Rivista Anarchica Online
Sindacati e rivoluzione
di Paolo Orsini
Queste note vogliono affrontare la tematica attuale
dell'anarco-sindacalismo. Per impostare chiaramente
il problema pensiamo sia opportuno fare un excursus sulle lotte e sulla politica economica a partire dal
dopoguerra, poiché possiamo dare una interpretazione della storia soprattutto osservandola nelle
sue
grandi linee e non semplicemente nel breve periodo. Lo stesso dicasi per le indicazioni e la valutazione
sul lavoro di massa. Se non si affronta il problema in modo corretto, il rischio maggiore che ne
scaturisce
è quello di assumere una posizione opportunistica oppure scettica di fronte ai compiti che la
situazione
odierna ci impone.
La ricostruzione
L'economia italiana esce dalla guerra trovandosi in una situazione abbastanza critica. Gli impianti
produttivi avevano subito danni significativi nel settore siderurgico (25%) meccanico (12%)
cioè in quei
settori che si erano sviluppati in funzione bellica. La rete ferroviaria era danneggiata per il 38%. Esisteva
inoltre una forte carenza di materie prime e la grossa difficoltà di riconvergere quegli apparati
che si
erano specializzati nella produzione bellica. Il costo della vita, nel '45, si era di molto elevato rispetto
al '38, con riduzione dei salari reali che aumentarono meno del costo della vita. Ma la crisi è
anche politica: la fine della guerra trova ancora armati alcuni strati proletari che avevano
fatto la guerriglia partigiana. Il malcontento è forte e la repressione ancor di più: si
inventano i celerini
come corpo speciale antipopolare, si spara nelle manifestazioni, gli eccidi si susseguono. Nel frattempo
crescono inflazione e disoccupazione: 2.150.000 disoccupati nel '48 senza contare i sottoccupati. Il
PCI resta al governo fino al '47, ma l'unica operazione rilevante è quella di amnistiare i fascisti
(Togliatti era ministro di Grazia e Giustizia). Di fronte alla crisi economica e politica, mentre lo
stato colpisce le lotte in prima persona, scegliendo
il terreno della violenza militare antiproletaria, il PCI implora di poter collaborare per la ricostruzione
dell'economia nazionale. Intanto al Sud i contadini occupano le terre, al Nord gli operai manifestano
contro il carovita e i licenziamenti: lo stato risponde con centinaia di eccidi e decine di migliaia di feriti
e di arrestati. 14 luglio 1948: un fascista ferisce gravemente Togliatti. Senza nessuna direttiva
dall'alto scoppia in tutti
Italia uno sciopero spontaneo generale che diventa insurrezione proletaria per la sua ampiezza e durezza
e le caratteristiche armate che assume. Vengono assaltate le caserme della polizia, vengono liberati i
detenuti politici, occupate le fabbriche e i comuni, Genova intera è in mano ai proletari armati
di
mitragliatrici. Scontri con la polizia dappertutto. Ma l'esecutivo della CGIL ordina la ripresa del
lavoro per le ore 12 del 16 luglio in tutta Italia, ordina
di smettere di lottare a milioni di lavoratori che per due giorni hanno lottato contro la celere (20 morti,
migliaia di arresti). L'Unità scriverà poi "Lo sciopero ci ha reso più forti".
Infatti, la repressione, l'anno dopo, sarà ancora
più dura e sancirà la sconfitta del movimento rivoluzionario! Il terreno della
violenza militare non fu scelto a caso dallo stato: per i padroni si trattava di ricostruire
l'economia con basso costo di forza lavoro; disoccupazione e compressione salariale diventano aspetti
complementari della volontà padronale, poiché la disoccupazione diventa funzionale al
ricatto sul salario.
In questa situazione di crisi politico-economica PCI e CGIL non potevano garantire pieno controllo sul
movimento di massa per cui buona parte di questo compito se lo addossò lo stato in prima
persona,
erigendosi come netta controparte di fronte ai proletari. In quel momento esisteva un'unica
possibilità
di vittoria: accettare il terreno della violenza, scegliere la lotta armata. PCI e CGIL lo
impedirono. Ma i partiti di sinistra e i sindacati non erano e non sono semplicemente dei servi della
borghesia che per
suo conto controllano il movimento. E non sono neppure una semplice e escrescenza burocratica del
movimento operaio. Queste interpretazioni erano forse possibili prima che si conoscesse la natura dello
stato sovietico e degli stati nazional-socialisti, ma alla luce di queste esperienze dobbiamo muoverci in
una dimensione più precisa, chiarire gli interessi di classe che muovono i partiti di "sinistra". In
poche
parole le vecchie analisi che rimandavano sempre ai concetti di proletariato e di borghesia non bastano
più, occorre aggiornarle se vogliamo capire la realtà odierna. Senza insistere molto su
una lunga
disamina storica, vanno fatte alcune fondamentali osservazioni. Il fascismo di certo aveva un'origine
capitalista: industriali ed agrari lo avevano finanziato. Ma non si
doveva confonderlo semplicemente con una tendenza reazionaria ed estremamente autoritaria della
borghesia. Le posizioni anticapitaliste di Hitler e Mussolini non erano semplici manovre diversive e
propagandistiche: essi puntavano sull'economia statale proprio come succedeva in Russia, proprio come
proponeva il New Deal americano. Cambiavano solo i tempi, i modi, le ideologie, ma la linea di tendenza
si muoveva nella stessa direzione. Dopo la sconfitta militare del fascismo e del nazismo, tale
processo si è momentaneamente arrestato, ma
prevale nel lungo periodo: oggi le misure fasciste di politica economica si sono di molto sviluppate sia
pure sotto "stati democratici". È vero che nel dopoguerra le redini dell'economia italiana
vennero prese
in mano da Luigi Einaudi, liberale che credeva fortemente nel mercato capitalistico. Ma nonostante gli
intenti liberistici, restarono le fondamentali istituzioni ereditate dal fascismo (soprattutto l'I.R.I., Istituto
statale per la Ricostruzione Industriale). Da notare che il PCI aveva un programma di rafforzamento del
settore pubblico e difese l'I.R.I. che i settori arretrati volevano liquidare.
Il boom
La ricostruzione dell'economia è condizionata dalla situazione sociale italiana e dagli aiuti
americani che
nel piano internazionale della divisione del lavoro assegnano all'Europa soprattutto la "produzione dei
beni di consumo", mentre la "produzione di mezzi di produzione" è tenuta dagli U.S.A. in prima
persona.
Questi sono gli anni che portano allo sviluppo e alla piena occupazione. Il governo appoggia i monopoli
tesi verso la conquista dei mercati esteri, attraverso le facilitazioni delle esportazioni, sviluppando
l'emigrazione come valvola di sfogo alla disoccupazione. Ma come abbiamo visto la posizione
dirigenziale statunitense rispetto all'Europa pone questo tipo di
problematica nei paesi occidentali Italia compresa, e cioè mentre i livelli dei costi di produzione
rimangono costanti dove non c'è riqualificazione tecnologica questi calano però nel
mercato mondiale
dove incide la produzione americana. Superare l'handicap per l'industria
italiana e occidentale significa
accettare una fase intermedia in cui si realizzino ampi margini di profitto da convertire poi in balzo
tecnologico. Tutto questo vuol dire aumento della produttività attraverso sfruttamento
intensivo: è
proprio in questo senso che vanno interpretati gli anni Sessanta. Questo processo si accompagna
alla oggettiva necessità del formarsi e del consolidarsi di una moderna
classe dirigente, capace di riqualificare complessivamente la forza lavoro per una nuova
tecnologia. Tale fenomeno produce antagonismi non solo tra il potere e le masse popolari ma anche
tra i settori
avanzati ed arretrati dell'economia, i primi orientati verso l'autonomia dagli imperialisti americani, i
secondi invece, per la loro situazione materiali legati agli U.S.A. vogliono conservare all'Europa una
funzione subordinata nella struttura mondiale della divisione del lavoro. È in questa angolatura
che
dobbiamo intendere la politica della sinistra e della destra parlamentare dell'occidente europeo. Non
dobbiamo considerare questi movimenti a livello di potere come fatti estranei alla tematica
anarcosindacalista: esiste invece una interessante problematica che si sviluppa dal rapporto tra lotte di
massa e sviluppo economico. Riteniamo che anche attorno a questo rapporto deve girare la nostra
analisi
e il nostro intervento.
Lotte e sviluppo
Negli anni che portarono al boom sono palpabili le contraddizioni tra vecchia e nuova industria
anche
nel loro rapporto con le lotte di massa. L'emigrazione, l'espansione produttiva, la diminuzione della
disoccupazione permettono rivendicazioni
salariali di fronte alle quali si spacca il fronte dei padroni: da una parte la Confindustria rappresentante
gli interessi dell'industria privata che si irrigidisce su posizioni apertamente antipopolari ed antisindacali.
Dall'altra l'Intersind espressione delle industrie a partecipazione statale che separa le sue
responsabilità
dalla Confindustria e mostra la sua disponibilità alla contrattazione. L'accordo Intersind
(1956-'57) dimostrerà che le punte avanzate dell'economia possiedono forti capacità
di integrare le lotte, cioè di usarle come sviluppo. L'incremento salariale conquistato in questi
anni tra
l'altro sarà inferiore a quello produttivo: ciò evidenzia che si ha sviluppo anche in
presenza di
conflittualità. L'espansione della produzione di beni di consumo popolari, la quasi totale
eliminazione della
disoccupazione, creano rapporti di forza a favore degli operai per cui nel '61 si ha il primo "autunno
caldo", e nel '62-'63 l'incremento salariale è di gran lunga superiore a quello produttivo. Ma
l'intensificarsi delle lotte crea inflazione, nello stesso tempo la Germania di fatto blocca l'emigrazione,
per cui tende a ricrearsi la disoccupazione; per i sindacati la via d'uscita è data da una politica
di ulteriore
sviluppo. Nel '66 si parla costantemente di disoccupazione e recessione come prodotto delle lotte. I
sindacati stessi tornano a livelli di contrattazione molto bassi, a volte più bassi di quelli degli
anni
Cinquanta.
La crisi
Per comprendere la crisi, il '69 è un anno importante. Trecento milioni di ore lavorative
consumate in
sciopero non sono un dato puramente quantitativo e non esprimono semplicemente la disaffezione
operaia verso il lavoro: la lotta per gli aumenti salariali va contro lo sviluppo; Cefis e Agnelli parlano
di
crisi produttiva, noi aggiungiamo che la crisi è anche politica, perché i livelli alti delle
lotte hanno
mostrato i limiti istituzionali di controllo. Praticamente tutta l'economia degli anni del boom
è fondata sullo sviluppo capitalistico, sull'espansione
dei consumi che hanno permesso di risollevare l'economia nazionale. In questa situazione si
sviluppano intensamente, specie a partire dal '59 le lotte sindacali sul salario. I
livelli di contrattazione sono bassi: tra il '53 il '61 infatti gli incrementi salariali restano inferiori a quelli
produttivi, ma nei due anni successivi i rapporti si capovolgono: finisce il boom e si originano inflazione,
disoccupazione, crisi. Le lotte avevano ormai superato i tetti sotto cui erano funzionali allo sviluppo,
ormai andavano contro lo sviluppo. Nell'autunno del '69 tale tendenza troverà il suo culmine.
La
permanenza del movimento dagli anni 60 ad oggi ha tenuto lo stato, i padroni in una situazione di crisi
permanente: e oggi noi stiamo vivendo la più grave recessione del dopoguerra, soprattutto per
quanto
riguarda i settori base dell'economia. La produzione industriale nei primi otto mesi del '71 è
diminuita del 3,5% rispetto allo stesso periodo
del '70, fatto mai successo in Italia. E la recessione riguarda soprattutto industrie di base: 5,1% per la
metallurgia e 5,8% per la meccanica. Cassa integrazione e costo della vita in aumento molto forte nel
'71. Comunque più che i dati puramente quantitativi della crisi, che ognuno può
verificare sui giornali
economici dei padroni, ci interessa comprendere il processo politico che l'accompagna, perché
è su
questo che dobbiamo fondare le nostre ipotesi di lavoro. Ormai nessuno si sogna più di
parlare di sviluppo capitalistico: gli aumenti salariali anomali degli anni
60 l'hanno bloccato, l'intervento statale sta facendo il resto eliminando l'iniziativa privata e prendendo
in mano le redini dell'economia. Ormai per il potere esiste un'unica possibilità di rafforzarsi,
di consolidarsi, un'unica ipotesi su cui
muoversi: lo stato pianificatore. Questa tendenza era implicita per noi a partire dalla constatazione delle
crisi capitalistiche di mercato che il mercato non poteva controllare e superare. La tendenza al
superamento del mercato era progressivamente emersa negli anni 20 con l'affermarsi del fascismo: la
sconfitta militare del fascismo non ha intaccato la validità delle sue proposte che oggi sono
diventate
necessità impellenti per il potere, necessità con le quali ci troviamo pressantemente a
dovere fare i conti.
Tutti i partiti, dell'arco parlamentare esprimono in gradazioni diverse queste esigenze. Esigenze di
direzione statale dell'economia da un lato ma anche esigenze di controllo rigido e istituzionale sul
movimento operaio, esigenze di razionalizzazione degli impianti e del modo di produzione, ma anche
necessità di battere il movimento operaio, di affossare le lotte: dietro questo progetto lo stato
sempre
più si erge come controparte di fronte ai proletari e lo scontro si fa sempre più politico,
sia perché è
dominante la tendenza del potere a intervenire in prima persona liberandosi delle mediazioni che
passavano attraverso PCI e sindacati, ma soprattutto perché è dominante la tendenza
all'identificazione
di potere economico e politico, in altre parole perché è lo stato che dirige in gran parte
l'economia.
Possiamo quindi riaffermare la correttezza dell'ipotesi anarcosindacalista della prima internazionale
negante la separazione tra la lotta economica e politica e quindi anche la necessità di partito e
sindacato
marxianamente intesi.
Prospettive
Il prevalere della pianificazione statale, la risposta militare del potere ci pongono quindi una precisa
problematica di fronte alla quale si sono sviluppate posizioni molto disomogenee nel movimento
anarchico data la scarsità di dibattito politico all'interno dei gruppi e delle
federazioni. Alcuni compagni osservano che il livello del movimento di massa è scarso, che
in moltissime situazioni
i gruppi sono staccati dalle masse, che muoversi sul terreno della violenza antistatale oggi è
avventuristico perché si perpetua l'isolamento. Questi compagni sono gli stessi che misurano i
compiti
politici col livello del movimento: se il livello è basso automaticamente i compiti sono
minimi. Non siamo dello stesso parere: pensiamo che gli spazi politici verrano tolti
progressivamente con
l'avanzata del PCI al governo. Pensiamo che non esiste la possibilità di rifiutare il terreno della
violenza
(1), terreno che lo stato ha scelto con determinazione per impedire la crescita del movimento
rivoluzionario. Sono questi i fattori che determinano i nostri compiti, non tanto il livello del movimento;
altrimenti cadiamo in posizioni opportuniste e finiremo col gestire il riflusso e la nostra sconfitta, come
già successe in altre occasioni. È pura demagogia dire che le masse non ci capiscono.
Siamo tutti
d'accordo sull'affermazione di principio che la violenza deve essere "di massa" e non gruppuscolare. Ma
guardando ai contenuti cosa significa questo? Quando diciamo che in
prospettiva bisognerà accettare
il terreno della violenza, non rifiutiamo obiettivi di massa: unificazione delle categorie, riduzione
dell'orario, lotta contro il lavoro, sganciamento del salario dal lavoro, lotta contro il privilegio delle
conoscenze, contro la nocività; solo che le forme di lotta si dovranno adeguare alle
caratteristiche
sempre più autoritarie della risposta statale, altrimenti tutte queste lotte saranno sicuramente
perdenti.
Solo in questo modo è possibile esprimere esigenze proletarie, far fare il salto qualitativo al
movimento
operaio, costruire già da ora uno sbocco rivoluzionario per uscire dalla crisi.
Paolo Orsini
(1) La "violenza" degli sfruttati, cioè la loro risposta sempre più dura e decisa agli
attacchi padronali e
statali, in quelle forme che il movimento operaio ha espresso in passato ed ancor oggi esprime quando
la lotta nasce o si sviluppa autonomamente.
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