Rivista Anarchica Online
Il matrimonio storico
di E. Cipriano
"Niente di serio si può fare quando è in gioco il lavoro
di centinaia di migliaia di lavoratori senza l'accordo del
Partito Comunista". Non sono parole di Berlinguer, ma di Umberto Agnelli, cioè di uno dei
più grossi "padroni"
italiani e a chi gli faceva notare la contraddizione con quanto aveva dichiarato pochi giorni prima suo
fratello,
Gianni Agnelli (contrario all'ingresso del P.C.I. nell'area governativa), il Consigliere Delegato della
F.I.A.T.
ribatteva: "Mio fratello ha parlato come presidente della Confindustria ed ha espresso una opinione che
personalmente condivido, a proposito di una ipotesi politica che accrescerebbe le difficoltà
anzichè risolverle.
Altro è il discorso sul ruolo e sul peso delle forze politiche che hanno profonde radici nelle masse
lavoratrici e
che debbono essere interlocutori importanti per un discorso di questo genere". La "questione
comunista" è entrata nella fase calda e mentre al continuo incalzare dei comunisti i notabili D.C.
rispondono "NO", i fratelli Agnelli vorrebbero risolvere la questione a livello aziendale ma non politico.
Prospettiva questa, che sarà difficilmente accettata dai dirigenti di Via delle Botteghe Oscure
perché più che di
una soluzione si tratta dell'accettazione ideologica di una situazione già esistente. Non da oggi,
ma da numerosi
anni, il P.C.I. è in grado di condizionare sensibilmente sia le scelte politiche sia le scelte
economiche rilevanti.
Il "compromesso storico" lanciato nel settembre dello scorso anno rappresenta la codificazione a livello
governativo della realtà del paese, del peso politico ed economico delle componenti del potere
in Italia. La crisi economica ha agito da acceleratore sul processo di avvicinamento all'area
governativa del P.C.I., ma oggi
le incertezze non si manifestano solo all'interno dei partiti della maggioranza, nello stesso P.C.I. è
in corso un
dibattito serrato. Il problema riguarda non solo i tempi, ma anche le modalità di ingresso nel
governo. I comunisti
hanno compreso di avere una potente alleata: la crisi. Per risolverla in modo organico bisogna cambiare
molte
cose, bisogna effettuare un serio ripensamento critico della gestione politica ed economica sviluppata sino
ad oggi,
perché continuare sulle stesse direttive porterebbe l'Italia nel bel mezzo di una recessione i cui
effetti sarebbero
difficilmente controllabili. Portatore di questo nuovo modo di governare è sicuramente il P.C.I.
ma (e qui sta il
dilemma per i comunisti) entrare oggi al governo significherebbe anche dover adottare misure impopolari
che gli
alienerebbero le simpatie della sua base elettorale proprio in un momento in cui tutti gli occhi sarebbero
puntati
su di lui. D'altro canto il non entrare oggi nel governo può comportare il rischio che la crisi venga
rappezzata in
qualche modo dal governo attuale e il superamento di questa difficoltà (anche se non risolta a
lungo termine) può
rinviare di parecchio tempo l'avanzata del P.C.I.. Già da tempo abbiamo scritto che l'Italia
è ingovernabile senza il P.C.I. (cfr. "A" del dicembre 1971 e seguenti),
oggi questo concetto è divenuto abituale e quasi tutte le forze politiche hanno di fronte a
sè questo problema,
troppo spesso però, si danno per scontate le ragioni di questa necessità del P.C.I. al
governo. Vediamo di
analizzarne brevemente. La strategia comunista per la conquista del potere è stata
programmata in tempi lunghi, ma lucidamente calcolati
da Togliatti già nell'immediato dopoguerra. Il Partito Comunista, oltre che sviluppare i suoi
interventi e
collegamenti con la base operaia sia indirettamente sia tramite il Sindacato, ha puntato alla creazione di
una
intelligenthia ad essa organicamente collegata. Presentandosi come il portatore di rinnovamenti sociali
è indubbio
che abbia attratto a sè larghe schiere di intellettuali, umanisti e artisti, ma non solo quelli, infatti
il P.C.I. ha
saputo divenire un punto di riferimento anche per la parte più progressista della tecnocrazia
aziendale e della
burocrazia statale. Forte di questa influenza ideologica il partito comunista gradatamente si è
costruito anche un suo impero
economico che va dalle cooperative emiliane ai supermercati, dai cinema alle società di
import-export, dalle
agenzie di viaggi alle case editrici, dalle immobiliari ed imprese di costruzione alle agenzie pubblicitarie,
dalle
società finanziarie alle assicurazioni. Sulla spinta di questo potere politico, sociale, economico,
il P.C.I. si
presenta oggi come elaboratore e portatore di nuove ideologie, di nuove forme di potere. Il potere
economico attuale del P.C.I. equivale forse al suo potere politico e alla sua capacità di
mobilitazione. Il progetto togliattiano del 1944 sull'incontro delle masse comuniste con quelle
cattoliche non appare più oggi
come fine esercizio intellettuale ma trova riscontro nella realtà della situazione italiana. Il
"compromesso storico"
è in più anche contemporaneo avvicinamento a quelle classi imprenditoriali fra loro
antagoniste, per una
riformulazione di un più vasto schieramento interclassista. Oggi il P.C.I. è l'unico partito
in grado di mediare le
esigenze sia della classe operaia sia della piccola borghesia imprenditoriale sia delle esigenze delle grandi
industrie private e statali per un superamento funzionale e non artificioso della crisi economica. Esso
infatti è il
portatore istituzionale delle rivendicazioni della classe operaia ma nel contempo può presentarsi
di fronte alla
borghesia imprenditoriale come l'unico agente capace di risolvere anche la loro crisi cronica (non
esasperando
la pressione sindacale o escogitando nuove forme di collaborazione) con programmi a difesa della libera
iniziativa,
inoltre le grandi dirigenze private e pubbliche hanno nel P.C.I. più che un riferimento ideologico
anche un avvallo
strutturale dato che entrambi (dirigenza e P.C.I.) sono portatori di un nuovo rapporto di produzione che
tende
a non essere più capitalistico ma tecnoburocratico. Il dato essenziale della "questione comunista"
crediamo stia
proprio qui: il P.C.I. è il partito che può dare un contributo insostituibile per far si che
la barca non affondi e che
venga salvato il sistema di sfruttamento. Questo i padroni oggi l'hanno capito e la "paura dei comunisti"
sta
dissolvendosi come neve al sole dopo le costanti prove di buona volontà fornite da questi ultimi.
D'altro canto
le stesse dichiarazioni "programmatiche" ci confermano che l'ingresso del P.C.I. nell'area governativa non
modificherà oltre un certo limite le direttive politiche lungo le quali si sono mossi i nostri
governanti in questi
ultimi anni. Si tratterà piuttosto di una riorganizzazione funzionale, di una maggiore decisione
nell'attuare le
riforme, di uno spostamento degli equilibri di potere all'interno della classe dirigente, e non molto di
più. L'onorevole Luciano Barca ha chiaramente detto che "... nessuna delle nostre proposte
di politica economica è
fondata sulla liquidazione dell'economia di mercato..." e questa palese ipocrisia è tipica dei
comunisti: infatti
giustamente crediamo che il P.C.I. non abbia nessuna necessità di eliminare l'economia di
mercato perché questa
è già stata in parte eliminata (per i settori più importanti) dall'evoluzione delle
strutture economiche tardo-capitalistiche, e così Barca può tranquillamente affermare
che i comunisti al governo invece di estendere la
statalizzazione delle imprese sarebbero favorevoli alla riprivatizzazione di molte, soprattutto di quelle ora
sotto
la gestione della GEPI. Questa affermazione merita una spiegazione. Tutti i comunisti, rossi o rosa che
siano,
tendono alla statalizzazione dell'economia per poter imporre il loro modello di gestione del potere, se
quelli
italiani possono fare dichiarazioni di questo tipo è perché il processo di intervento dello
stato si è spinto troppo
in là per la stabilità del sistema, il caotico e disarticolato statalismo economico degli anni
sessanta è giunto ad un
punto di rottura; le partecipazioni statali stanno diventando feudi ingovernabili dall'autorità
centrale, è quindi
logico che i comunisti, che innanzitutto vogliono il potere effettivo e non formale, vogliano riordinare
(prima di
espandere nuovamente) l'impero economico dello stato. Il programma "socialdemocratico" dei
comunisti nostrani è ancora più evidente nelle prospettive della politica
estera: permanenza dell'Italia nella NATO, e soprattutto "una politica estera di unità nazionale
in cui possano
riconoscersi tutti gli italiani, anche quelli che non condividono le posizioni del nostro partito". Nessuna
novità
sostanziale neppure per la scuola, e Chiarante (esperto del P.C.I. in questo settore) ha indicato un
programma
un poi' più a sinistra di quello attuale salvo riconfermare che "... in certi settori connessi a
funzioni dove è
necessario programmare è lecito adottare il numero chiuso...". Per quanto riguarda l'ordine
interni il P.C.I. quasi
sicuramente accentuerebbe la lotta ai "sovversivi" per annullare una pericolosa concorrenza a sinistra che
godrebbe, in teoria, di un più ampio spazio politico, proprio per lo spostamento nell'area
governativa dei
comunisti. Preparato nelle sue linee essenziali l'incontro storico tra D.C. e P.C.I. può
avvenire oggi, tra questi due partiti forti
delle proprie clientele l'uno e del proprio prestigio tra i lavoratori l'altro. Le dichiarazioni di
disponibilità del
P.C.I. trovano riscontro non in astratte formule politiche, ma nelle cose, nei meccanismi economici, nella
necessità di salvare il salvabile prima che l'esasperazione della crisi possa rompere gli equilibri
di potere e di
sfruttamento. Il Partito Comunista è necessario oggi perché gli odierni gattopardi
continuino a governare e a sfruttare anche se
con modalità diverse.
E. Cipriano
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