Rivista Anarchica Online
La banda del Matese
di R. Brosio
La guerriglia insurrezionale come "propaganda del fatto" nell'Italia del secolo scorso
La storia dell'anarchismo italiano nella seconda metà dell'800,
all'epoca del suo formarsi come
movimento organizzato di uomini e di idee, è anche la storia di tutta una serie di tentativi
insurrezionali
("congiure", come erano chiamate) che, se da un lato vennero sfruttati dai governi per dar credito alla
solita immagine dell'anarchico bandito e mestatore, dall'altro contribuirono non poco, con la loro
risonanza, alla conoscenza e alla diffusione delle idee libertarie. Furono tentativi falliti, bisogna
riconoscerlo, spesso condotti in modo un po' dilettantesco. Ma sarebbe
ingeneroso darne la colpa agli uomini perché essa, più che altro, era dei tempi. La
fiducia nell'atto
insurrezionale come strumento di rinnovamento sociale, la speranza che bastasse un pugno di coraggiosi
per dare un nuovo corso alle cose, fu tipica di tutto l'ottocento genericamente progressista ed in
particolare "risorgimentale". Gli anarchici non ebbero certo l'esclusiva di queste congiure. Prima
di essi vi si erano dedicati i carbonari,
i mazziniani, gente da Ciro Menotti a Garibaldi, cui la storiografia ufficiale si sente in dovere di tributare
ben altro rispetto che a Cafiero, a Bakunin o a Malatesta. Eppure, a differenza dei loro più
quotati
"colleghi" (si fa per dire), gli anarchici non ebbero mai la pretesa di impadronirsi del potere, di imporre,
armi alla mano, un nuovo status quo reputato migliore del precedente. Più
semplicemente, con maggiore
onestà e senso delle proporzioni, essi intendevano fare delle azioni esemplari, gesti clamorosi
capaci di
svegliare la coscienza delle masse sfruttate, di additare ad esse la via da seguire e i nemici da combattere.
Questo era il significato della "propaganda del fatto", come allora si diceva. Al congresso
dell'Internazionale di Berna, Cafiero e Malatesta avevano dichiarato: "la Federazione
Italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle
azioni il principio socialista,
sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le
masse possa
penetrare nei più profondi strati sociali...". Nell'Italia ancora occupata a celebrare
un'unificazione che per le classi inferiori era stata solo un cambio
di padrone, gli anarchici, soli, invitavano gli sfruttati a costruire da sé il proprio destino. In
questa prospettiva, uno dei tentativi insurrezionali più importanti, per concezione e per risultati
propagandistici, e comunque, forse il più tipico, fu quella attuato nel 1877 nella zona del Matese
da un
gruppo di aderenti alla Federazione Italiana dell'Internazionale, detto in seguito appunto "banda del
Matese". Vi aderivano molti dei personaggi più rappresentativi dell'anarchismo italiano
dell'epoca, tra
cui, in particolare, Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. La scelta della zona non era stata fatta a caso.
Impervia, montagnosa, scarsamente popolata,
rappresentava un ambiente ideale per la guerriglia: gli uomini avrebbero potuto facilmente compiere le
proprie sortite nei vari centri abitati e poi rintanarsi al sicuro nei posti e nelle cascine abbandonate.
Inoltre rispondeva bene allo scopo di prendere contatto con le masse contadine, specialmente quelle
meridionali, che, abbandonate a se stesse, considerate dalle varie classi dirigenti un puro "oggetto" del
potere, sembravano più di ogni altra il naturale destinatario della propaganda di riscossa sociale
degli
anarchici. Il 3 aprile 1877 arrivò nel Matese Carlo Cafiero insieme a pochi compagni.
Sfruttando il proprio aspetto
distinto (un "signore", lo definiranno i testimoni), si era fatto passare per un gentiluomo inglese con
tanto
di servitù in cerca di un luogo tranquillo per le vacanze. Con questa scusa aveva preso in affitto
una casa
del paesetto di S. Lupo, un piccolo centro isolato distante un'ora e mezzo di carrozza dalla stazione di
Solopaca, sulla Napoli-Benevento-Foggia. La casa, detta Taverna Jacobelli, era spaziosa, appartata, e
soprattutto, particolare importante, dotata di un'uscita secondaria che la metteva in comunicazione
diretta con le boscaglie retrostanti. Qui, nelle intenzioni dei congiurati, sarebbero affluiti nei giorni
successivi gli altri partecipanti all'impresa, con tutto l'equipaggiamento di armi, munizioni, zaini,
borracce, ecc., necessario per la guerriglia. Gli anarchici avevano organizzato le cose con cura e con
la dovuta segretezza. Senonché, a causa della
delazione di un certo Salvatore Farina, il Ministro degli Interni in persona, Nicotera, era al corrente dei
loro progetti, già molto prima dell'arrivo di Cafiero a S. Lupo. Nonostante questo, li aveva
lasciati in
pace, senza far trapelare che le loro mosse erano spiate. Lo scopo era evidentemente di prenderli in
trappola al momento opportuno e imbastire una speculazione politica sull'intera faccenda. I governi e
le istituzioni cambiano, ma la mentalità dei Ministri dell'Interno resta sempre la stessa.
Comunque, questa
tattica da temporeggiatore non si rivelò del tutto felice. Vuoi per l'abilità degli anarchici,
vuoi per
l'eccessiva libertà di movimento che era stata loro lasciata, onde non insospettirli, sta di fatto
che il
concentramento degli uomini e dell'equipaggiamento alla Taverna Jacobelli potè quasi
completarsi senza
che l'autorità di polizia della zona mostrasse di accorgersene. Il 4 aprile arrivò
all'abitazione degli "inglesi" un folto gruppo di "servitù", con diverse casse di
"suppellettili e oggetti casalinghi"; i preparativi per l'insurrezione durarono, indisturbati, per tutto il
giorno. Verso sera, il locale comando dei carabinieri, insospettito dall'eccessivo movimento intorno
alla Taverna
Jacobelli, si decise ad inviare una pattuglia in perlustrazione. La pattuglia si tenne dapprima un poco in
disparte, poi nella notte, vedendo qualcosa di simile a dei segnali luminosi fatti con lanterne, si
avvicinò
alla casa. Fu una mossa degna della proverbiale sagacia dei carabinieri, perché, passando per i
boschi
retrostanti, i militi capitarono proprio nel mezzo di un gruppo di internazionalisti lì accampati
che li
presero immediatamente a fucilate. La sparatoria fu rabbiosa, anche perché, al buio, gli anarchici
non
sapevano esattamente con quanti avversari avevano a che fare, e due carabinieri (dei quattro che
componevano la pattuglia) caddero feriti. Come vedremo, uno morirà dopo alcune settimane
per
sopraggiunta infezione, e questo avrà la sua importanza per gli sviluppi processuali della storia
dell'insurrezione. Resterà comunque l'unica vittima di tutta la faccenda. Al rumore degli spari,
altri
carabinieri dislocati nella zona, accorsero sul luogo, questa volta in numero più adeguato alle
circostanze, ma non poterono far altro che constatare l'avvenuta partenza degli insorti. Essi infatti,
seppur a ranghi ridotti, perché molti compagni non erano ancora arrivati, si erano
rapidamente radunati e avevano preso la via dei monti. L'"operazione Matese", bene o male era
cominciata. Per la verità, era cominciata male. Alcuni compagni sopraggiunti in seguito vennero
arrestati
a Solopaca e a Pontelandolfo, lì vicino. Quelli rimasti liberi, d'altronde, avevano potuto portare
con sé
solo una parte dell'equipaggiamento, non avevano viveri e soprattutto avevano lasciato alla Taverna
Jacobelli i "cavastracci", strumenti indispensabili per pulire e caricare i fucili di quei tipi. Da questo
punto
di vista, l'improvvida irruzione della pattuglia causò un danno notevole all'efficienza della banda.
Ma,
nello stesso tempo, facendo precipitare la situazione, aveva costretto gli anarchici ad anticipare l'inizio
della sommossa, in un momento in cui la famosa trappola del ministro Nicotera non era ancora pronta
per scattare. E fu così che la banda del Matese potè compiere, almeno in parte, le azioni
che aveva
programmato. Era proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere. L'alba del 5 aprile
1877 vide il gruppo degli anarchici in marcia verso nord. L'intenzione era di sganciarsi
il più possibile dalle forze di polizia che stavano dando loro la caccia, e di dirigersi verso i centri
abitati
più isolati dove, con tutta probabilità, l'allarme sarebbe giunto con un certo
ritardo. Le condizioni atmosferiche però, erano tutt'altro che favorevoli. In quella stagione,
i monti del Matese
erano coperti di neve, e più si saliva e più il tempo si faceva cattivo. Il freddo, oltre alla
difficoltà di
procurarsi viveri con frequenza, fu il vero ed unico nemico degli insorti per buona parte della
spedizione. La banda era guidata da Cafiero, Malatesta e da Pietro Cesare Ceccarelli, che si
alternavano ogni giorno
al comando, primo tentativo, seppur limitato, di rotazione degli incarichi. Si marciò per tutto
il giorno,
addentrandosi sempre più nel Matese, e così si fece anche il giorno seguente. Il 7
aprile gli anarchici si diressero verso la zona di Cusano, e, dopo aver pernottato in una masseria,
costeggiarono il lago del Matese, puntando verso il paese di Letino. Qui, alle dieci del mattino del
giorno
8, domenica, entrarono, accolti dalla gente stupita e festosa, a seguito di una grande bandiera
rosso-nera. Il caso volle che proprio in quel momento, in Municipio fosse riunito il Consiglio
Comunale, che doveva
decidere cosa fare di alcune vecchie armi, precedentemente sequestrate a bracconieri. La banda degli
internazionalisti giunse in tempo per requisirle tutte e distribuirle, insieme ai fucili della Guardia
Nazionale, alla popolazione. Si passò poi ad atti di ben altro peso. Gli insorti dichiararono
pubblicamente
decaduto Re Vittorio Emanuele II e ne fecero a pezzi il ritratto. Quindi provvidero a bruciare, in un
grande falò acceso in piazza, tutta la "carta bollata" del Comune: registri catastali, schedari delle
imposte, atti ipotecari, ecc., per dimostrare simbolicamente l'abolizione dei diritti dello stato e della
proprietà privata. Infine, distrussero i contatori apposti ai mulini; che servivano a calcolare la
famigerata
tassa sul macinato. Agli atti concreti tennero dietro le motivazioni ideologiche. Cafiero salì
sul basamento di una grossa
croce (sostituita con la bandiera rosso-nera) e spiegò alla folla, in dialetto per farsi meglio
comprendere,
i principi della rivoluzione sociale, i suoi fini e i suoi metodi. Tutto avvenne in un clima di simpatia
ed entusiasmo da parte della gente del paese, al punto che perfino
il prete, Don Raffaele Fortini, si lasciò andare a dire che Vangelo e socialismo erano la stessa
cosa e
additò gli internazionalisti al plauso di tutti. La banda lasciò Letino verso l'una del
pomeriggio e si diresse verso il vicino paese di Gallo, ad appena
cinque chilometri di marcia. Ma prima ancora di giungervi si fece in contro agli insorti un altro prete,
il parroco, appunto, di Gallo. Non si sa bene se per la curiosità o per la fifa, questi voleva sapere
quali
fossero le intenzioni della banda e si fermò un poco a chiacchierare con gli anarchici.
Aprì perfino la
tonaca, mostrando la miserabile sporcizia che vi si annidava sotto, per chiarire che era anche lui uno
sfruttato come gli altri. Comunque, quando si rese conto di cosa si trattava, seppur a suo modo
("cambiamento di governo e
incendio di carte") ritornò indietro tutto allegro per tranquillizzare i compaesani e, ad ogni buon
conto,
andò a chiudersi in casa. Al municipio di Gallo gli anarchici arrivarono verso le due del
pomeriggio. Malatesta aprì la serratura
a pistolettate, i compagni penetrarono nell'interno, e le stesse scene di Letino ebbero a ripetersi. Unica
novità, venne distribuito al popolo quel poco di denaro che si rinvenne nelle casse della Esattoria
Comunale. Tutto si svolse come prima, nell'entusiasmo e senza difficoltà di alcun
genere. Ma le truppe governative, anche se non si erano ancora fatte vedere, non erano restate con
le mani in
mano. Al comando del generale De Sanget, quasi dodicimila uomini avevano stretto d'assedio nel
frattempo l'intero massiccio del Matese: tre compagnie di bersaglieri a sud, un reggimento di fanteria
a
nord, altre forze ancora da Campobasso, Isernia, Caserta, Benevento e Napoli. Fu così che,
quando
abbandonarono Gallo, gli internazionalisti si trovarono praticamente e improvvisamente
accerchiati. In qualunque direzione si volgessero per trovare qualche altro paese da occupare, si
battevano nei presidi
dei soldati e dovevano rapidamente tornare sui propri passi per non venire scoperti. A complicare la
situazione si aggiunse il maltempo. Un terribile diluvio di pioggia mista a neve li sorprese già
poco fuori
Gallo bagnando armi e munizioni e rendendo più che mai difficoltosa la marcia. Le cose si
stavano
mettendo male. Gli uomini passarono tutto il 9 e 10 aprile nel duplice tentativo di cercare un rifugio
e di superare
l'accerchiamento, ma senza esito. Erano stanchi, affamati, fradici per la pioggia che non accennava a
diminuire. I fucili erano ormai inservibili e la mancanza di cavastracci, lasciati a S. Lupo, non permetteva
di pulirli e di ricaricarli. In queste condizioni, anche l'extrema ratio di uno scontro a fuoco
era
impossibile. Il giorno 11, la banda trovò finalmente riparo nella masseria Concetta, tre
miglia sopra Letino e qui
decise di fermarsi per riprendere fiato. L'intenzione era di attendere che il tempo migliorasse e quindi
tentare, un'altra volta, di sganciarsi dall'assedio delle truppe governative. Ma rimase una semplice
intenzione. Un contadino, sperando in un premio, aveva informato i soldati. Il 12 aprile un reparto di
bersaglieri fece irruzione nella cascina sorprendendo gli anarchici. Date le condizioni degli uomini e delle
armi non ci fu resistenza. L'insurrezione del Matese era finita. Gli arrestati vennero spediti in varie
galere della zona e, di lì a poco, concentrati tutte nel carcere di S.
Maria Capua Vetere, in attesa del processo. All'inizio le prospettive sembravano tutt'altro che rosee: il
Ministro dell'Interno Nicotera, sull'onda del can can antianarchico suscitato, come era prevedibile, dalla
stampa benpensante, aveva l'intenzione di far giudicare l'intera banda da un tribunale di guerra. In questo
caso la conclusione sarebbe stata probabilmente una sola, il plotone di esecuzione. La faccenda non
andò in porto, a quanto pare, per l'intercessione della figlia di Carlo Pisacane, Silvia,
che (i casi della vita...) era stata tempo prima adottata proprio dal Signor Ministro, il quale, a sua volta,
(sempre i casi della vita...) di Carlo Pisacane era stato compagno d'arme nella spedizione di Sapri. Un
peccato di gioventù, evidentemente, ma salvò la pelle a Malatesta e compagni. Non
che, così, le cose fossero definitivamente risolte. Anche se lo spettro di un giudizio sommario
era
stato allontanato, il capo d'accusa conteneva una serie di reati tali da non promettere, comunque, nulla
di buono. L'istruttoria si era conclusa il 27 dicembre 1877, con una sentenza di rinvio a giudizio di
questo tenore: a) contro tutti gli arrestati, compresi quelli di Pontelandolfo e
Solopaca, per reato di cospirazione avente
oggetto di cangiare e distruggere la forma del Governo, eccitare gli abitanti ad armarsi contro i poteri
dello stato e suscitare tra essi la guerra civile, inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri e portare la
devastazione, la strage e il saccheggio contro una classe di persone; b) contro i
ventisei che consumarono i fatti di S. Lupo, Gallo e Letino anche pei reati di attentato in
banda armata commessi allo scopo su indicato, e di complicità corrispettiva ne' reati di ferita
volontaria
a colpi d'arma da fuoco in persona di Antonio Santamaria e Pasquale Asciano, carabinieri reali
nell'esercizio delle loro funzioni: le quali ferite produssero il debilitamento permanente di un organo ad
Asciano, e, dopo i quaranta giorni immediatamente successivi, la morte di Santamaria. Per fortuna
degli accusati, il 9 gennaio 1878, re Vittorio Emanuele II morì. Infatti il successore
Umberto I, essendo, come tutti sanno, un "re buono", concesse al paese una amnistia
riguardante anche molti reati politici in seguito alla quale il lungo elenco di capi di imputazione della
banda del Matese potè accorciarsi alquanto. Il processo si tenne davanti alla Corte d'Assise
di Benevento e iniziò il 14 agosto 1878. Il processo, comunque, si svolse in un clima di
grande simpatia popolare verso gli imputati, quella stessa
che essi avevano sentito intorno a sé mentre bruciavano la "carta bollata" a Letino e Gallo. Gli
anarchici
si dimostrarono subito un osso duro per la pubblica accusa. Intelligenti, preparati, sicuri delle proprie
ragioni, essi rispondevano con prontezza ai giudici, li rimbeccavano, e non perdevano occasione per fare
propaganda alle proprie idee di uguaglianza e libertà. In questo vennero sapientemente aiutati
dagli
avvocati difensori, fra cui il giovanissimo e pur già abile Saverio Merlino, anarchico
anch'egli. Per contrastare questa linea, d'altronde giuridicamente ineccepibile, il P.M. Forni fu
costretto a
concentrare tutte le sue energie forcaiole sulla sparatoria del 4 aprile e sulla conseguente morte del
famoso carabiniere. Egli sostenne che gli insorti avevano sparato e ucciso coscientemente, per "libidine
di sangue". Cafiero e Malatesta replicarono vivamente a questa accusa grottescamente esagerata e gli
avvocati difensori dimostrarono, come si è già detto, che il decesso era avvenuto non
in seguito alle
pallottole anarchiche, ma per "sopraggiunta infezione" (in altre parole il povero militare era stato mal
curato). L'immagine tenebrosa dell'anarchico assassino diventava sempre più inconsistente e,
parallelamente, anche le tesi dell'accusa che su tale immagine erano costruite. La sentenza fu emessa
il 25 agosto, dopo un'ora un quarto di discussione. I giurati dichiararono gli
accusati non colpevoli della morte del carabiniere e applicarono l'amnistia per gli altri reati.
La banda
del Matese era assolta e rimessa in libertà. Era la sentenza che il popolo attendeva. Una folla
di 2000
persone accolse gli anarchici, applaudendoli, all'uscita del carcere, segno tangibile della rispondenza che
la "propaganda del fatto" trovava allora fra gli sfruttati. Un corrispondente del "Corriere del Mattino"
di Napoli il giorno dopo concludeva così il proprio articolo sull'avvenimento: "Un processo di
questi per
provincia e il governo si sarebbe ucciso con le proprie mani".
R. Brosio
Note sull'insurrezione
La situazione politica odierna vede, tra l'altro, il rilancio tra alcuni gruppi della sinistra extra
parlamentare, della strategia insurrezionale tramite bande armate, sembra cioè rinascere una
strategia
politica che cento anni fa vide gli anarchici protagonisti e che merita oggi di essere analizzata
nuovamente per comprenderne i significati storici ed i limiti attuali. Esaminiamo la situazione di
allora. Si era da poco spento Michele Bakunin ed in Italia era salita al potere
la "sinistra" di Depretis e di Nicotera, quando si verificarono i primi episodi a carattere rivoluzionario
organizzato e primo fra questi quello della "Banda del Matese". Terreno più fertile di quello
italiano per
un'ondata rivoluzionaria (già Bakunin lo aveva compreso e nelle sue opere lo aveva chiarito),
non
esisteva: quel governo che si proclamava di sinistra era in realtà un coacervo di borghesi di
matrice
risorgimentale, completamente digiuni di quella idea socialista che stava nascendo e che li spinse
perciò
a reprimere, vietandolo, il congresso dell'internazionale italiana anarchica che stava cercando di far
fruttare i semi gettati da Bakunin nel decennio precedente la sua morte. Bakunin aveva intuito che l'Italia
era il terreno più propizio per una rivoluzione, rivoluzione che lui vedeva contadina e sulla quale
così
si esprimeva: "In nessun luogo la rivoluzione sociale è tanto prossima come in Italia, in nessuno,
nemmeno in Spagna, malgrado vi si stia attuando la rivoluzione ufficiale... in Italia predomina quel
proletariato estremamente povero di cui i signori Marx ed Engels ed al loro seguito tutta la scuola
socialdemocratica tedesca, parlano con profondo disprezzo e molto ingiustamente perché in esso
e solo
in esso, non certo in quello strato borghese della massa operaia italiana di cui abbiamo parlato sopra,
è
cristallizzata tutta la forza e intelligenza della futura rivoluzione sociale". La storia ha poi dato il suo
giudizio e ha confermato come le analisi politiche di Bakunin fossero esatte
e come supposte e poco coerenti coi tempi quelle pseudo scientifiche di Marx. Ciononostante la
storiografia marxista (soprattutto il prof. Romano) insiste molto sul concetto di rivoluzione contadina
di Bakunin, accusandolo per questo di essere un demagogo, un intrigante, un ideologo borghese in
quanto avversario della pretesa e mai dimostrata scientificità del marxismo, cioè di
quell'ideologia che
interpreta la storia secondo i moduli della dialettica metafisica hegeliana. Ritorniamo ai
fatti. L'unità nazionale che non aveva risolto i problemi del proletariato ed anzi ne aveva
ingigantito, per taluni
settori e con particolare riferimento al Meridione, lo sfruttamento e si riproponeva la domanda sulla
effettiva utilità di tali unità, visto che per il popolo le cose non erano cambiate. La stessa
lotta politica
parlamentare era poi vanificata dal "trasformismo" che aveva annullato ogni differenza tra destra e
sinistra. Questo quadro generale della situazione politica spinse gli anarchici, tesi a portare il proletariato
ad una presa di coscienza rivoluzionaria, a scegliere come strumento più opportuno
la propaganda
tramite l'insurrezione. La scelta fu così motivata da Malatesta: "il fatto
insurrezionale è il mezzo di
propaganda più efficace, il solo che, senza ingannare le masse, può penetrare nei
profondi strati sociali".
La condizione di apatia e di ignoranza voluta per secoli dallo stato e dal clero, in cui versava il popolo
era immensa, bisognava dare contenuti politici coscienti al diffuso malcontento, ai moti liberistici e
spontanei bisognava che gli anarchici contrapponessero la lotta al fianco dei contadini e li aiutassero a
muoversi verso la loro emancipazione. Il movimento insurrezionale fu un momento di strategia
politica che gli anarchici indicarono a coloro
che, in ogni epoca, si trovano a dover lottare per la rivoluzione in un ambiente di sotto sviluppo
economico che è paragonabile a quello dell'Italia di allora ed oggi a quello del Sud America. I
movimenti
rivoluzionari quali i tupamaros sono il frutto di una situazione oggettivamente diversa dalla nostra di
oggi e nella loro situazione sono una giusta risposta rivoluzionaria al sistema: la rivoluzione è
latente sia
in società economicamente avanzate che arretrate e quindi si pone la necessità di una
scelta strategica
che inevitabilmente non può essere simile in tutti e due i casi. Tra l'altro al sottosviluppo
economico
corrisponde politicamente il fascismo più scoperto e quindi l'azione partigiana diviene
movimento di
resistenza ed i rivoluzionari si trovano a combattere con il popolo, a lottare al suo fianco è
portare ad
esso i contenuti della propaganda rivoluzionaria: questa strategia è corretta e da cento anni a
questa
parte è stata più volte ripresa: da Che Guevara e dallo stesso Mao Tse-tung.
Perciò le indicazioni che
gli anarchici diedero cento anni fa sono valide ancora oggi, ma in specifiche situazioni, è giusto
come
scriveva Cafiero: "preparare il terreno che si vuol coltivare: bisogna recuperare la massima parte
dell'umanità che langue senza pensiero, senza dignità, senza vita". Ma lo si deve fare
analizzando
contenuti e risposte che non castrino sul nascere il movimento rivoluzionario. È perciò
assurdo
riproporre certi strumenti di lotta come l'insurrezione in un quadro politico-economico avanzato e
razionalizzato come il nostro: sciogliere il nodo del recupero alla coscienza rivoluzionaria delle masse
in un ambito politico pseudo-democratico come quello attuale è compito estremamente
complesso ed
è ridicolo ed infantile pensare di tagliarlo gordianamente con la spada di latta delle bande
armate.
Primomaggio
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