo. Dopo il vile
crimine di
Catanzaro, parlando delle manifestazioni antifasciste svoltesi a Roma, il "rosso" Paese-Sera
scriveva: "Gli episodi di violenza a cui ieri hanno dato vita, a Roma, gruppi di giovani legati alle
organizzazioni
della sinistra extraparlamentare, sono inammissibili e condannabili, anche se vengono dopo
le violenze
fasciste, dopo l'attentato di Catanzaro, dopo le spedizioni punitive contro i
lavoratori, gli studenti, gli
antifascisti". A nessuno è sfuggito il diverso modo con cui la stampa nazionale, moderata
e no (si fa per dire), ha
trattato queste ultime bombe e quelle, sempre fasciste ma fatte passare per anarchiche, del 12 dicembre
'69 a Milano: subito dimenticate le prime, continuamente rispolverate per giustificare la repressione le
seconde. A nessuno è sfuggita la cautela delle dichiarazioni dei funzionari di polizia, riguardo
al caso di
Catanzaro, ed il contrasto con gli sproloqui accusatori, calunniosi e isterici contro Valpreda, Pinelli e gli
anarchici in genere. A nessuno è sfuggito il senso del discorso di Colombo, che ha invitato a non
sopravvalutare il pericolo fascista e a non sottovalutare l'opposto "estremismo di sinistra". Il problema
è più serio di quanto si immagini. Non tanto per lo squadrismo fasciste in sé,
quanto per le
soluzioni che gli "antifascisti" hanno già pronte. Un fatto è certo: ai cosiddetti
democratici, gelosi custodi
e difensori delle istituzioni repubblicane, nate dalla resistenza, ecc., a costoro non importa un fico secco
del fascismo sostanziale, della realtà dello sfruttamento e del privilegio, che è di
fatto una realtà fascista,
viva, presente quotidianamente, nelle istituzioni, negli organi dello Stato, nel comportamento dei singoli
e dei gruppi. La burocrazia è già un'entità fascista, e specialmente in Italia (ma
non solo da noi) alimenta
naturalmente il fascismo. Gli enti pubblici, consortili, le corporazioni mai smantellate, le cosche statali
e del parastato, il mito assistenziale, mafioso, caritativo, tutto ciò è fascismo nella
sostanza. Per il fascismo sostanziale i cosiddetti partiti antifascisti sono sempre alla ricerca di una
soluzione
compromissoria: sono contro il fascismo e nello stesso tempo sono per l'autorità dello Stato, per
una
polizia forte, per una burocrazia privilegiata, naturalmente al "servizio del paese", ecc. ecc. Troppo
spesso si dimentica che squadracce, spedizioni punitive, intimidazioni e provocazioni non sono
un movimento spontaneo (se pur negativo), quali possono essere gli scoppi d'ira proletaria, le sommosse
e buona parte delle lotte extraparlamentari di sinistra. Al contrario, esse sono programmate e organizzate
in alto loco, artificialmente dilatate o sgonfiate a seconda dei casi e delle necessità, indirizzate da
"ordini
superiori" in questa o quella direzione, pagate coi soldi di grossi personaggi in stretta connessione col
potere politico, e soprattutto permesse dalla acquiescenza della polizia, dalla benevolenza
dei denuncianti,
dalla tolleranza dei giudici, tutta gente, si badi, che non agisce mai - o quasi mai - di propria iniziativa,
ma sulla base di indicazioni ben precise, ricevute dall'alto. Cioè, in una parola, da quei
democratici
antifascisti che, poi, vengono a metterci in guardia contro la violenza degli opposti estremismi. Tutto
questo non avviene senza motivo, ma fa parte di una manovra cosciente, progettata probabilmente
da parecchio tempo (molto prima delle bombe di Milano), con la quale la classe dirigente italiana tenta
di rinsaldare definitivamente il proprio potere. La politica pragmatica, opportunista,
del PCI, ha oggi lasciato un vuoto operativo tra le masse popolari.
La strategia dell'apparato comunista è piuttosto elementare: puntare tutto sulla vittoria elettorale
e sugli
strumenti di potere esistenti. La borghesia ha già pronta una struttura, perché
distruggerla, per costruirne
un'altra? Tanto più che l'esperienza storica ha dimostrato, che ricostruire una struttura, un
apparato del
potere, in una società diretta da un partito-guida marxista-leninista, è sempre
un'operazione di
ristrutturazione del privilegio. Allora, tanto vale lasciare le cose come sono e operare all'interno delle
strutture, facendone un campo di manovra e uno strumento di potere partitico, di tipo comunque
borghese. Dal punto di vista della strategia politica il discorso comunista non farebbe una grinza,
se non
ci fosse la presenza attiva, umanamente incontrollabile delle masse popolari, che mette continuamente
in crisi una strategia che, in sé, non tiene alcun conto degli interessi più profondi delle
classi lavoratrici. Per entrare con un minimo di coerenza politica nell'area governativa o quanto meno
nei poteri del
sottogoverno, il PCI è costretto ad eludere la sua più grande contraddizione: deve
rinunciare
sostanzialmente alla cosiddetta politica del "doppio binario". Le sue dichiarazioni di
"disponibilità" non
possono cioè più essere contraddette, se non marginalmente, dalla sua guida effettiva
delle agitazioni di
base. Rinunciando alle lotte popolari, anche sul piano ufficiale, dopo avervi rinunciato 25 anni fa sul
piano sostanziale, il PCI credeva di poter accantonare un problema impunemente, senza ricercarne la
soluzione. Ma il "vuoto" lasciato dal PCI è stato presto occupato dalla contestazione di sinistra,
e ciò ha
messo in allarme non solo il PCI stesso ma l'intero schieramento borghese. Il neofascismo
organizzato nasce appunto da questa nuova situazione. A cosa serve, il PCI al governo? A garantire
la pace sindacale, senza la quale è quasi impossibile
governare. Ma per ottenere ciò, è necessario che la "concorrenza" della sinistra
extraparlamentare venga
eliminata, che venga restituito ai comunisti il ruolo di unici "gestori", con la potenza del proprio apparato
propagandistico e organizzativo, delle lotte operaie. Ed ecco che nasce la teoria degli "opposti
estremismi", basata prima sugli attentati provocatori, eseguiti dai sicari fascisti e attribuiti agli anarchici
(sempre primi sul banco degli accusati), e rinsaldata quindi dai "rigurgiti fascisti" dei nostri giorni. Questo
ha una duplice funzione: 1) creare artificialmente la psicosi del pericolo fascista (più efficace,
tutto sommato, che non quella
dell'eversione rivoluzionaria, almeno a livello delle masse operaie) e riformare l'"unità" dei
lavoratori con
la scusa della "lotta al nemico comune". 2) creare il pretesto per una azione sempre più
"incisiva" (leggi: repressione politica) degli organi di
governo nei confronti delle lotte operaie in generale, e dei gruppi della sinistra extra-parlamentare in
particolare. Una volta che questo sia compiuto, una volta che la polizia possa mettere tranquillamente
in galera i
"sovversivi", senza rischiare proteste popolari e agitazioni di piazza, una volta che l'autorità delle
rappresentanze sindacali "accreditate" sia ristabilita all'interno delle fabbriche, la classe dirigente italiana
avrà finalmente il tempo e la possibilità di portare in porto quelle riforme che ne
sanciranno
definitivamente la stabilità al potere. Come quarant'anni fa, i fascisti si stanno rivelando utilissimi,
ma a
differenza di allora, non per un colpo di stato appariscente con i manipoli in piazza, ma per
un'involuzione autoritaria che avvenga nel rispetto della costituzione. Col PCI al governo, la "democrazia
italiana" potrà contare, almeno per un po', su risultati elettorali sicuri. Compiendo il miracolo di
avere una
dirigenza politica stabile e continuativa, nel rispetto della pluralità dei partiti e senza il bisogno
della lista
unica. A Reggio Calabria è avvenuto in questi ultimi mesi qualcosa di più di una
rivolta. Reggio è stata un test
di grande importanza per capire la realtà di una situazione, che invano i partiti "democratici"
hanno
cercato di nascondere o di eludere. In Calabria, senza che molti all'inizio se ne rendessero conto, la nuova
strategia della borghesia più reazionaria ha avuto la sua prova generale. Elementi primari di tale
strategia:
scegliere il punto di maggior contraddizione e di rottura; scegliere la motivazione
più "provinciale"
"patriottica" e campanilistica (il fascismo è sempre provinciale, patriottico e
campanilistico); innestare
la protesta su un corpo sociale lacerato, deluso, totalmente ostile alla gestione del potere da parte dei
partiti cosidetti antifascisti di governo, come pure di quelli che si definiscono "di opposizione". A
Reggio c'è stato un rimescolamento degli interessi costituiti o in via di ricostituzione: notabili,
corruttori,
malversatori, speculatori, usciti dalle cosche politiche ufficiali, hanno intrapreso un'avventura in proprio
in nome della patria Reggio. Il denaro pubblico viene versato a fiumi dalle varie "casse" e, per
intermediazione pratica, è servito a finanziare una lotta popolare, in cui il popolo
è stato ingannato due
volte: una riguardo agli strumenti, l'altra riguardo alle finalità. La reazione fascista e nazifascista
ha capito
che il sottoproletariato, l'umile popolo privo di obiettive informazioni, può essere strumentalizzato
per
trasformare una giusta ribellione al sopruso, in una manovra di potere da parte di chi ha nel sopruso la
sua ideologia. La lotta contro la polizia è stata, da parte dei neofascisti dei comitati d'azione, un
continuo
ammiccare per non essere fraintesi. La stessa polizia che a Roma ha massacrato di colpi indiscriminati
i ragazzi della Casa dello Studente, non era più la polizia fascista ma uno strumento "repressivo"
al
servizio del governo "rosso" di Colombo. Il che farebbe discretamente sorridere se non si trattasse di un
inganno alimentato ad arte per far credere al popolo di lottare contro il sistema, mentre in realtà
si vuole
un sistema più forte per ingabbiare il popolo e dar via libera alla sopraffazione e a un più
feroce
sfruttamento. Nella rivolta di Reggio le masse popolari hanno svolto una parte attiva ma non
direttiva, non hanno in
altre parole gestito la lotta, ma sono state gestite: sindacalmente dalla CISNAL, sul piano
politico dal
MSI, sul piano eversivo e insurrezionale dalle "avanguardie nazionali". I loro canti suggeriti, non erano
l'Internazionale o Figli dell'officina, ma l'inno di Mameli; la
loro bandiera era il tricolore. E questo, fuori
da ogni richiamo risorgimentale, è estremamente significativo. Ma molti a Reggio non se ne sono
accorti
e hanno creduto di fare la rivoluzione proletaria o addirittura l'anarchia. Ora, uno dei presupposti
dell'anarchismo è che le lotte popolari siano gestite in proprio, non più in funzione di un
partito presente
o futuro, ma contro la stessa idea partitica, autoritaria, di guida. L'anarchismo distrugge il fascismo
sostanziale, ed è per questo contro i centri di corruzione, i notabili, i borghesi manovrieri in veste
di
"rivoluzionari nazionali". L'anarchismo è contro il concetto di nazione e di patria, ed è
quindi il più
irriducibile oppositore del fascismo che della patria fa oggetto di mistificazione continua. Le masse
popolari non hanno nulla da guadagnare dalla "nazione" o dalla parola d'ordine "Reggio capoluogo
regionale". Non vogliono un altro governo ma la fine dei governi e del potere. La
nostra lotta antifascista è lotta coerente contro il potere, contro le centrali che alimentano, pagano
il
fascismo. Ma nello stesso tempo noi poniamo sotto accusa i partiti cosidetti antifascisti, che per
opportunismo e tatticismo, tentano di spezzare l'unità popolare col pretesto di una falsa
"unità antifascista"
nascondendo i veri obiettivi di lotta. Da ormai due anni dei giovani, dei compagni anarchici, sono in
carcere per un delitto commesso dai fascisti, per un attentato (Fiera di Milano, Stazione Centrale) di cui
sono responsabili dei dinamitardi fascisti italo-greci, e ciò è stato rivelato da un
documento del servizio
segreto dei colonnelli, pubblicato su giornali seri, accreditati, responsabili, inglesi e francesi (*). Non si
fa il processo e non li si libera, con tanti saluti al "nuovo clima" che sarebbe in atto nella giustizia italiana!
Valpreda e Gargamelli, imputati per la strage di Milano e gli attentati di Roma, attendono invano
giustizia.
Tutti ormai sono convinti della loro innocenza, ma i partiti non si muovono, non fanno alcuna pressione
politica per riparare a questa inaudita vergogna. Oggi, anche i più miopi e i più sordi,
hanno capito
finalmente da che parte viene la strategia del tritolo e delle bombe; oggi, che Malacaria (socialista del
PSI!) viene straziato da un attentato fascista; oggi, che a Trento, Varese e cento città d'Italia la
bomba
è divenuta manifestazione quotidiana del neofascismo, nessuno ha più il diritto di far
finta di ignorare
l'abominevole sopruso che viene fatto agli anarchici, capro espiatorio di una cospirazione reazionaria a
livello nazionale e internazionale.
Guido Musso
(*) L'analisi del compagno Musso sull'origine e lo sviluppo della "rivolta" di Reggio ci trova
concordi,
per quanto è dato sapere e capire di una situazione così complessa e in cui numerose
sono le parti in
gioco. Le molteplici, e spesso contraddittorie, interpretazioni fornite dalla sinistra extra-parlamentare
hanno
aggiunto con la loro superficialità altri elementi di confusione a quelli già forniti dalla
stampa borghese,
intenzionalmente mistificatrice e disinformatrice. È per questo che ci riserviamo di dire in
futuro qualcosa, se non di definitivo, certo di non smentibile dai
fatti, che, peraltro, al momento in cui il giornale entra in tipografia, sono ancora in svolgimento e possono
anche riservare sviluppi chiarificatori. È necessario, ad ogni modo, evitare di far di ogni erba
un fascio (si perdoni l'involontario doppio senso),
costringendo a viva forza la situazione reggina in quella dell'intero meridione, o, viceversa, quella del
rione proletario Sbarre in quella del resto della città calabrese. Appaiono, a dir poco, degni
di nota i fatti che danno un'impronta diversa agli avvenimenti del rione:
l'attacco alla struttura capitalistico-statale tradottosi nella distruzione di determinati uffici amministrativi
e nell'approvvigionamento collettivo dei mezzi di sostentamento, cioè nel saccheggio "egualitario"
dei
supermarket.
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