Rivista Anarchica Online
Criminalità sociale e società
criminale
di R.D.L.
La delinquenza, presentata come "ovvia" giustificazione della necessità di strutture sociali
autoritarie non è che
una inevitabile conseguenza dell'assetto sociale autoritario stesso, una sua malattia cronica inguaribile.
Il furto
legalizzato dello sfruttamento, la violenza istituzionale di classe, l'ingiustizia sistematica della
disuguaglianza
producono i furti e le violenze illegali, per reazione e ad imitazione della "criminalità legale".
Uno dei più importanti e mesti problemi che si
presentano alla moderna indagine scientifica, come
strettamente concatenati alla complessa ed incalzante questione sociale, è senza dubbio il
fenomeno della
delinquenza. (Pietro Gori).
Rapine, scippi, stupri, rapimenti, ricatti, omicidi... La delinquenza organizzata oppure occasionale
occupa uno
spazio crescente nelle cronache giornalistiche e nelle conversazioni quotidiane. L'escalation
delinquenziale
(gonfiata ad arte) viene presa a pretesto sempre più frequentemente per qualunquistiche richieste
(e reazionarie
offerte) di governi forti, di leggi repressive, di forze poliziesche più numerose ed efficienti, di
giudici più crudeli... All'altro estremo, tra extraparlamentari e libertari v'è un
riscoperto interesse - non sociologico, ma attivistico -
per il lumpen, per il delinquente "comune" visto con eccessiva approssimazione, come un
proletario ribelle in
pigiama a strisce cui basta appiccicare una patina di "politicizzazione" per farne un rivoluzionario... Il
tema della delinquenza non è nuovo per il movimento rivoluzionario e per quello anarchico in
particolare.
Ricordiamo qui solo il saggio di "Sociologia Criminale" di Pietro Gori. Già allora, il valente
avvocato anarchico
si proponeva anzitutto di analizzare scientificamente il fenomeno, pur con qualche ingenuità
tipica della fase
antropologica della scuola penale positivista, ricollegandolo all'intera problematica sociale. "La
società prepara
il delitto, il delinquente non fa che eseguirlo", mette il Gori a epigrafe di un capitolo del suo saggio.
Viceversa
per lungo tempo (e ancora oggi in larga parte dell'opinione pubblica) il delitto fu visto come un fatto
strettamente
individuale, il cui unico rapporto con la società era il danno che vi apportava. La
criminalità era perciò ritenuta
un fenomeno anomalo, estraneo al corpo sociale, che aveva le sue radici nei singoli esseri umani che
commettevano reati e perciò ritenuti "malvagi". L'addossare all'uomo, preso come
entità astratta, la causa della criminalità, e un chiaro intento
deresponsabilizzante del "potere" (in tutte le forme prese nella storia) nei confronti del delitto. Scindere
criminalità e società vuol dire assolvere a priori le strutture sulle quali si basa la
società, all'interno delle quali
va invece ricercata la matrice della criminalità. Eliminando qualsiasi contenuto valutativo e
culturale del termine "delitto" (o "reato", o "crimine") esso altro non
è che l'affermazione delle norme sociali. È un fenomeno che nasce in rapporto dialettico
con l'amministrazione
delle norme sociali, una delle funzioni fondamentali di ogni sistema, dai più semplici e primitivi
ai più complessi.
Legge e crimine sono dunque coetanei perché nascono da uno stesso processo: da una parte
gruppi sociali che
impongono delle norme di convivenza compatibili con la difesa dei propri interessi privilegiati e che
diventano
imperative per tutta la società; dall'altra gruppi sociali che non possono riconoscersi pienamente
in queste norme.
Le leggi quindi (non quelle norme vigenti anche nelle società più antiche, adatte
puramente alla sopravvivenza
del gruppo) sono l'espressione codificata (e imperativa per la società) dell'instaurarsi di un potere,
di una avvenuta
stratificazione sociale. L'infrazione delle leggi, cioè la criminalità, è la
risposta di quella parte di società che viene emarginata dai processi
decisionali e i cui interessi non sono espressi nelle norme sociali. Lo stretto rapporto che esiste tra il
delitto e
società balza, ora, in evidenza, si tratta anzi di un rapporto causa-effetto: il delitto da fatto
individuale diventa
"fatto sociale". È illogico negare questo rapporto causale quando la condotta antigiuridica
"criminale" è presente, ed è stata
presente, in tutti i sistemi sociali, con una tipologia dei reati differente nel tempo e nello spazio, ma
analoga in
sistemi socio-economici omogenei. Questo dimostra che a strutture e leggi simili si hanno risposte
oppositive più
rare e (cioè antagonistiche) di tipo antigiuridico, simili. Riconferma ancora lo stretto legame
con la società il significato transitorio e non univoco di "crimine". Il delitto è
tale per definizione, non già per sua natura intrinseca. Un gruppo dominante, dotato di
potere, né
dalla definizione in ogni società. Il continuo avvicendarsi al vertice della piramide sociale di
gruppi diversi ha, conseguentemente, portato ad
un'evoluzione continua del concetto di delitto. Ogni nuova classe dominante porta nuovi interessi da
difendere
che esprime con diverse norme sociali, liquidando precedenti norme la cui utilità è andata
scemando. Così dalla
profanazione delle più intime sfere individuali, in auge quando il fatto "divino" dominava le
relazioni umane, si
passa alla difesa privilegiata dei beni materiali nelle società capitalistiche, al mito della
proprietà privata e del
denaro. E già vediamo, in taluni paesi più che in altri, una super-valutazione dell'aspetto
pubblico, personificato
nello stato, materializzato nei suoi funzionari, come la parte più "sacra" da difendere nei propri
privilegi. Il concetto di delitto è quindi una definizione culturale, legata ai valori sociali
imposti dal gruppo dominante alla
società. Non è un fatto oggettivo, nella semplicistica polarizzazione tra "male" (delitto)
e "bene" (legge) proposta
strumentalmente dal potere come la morale universale. L'aspetto brutale della sopraffazione sociale
viene infatti attutito da una parallela azione di socializzazione
politica verso i valori del gruppo dominante, che diventano i valori culturali di tutta la società.
Tanto maggiore
ed esteso risulta il processo di socializzazione tanto più stabile risulterà un sistema
politico. Se è pur vero che
la condotta criminale è il dato tangibile della non avvenuta socializzazione (anche se tale
affermazione è in parte
inesatta) la condotta antigiuridica non viene sentita dalla società come un atto
contrario al gruppo dominante,
ma come un atto rivolto contro valori validi per tutto il corpo sociale, praticamente come una
condotta
antisociale. Questa interpretazione del delitto è il segno più evidente di come il
gruppo dominante abbia
trasmesso la sua cultura a tutto sistema, anche alle classi inferiori. Questa confusione "culturale" fra
morale dominante (istituzionalizzata nel diritto) e morale "tout court" (che fa
bene il paio con la confusione fra stato e società) è un riflesso dell'effettiva necessaria
commistione nel diritto,
dei valori sociali universali (norme che tutelano l'individuo e la comunità) e di valori o
pseudo-valori relativi alla
disuguaglianza (norme a tutela degli interessi della classe dominante). Il rapporto causa-effetto
esistente tra società e criminalità non chiarisce però l'aspetto più
importante di questo
legame: perché ogni società ha prodotto la condotta criminosa. Le motivazioni sono state
ricercate in molti
fenomeni sociali, particolarmente di natura economica. Il più famoso criminologo marxista, A.
W. Bonger, fa
risalire al capitalismo ed alle sue strutture l'origine della criminalità. Ma il delitto non
è legato a nessun particolare sistema economico, è nato prima del capitalismo e resiste,
oggi,
in sistemi socio-economici completamente differenti. La matrice originaria più o meno
diretta, ma sempre valida della condotta criminale è, a nostro avviso,
identificabile in un tratto costante di tutte le società: la disuguaglianza. Tutte le
società hanno prodotto
criminalità perché erano e sono società di dominanti che impongono e di
dominati, che coscientemente o meno,
rifiutano questa imposizione; perché erano e sono sistemi sociali che basavano e basano i rapporti
interumani
sullo sfruttamento; perché sono società strutturate in maniera gerarchica ed autoritaria
che esprimono leggi che
rappresentano gli interessi del vertice e ne difendono i privilegi. In questa prospettiva possiamo
affermare che la condotta antigiuridica non è appannaggio esclusivo dei gruppi
sociali che meno possono far valere i propri interessi, le masse diseredate degli sfruttati relegati nei
gradini più
bassi della scala sociale: infrangere le leggi è un atteggiamento inevitabile legato alla
mobilità sociale anche di
gruppi più vicini al vertice del sistema od al vertice stesso seppure in misura e con
modalità differenti rispetto alla
"delinquenza" degli strati inferiori. In tutti gruppi sociali e presente, cioè, il crimine come
strumento "normale" di mobilità all'interno del sistema.
Nelle società industriali assistiamo, anzi, ad una proliferazione dei delitti propri ai ceti privilegiati,
i cosiddetti
"delitti dei colletti bianchi", e allo stesso potere politico ed economico, come la corruzione, l'abuso del
potere
e dei privilegi derivanti dalle cariche ricoperte. Tuttavia, trattandosi di società che si basano
sulla disuguaglianza, più si sale nella scala sociale più sono protetti
i ceti superiori anche dalle conseguenze penali delle loro azioni criminose. Negli U.S.A., ad esempio,
solo il 2%
della popolazione carceraria appartiene alla classe superiore, eppure l'incidenza della criminalità
dei colletti
bianchi è senz'altro più elevata. D'altronde una connotazione della criminalità
desunta solo dalla popolazione
carceraria, dai reati più perseguiti, porta ad una visione distorta della realtà criminale e
viceversa ad una visione
abbastanza esatta della disuguaglianza sociale: infatti se la criminalità è un patrimonio
comune a tutti gruppi, le
conseguenze penali sono sopportate più pesantemente dei ceti socialmente più deboli.
Secondo recenti stime
americane, negli U.S.A. solo una piccola parte dei delitti della classe superiore (per taluni il 4% per altri
il 15%)
comincia un iter giudiziario e ancora meno giunge ad una condanna finale. Lo stesso
modello culturale del "delinquente" ignora qualsiasi riferimento a tipi e delitti propri alla classe
superiore. L'immagine comune del criminale, abilmente composta dalla cultura dominante e accettata
dalla
società, è quella di un sotto-proletariato intellettualmente poco sviluppato privo di
istruzione e incapace di
affermazione sociale anche ai gradini più bassi del sistema. È contro questo tipo di
"delinquente" che la cultura
fa convergere il disprezzo comunitario, il risentimento emotivo verso il criminale, la cui condotta
antigiuridica
viene percepita come antisociale. Viceversa, un aspetto importante del comportamento dei ceti
superiori sono quelle condotte, giuridicamente
permesse, che hanno però un forte contenuto antisociale. Intendiamo tutte quelle azioni, come
il danno derivato
dall'inquinamento o l'evasione fiscale (in Italia), che non sono reati ma che portano un danneggiamento
alla
società certamente più grave della criminalità addebitata ai ceti inferiori. Tuttavia,
se sono azioni moralmente
riprovevoli, fanno parte di quei privilegi legati al potere su cui si basano le società diseguali e la
cui presenza non
può stupire. Più interessanti da rilevare sono, invece, le motivazioni che spingono i ceti
superiori alle attività anti
giuridiche. In realtà i meccanismi che spingono alla criminalità i ceti inferiori sono gli
stessi che agiscono sui
privilegiati. La criminalità va dunque intesa in una prospettiva dinamica, come un moto dal
basso verso l'alto, di contestazione
parcellizzata verso il sistema, che nel suo insieme opera come contro-spinta alle cariche stabilizzatrici
discendenti
dal vertice. Il noto sociologo Durkheim spinge questa interpretazione dinamica della
criminalità sino a considerarla come
"utile", in senso sociologico, allo stesso progresso storico della società per la sua continua opera
di erosione. Passando ad un esame diretto della casistica criminale, può a tutta prima
sembrare forzata l'identificazione
dell'origine sociale della criminalità nella disuguaglianza. Centrando la nostra attenzione, per
semplicità, nei paesi
industrializzati avanzati, risulta che i quattro quinti dei delitti commessi rientra nella categoria dei
cosiddetti
"attentati alla proprietà pubblica e privata", cioè reati facilmente riconducibili alla
disuguaglianza ed alle
aspirazioni di miglioramento sociale. Resta però un certo numero di atti anti giuridici che non
sono diretti al
conseguimento di nessun beneficio materiale: sono gli atti di violenza contro cose e persone, spesso tanto
crudeli
quanto "afinalistici" (senza scopo evidente). Esaminando questi delitti, sì può cadere
nella tentazione, suggerita dal potere, di considerarli espressione della
malvagità del singolo esecutore; ma la causa di questa violenza va ancora una volta imputata alla
società: una
società violenta che basa i rapporti tra gruppi sulla sopraffazione e l'antagonismo. La stragrande
maggioranza degli
autori di queste azioni sono effettivamente membri dei ceti più diseredati (negli U.S.A. l'80%
della popolazione
carceraria appartiene al sottoproletariato ed alle minoranze etniche e razziali), cioè di quelle
frange sociali che
vivono ai margini di una società che li respinge o li sfrutta bestialmente. Ed è verso
questa società che si sfoga,
in maniera spesso indiscriminata, il rancore accumulato da questi esclusi, in atti di violenza che intendono
solo
esprimere il loro rifiuto verso una società che li rifiuta. Un fenomeno legato a questi delitti
di aggressione violenta contro l'intero corpo sociale è l'aumento della
criminalità giovanile nei paesi industriali. Sono facilmente le giovani generazioni le protagoniste
di questi atti di
violenza senza scopi immediati, che possono essere spiegati solo come una rivolta (di personalità
immature)
contro i valori che la società propone. La criminalità giovanile, e particolarmente queste
forme nelle quali si
sviluppa, sono il sintomo più sensibile di una crisi che non coinvolge un solo sistema o una
cultura, ma un'intera
civiltà. Fondamentale, inoltre, nella interpretazione della condotta violenta è la
repressione sessuale che permea i
rapporti interumani in quasi tutte le società. (A questo proposito è interessante notare la
sensibile diminuzione
degli atteggiamenti aggressivi nelle relazioni sociali di quelle isole dell'Oceano Pacifico che vivono una
sessualità
priva dei tabù delle civiltà occidentali). Nella repressione sessuale troviamo la causa non
solo dei delitti a sfondo
chiaramente sessuale (che incidono notevolmente sul totale dei reati), ma anche di molti delitti violenti,
nei quali
l'aggressività umana, alimentata da una innaturale morale che vieta condizioni esistenziali
fondamentali, sfoga
alternativamente la sua carica in scoppi distruttivi verso la società. In tutti questi delitti,
dunque, pure legati direttamente a motivazioni non direttamente riconducibili alla
stratificazione sociale ed alla ineguale distribuzione dei privilegi, possiamo però ritrovare una
matrice originaria
identica. La violenza delle strutture sociali, l'homo hominis lupus che sta alla base della
cultura, la repressione
strumentalizzata delle inclinazioni umane sono l'inevitabile frutto della disuguaglianza sociale, che, con
una
concatenazione logica, partendo dai sistemi gerarchici ed autoritari riesce a spiegare il teppismo
più brutale ed
insensato. In questa sede, tuttavia, intenderemo per crimine soprattutto l'azione tesa a guadagnare,
al di fuori della legalità,
benefici materiali. Questo perché, negli atti di violenza a cui abbiamo accennato, c'è
l'esigenza di prendere in
considerazione un più specifico intersecarsi di tratti caratteriali ed ambientali che
rappresenterebbero il discorso;
ci ripromettiamo comunque di riprendere in futuro questo aspetto, tanto importante, della
criminalità. Nei paesi più ricchi del mondo assistiamo ad un fenomeno in atto da
diversi decenni e che accompagna di pari
passo il progresso socio-economico di queste nazioni: una criminalità in continua
ascesa. Questo processo smentisce assolutamente le ottimistiche teorie ottocentesche che vedevano
in un più diffuso
benessere sociale la causa di un sensibile calo delle attività criminali. Viceversa, con
l'eliminazione delle sacche di miseria più grave e con il diffondersi dell'istruzione, la
criminalità
ha avuto un aumento tumultuoso. Solo nei paesi più poveri, a prevalente economia agricola, con
uno sviluppo
sociale e culturale molto lento o nullo, troviamo società in cui il fattore criminalità ha
un'incidenza limitata.
Cadono quindi le teorie economicistiche che legavano in maniera troppo esclusiva e diretta il pauperismo
e la
criminalità. Oggi ci troviamo di fronte ad una "criminalità del benessere" che si è
sviluppata a macchia d'olio nelle
società industriali, con un aumento non solo quantitativo del delitto, ma anche
qualitativo. È anche questa una ulteriore conferma che la matrice sociale della condotta
criminale è la disuguaglianza, non
già una "mancanza" di beni, ma una distribuzione ineguale degli stessi che viene sentita come
ingiusta. La
condotta antigiuridica esprime appunto la volontà di raggiungere quei beni materiali, ed il
prestigio sociale che
ne consegue, da parte dei gruppi più deboli, a cui sono negate le vie legali. La contraddizione
in cui si dibattono i ceti meno privilegiati consiste nell'aver accettato (perché imposta) la
cultura del gruppo dominante, la quale propone alla società una serie di fini-mito, il cui reale
conseguimento è
strettamente legato ad una serie di privilegi di cui ha il monopolio il gruppo detentore del potere. Si mette
in
moto, quindi, un meccanismo che stimola continuamente al raggiungimento di questi fini-mito proposti,
necessari
alla affermazione individuale e nello stesso tempo legalmente irraggiungibili. Questa super stimolazione
della
società sull'individuo provoca un senso di frustrazione che ingenera un processo
aggressivo-oppositivo verso la
società che si realizza con la condotta antigiuridica. Raramente, però, la condotta
criminale è il sintomo di cosciente rifiuto di una società ingiusta e dei suoi valori
imposti. Si tratta di una ribellione individuale ad una condizione sociale personale che viene rifiutata
perché
limitativa e frustrante, la cui unica via d'uscita (se non si perviene "all'integrazione etica") è
l'ottenimento di quei
beni con mezzi illegali. Tuttavia, e per questo precedentemente dicevamo che la criminalità e solo
parzialmente
il fallimento del processo di socializzazione, l'uso dei mezzi illegali per ottenere i fini proposti dalla
società è
un'implicita affermazione dell'accettazione culturale di questi fini. In pratica la socializzazione culturale
è
avvenuta, il sistema sociale e interiorizzato anche dal delinquente, che non lo contesta, ma nel quale cerca
"l'integrazione sociale" ad un livello ritenuto più soddisfacente. È forse questo
l'aspetto più interessante per i rivoluzionari: la criminalità nasce come atto di rivolte
individuale
contro un sistema sociale sentito come ingiusto, è un rifiuto che testimonia l'aspirazione a
cambiare il proprio
status di inferiore (e così per tutti gradini della società), ma si tramuti in
un atto di accettazione del sistema perché
non perde il carattere egoistico della ribellione e trova quindi soddisfazione nel successo della singola
azione
criminosa. Non si tratta quindi di lotta di classe incosciente, ma del rifiuto della propria collocazione di
classe.
Manca (ed in questa direzione si deve intervenire) la coscienza rivoluzionaria, in questo atto individuale,
e spesso
anche la coscienza di appartenere ad una classe di sfruttati e di oppressi. Infatti è facile rilevare
che la criminalità
oggi non ha un carattere, come lo definiremmo noi anarchici, "espropriativo", ma colpisce anche i ceti
inferiori,
spesso più facilmente depredabili. Solo perdendo questo carattere egoistico, quindi, l'azione
antigiuridica anziché
integrarsi nel sistema potrebbe diventare atto di lotta politica. In un'altra prospettiva, però,
la criminalità è un sintomo di malessere, di crisi dei valori etici della società,
anche
se non arriva ad essere il rifiuto del sistema che li genera. La criminalità è infatti, in
correlazione negativa con la
stabilità del sistema. Più una società attraversa periodi di cambiamenti sostanziali,
più sviluppa condotte
antigiuridiche; più il sistema è invece stabile, quindi accettato ed interiorizzato, meno
vistoso sarà il fenomeno
della criminalità.. L'aumento notato nelle società industrializzate occidentali è
indubbiamente la testimonianza che se non hanno
perduto valore le mete proposte (che anzi si sono dilatate) lo hanno perduto le motivazioni etiche che
frenavano
la criminalità. Il conseguimento dei fini, stimolato incessantemente dal consumismo imperante,
è diventato più
importante di una condotta socialmente riprovata. Ci troviamo di fronte ad una scissione tra cultura e
morale, tra
integrazione sociale ed integrazione etica, che esse manifestazione evidente di una profonda crisi nel
corpo
sociale.
R.D.L.
La criminalità in Italia
Nel 1971, secondo i più recenti dati pubblicati dall'ISTAT, si sono avuti in Italia
1.109.352 reati per i quali
l'autorità giudiziaria, ha iniziato un procedimento penale. Di questi, 694.231 (il 62,57%) sono
reati "contro il
patrimonio", (furti, rapine, truffe, ecc.); segue a considerevole distanza (155.952, pari al 14,05%)
l'attività
criminale "contro l'economia e la fede pubblica" (falsificazioni, assegni a vuoto, frodi, ecc.); poi i reati
contro
l'incolumità personale (137,621 pari al 12,40%), dove però più della
metà dei delitti è a carattere colposo, cioè
non volontario. A notevole distanza troviamo i reati "contro la famiglia" (14.597), "contro la morale"
(8.560) ed
infine contro la vita (omicidi e tentati omicidi), che ammontano a 6.697, di cui 5.284 colposi. Il dato
più
importante che possiamo trarre da queste cifre è la prevalenza dei reati di tipo "economico",
cioè commessi con
fini di lucro, che insieme a montano al 90% circa. È interessante fare una comparazione con
i dati del '61 per verificare l'andamento della criminalità in dieci anni.
Nel '61 il totale dei reati denunciati era di 426.317, cifra quasi triplicata nel decennio considerato: i delitti
"contro il patrimonio" si sono anch'essi triplicati (da 244.093 a 694.231) mentre assai minore è
l'incremento degli
altri reati ed i delitti contro la vita sono rimasti pressoché costanti. Del milione abbondante
di delitti annui, circa il 60% rimangono di autore ignoto. Inoltre nel '71, su 486.447
incriminati, 408.522 sono stati prosciolti con varie formule e solo 65.295 sono stati condannati.
Scomponendo
quest'ultima cifra, secondo vari parametri, si può avere un'idea approssimativa della fisionomia
sociale degli autori
di reato identificati e condannati. Di essi, più della metà sono recidivi, con una
schiacciante prevalenza dei maschi (54.598) sulle femmine (10.697). Le classi d'età che
più incidono nella attività criminale sono quelle comprese tra i 30 e i 39 anni (30,2%)
e tra
il 20 e 29 anni (27,3%); poco rilevante la criminalità dopo i 60 anni e abbastanza bassa tra i
giovani al di sotto
dei 20 anni (10%, anche se queste cifre sono falsate in parte dalla particolare legislazione minorile).
Grosso modo
la parabola dell'attività criminale secondo il sesso e secondo le classi d'età si svolge in
maniera abbastanza simile
ad ogni altra attività economica umana, con la differenza che inizia e termina prima. Rispetto
all'istruzione, l'84,3% degli autori identificati di un reato risultano aver frequentato la scuola elementare,
l'8,8% le scuole medie inferiori, il 3,5% le scuole medie superiori e l'università e il 3,4% sono
analfabeti. Di questi 65.000 "delinquenti", inoltre, il 57% è costituito da lavoratori dipendenti
(di cui il 33,8% è occupato
nei servizi, il 9,4% nell'industria e il 3,8% nell'agricoltura) il 16,9% sono invece lavoratori in proprio, il
9,9%
risultano essere casalinghe e il 4,1% si dichiarano disoccupati, gli altri sono studenti, pensionati, ecc..
Questi dati
sono, però, più chiari se considerati in riferimento all'incidenza dei delinquenti sulla
popolazione totale delle varie
categorie. Su 10.000 individui avremo così, per la categoria dei disoccupati, 101 delinquenti; le
casalinghe
"criminali" sono 5 su 10.000, i pensionati 3, gli studenti 9, gli "occupati" in qualche attività
lavorativa 26 su
10.000. Rimanendo a questo rapporto con la popolazione totale, l'incidenza dei delinquenti secondo
il settore lavorativo
(agricoltura, industria, servizi) e la posizione è: lavoratori in proprio dei servizi 88 su 10.000,
lavoratori dipendenti
dei servizi 45; nell'industria 31 lavoratori in proprio e 9 dipendenti; per il settore agricolo 20 dipendenti
e 14 in
proprio. La palma dell'onestà spetta ai salariati dell'industria! Un'ultima osservazione va fatta
sulla netta prevalenza dei lavoratori nei servizi come autori di reati. Probabilmente
sono classificati in questo settore, la maggior parte dei delinquenti abituali che in attività varie
(e spesso
difficilmente catalogabili) hanno vere o simulate occupazioni secondarie.
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