Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 41
estate 1975


Rivista Anarchica Online

Cogestione all'italiana
di A.D.S.

Rinnovi contrattuali e potere sindacale.
Sulla scia del successo elettorale del 15 giugno, il PCI prosegue la sua marcia verso il compromesso storico - La questione delle giunte - La strategia interclassista dei sindacati per i rinnovi contrattuali dell'autunno

La prossima tornata autunno-invernale dei rinnovi contrattuali presenta caratteri di importanza eccezionale sia per il numero di lavoratori implicati, sia per il contesto economico-politico, sia per la qualità di alcune rivendicazioni. Quantitativamente il quadro è presto fatto. Tra la fine del '75 e l'inizio del '76 sono interessati alle lotte contrattuali circa sei milioni e mezzo di lavoratori (cioè approssimativamente la metà dei lavoratori dipendenti italiani): tre milioni di lavoratori dell'industria (metalmeccanici, edili, chimici, elettrici), tre milioni di dipendenti pubblici (statali, parastatali, ospedalieri, ferrovieri, dipendenti degli enti locali, insegnanti, ecc.) e mezzo milione di lavoratori dei servizi (trasporti, marittimi, bancari). L'aspetto quantitativo delle prossime lotte assume un particolare significato, per di più, perché la concomitanza di esse non sarà puramente casuale ma, perlomeno nelle intenzioni delle centrali sindacali, occasione di coordinamento in una strategia unificante.
La situazione in cui si inseriscono queste lotte sindacali è quella della duplice crisi delle strutture economiche e del potere politico, in cui i due aspetti si sono sinora rafforzati a vicenda, vanificando sistematicamente le previsioni ottimistiche che datavano la "uscita dal tunnel" dapprima per la fine del '74, poi per la metà del '75, poi per la fine del '75, ora per il '76. La crisi politica s'è dimostrata anch'essa, come quella economica, non congiunturale (dovuta ad elementi transitori) ma strutturale. Non è una crisi di questo o quel governo, ma una crisi del "regime", cioè dell'assetto intero del potere politico.
Le elezioni del 15 giugno, con un sostanziale flusso di voti piccolo e medio-borghesi da destra a sinistra, hanno sancito la fine del potere democristiano quasi-monopolistico. Il rafforzamento del PCI, previsto ma non nella misura rivelata dei risultati elettorali, ha alterato sostanzialmente l'equilibrio del "bipartitismo all'italiana" (basato sulla sostanziale polarizzazione del ruolo di governo della DC e del ruolo d'opposizione sul PCI), senza che per ora se ne sia individuato come possibile uno nuovo. È vero che numerose indicazioni su possibili soluzioni della crisi politica ci vengono dall'esame delle giunte amministrative regionali, ma è anche vero che tali indicazioni sono tra di loro, perlomeno apparentemente, contraddittorie. Abbiamo esempi di giunte inequivocabilmente frontiste (PCI + PSI con l'eventuale alleanza dei demo-proletari). Abbiamo esempi di compromesso storico "impuro" in cui socialisti e comunisti "governano" con ex socialdemocratici e/o ex democristiani che si sono affrettati ad abbandonare le due barcacce sgangherate - DC e PSDI - che più hanno mostrato falle il 15 giugno (esemplare il caso della giunta comunale di Milano, dove, tra i transfughi del compromesso opportunista troviamo un ex campione dell'anticomunismo come Ogliari). Abbiamo anche casi di giunte frontiste "aperte" (alla DC) e di giunte di centro-sinistra "aperte" (al PCI).
A occhio e croce quest'ultima formula, adottata ad esempio per la regione Lombardia, che vede il PCI quasi-al-governo ("nell'area della maggioranza ma senza partecipazione diretta nella giunta", come dice il bizantino linguaggio dei politici), può essere considerata come la più adatta per una prossima soluzione a livello nazionale. Il PCI paziente ma non fesso, vuole trarre qualche vantaggio dall'indiscutibile successo elettorale e si rifiuta di restare ancora a lungo all'opposizione. I socialisti, pur parzialmente delusi dal 15 giugno, sembrano anch'essi decisi a sfruttare la sconfitta democristiana e socialdemocratica e a non accettare una riesumazione del centro-sinistra vecchia maniera.
D'altronde, nonostante lo sfaldamento progressivo del loro partito e del loro regime, gran parte dei democristiani (e dei loro fedeli cavalieri serventi del PSDI) non sono ancora disposti al matrimonio storico. Infine, un governo frontista non è consentito né dall'aritmetica parlamentare né (soprattutto) dagli equilibri internazionali del potere (dipendenza economica e militare dagli U.S.A.). In attesa dunque di un assenso americano (sollecitato sempre più direttamente dal PCI) al compromesso storico, la formula della giunta regionale lombarda sembra la più probabile. È del resto non privo di significato che sia stata quella per cui il PCI si è mostrato favorevole in tutte quelle situazioni in cui era possibile, anche in alternativa a giunte frontiste (anche se poi si è giunti a soluzioni frontiste per l'intransigenza democristiana e/o socialista).
In ogni caso, se questa è una soluzione praticabile (forse vi sono accenni in proposito nel discorso di Moro alla Fiera del Levante, ma chi lo capisce?), non è detto però che venga praticata, perlomeno nell'immediato futuro. Nessuno, né al Governo, né all'opposizione, sembra aver particolare fretta di fare precipitare la crisi. Intanto la crisi perdura e la debolezza che ne deriva al governo si riflette sulla situazione economica.
Della situazione economica s'è scritto e si continua a scrivere tanto (se n'è scritto anche, più volte, sulle pagine di A) che non fa conto, in questa sede, di parlarne. Merita un cenno, per il significato che assume nel prosieguo del discorso, solo l'aspetto attuale saliente di questa crisi. Mentre un anno fa essa era caratterizzata dal più alto tasso di inflazione (caro-vita) dell'ultimo quarto di secolo, dagli inizi di quest'anno essa si esprime soprattutto come recessione produttiva (disoccupazione, cassa integrazione): la recessione più grave del dopoguerra. Che una cura energetica dell'inflazione dovesse passare attraverso una fase recessiva era quasi scontato, ma che la recessione dovesse essere così drastica e così lunga che non era previsto dagli approssimativi manovratori della politica economica italiana.
In questa crisi, i sindacati si trovano a dover gestire le lotte di sei milioni e mezzo di lavoratori. Un compito ingrato perché essi, che si muovono dichiaratamente su un piano riformista, sono chiamati a gestire queste lotte secondo obiettivi difficilmente conciliabili. Da un lato essi devono imporre alla conflittualità proletaria forme e contenuti compatibili con la sopravvivenza del sistema. Dall'altro lato essi debbono tutelare gli interessi dei lavoratori dipendenti in modo sufficientemente energico da conservare il controllo delle lotte. Un'eccessiva arrendevolezza alle soluzioni padronali e tecnocratiche della crisi (a tutte spese dei lavoratori) sarebbe controproducente: favorirebbe lo sviluppo di forze centrifughe rispetto alle centrali sindacali, cioè una diminuzione del loro controllo sulla lotta di classe. Ma, nel pieno di una recessione, non è neppure possibile una difesa troppo energica degli interessi proletari: renderebbe più difficile la soluzione della crisi e innescherebbe forse, paradossalmente, una radicalizzazione della lotta di classe.
Quanto sia difficile, delicata ed equilibrista questa posizione delle confederazioni lo si è visto anche di fronte agli scioperi estivi "selvaggi" dei ferrovieri "cubisti", "autonomi" e "para-fascisti" nel centro-sud. Da un lato esse hanno cercato di stroncare una lotta (motivata dall'oggettivo disagio della categoria, come hanno ammesso i confederali) indetto dalla concorrenza. Hanno linciato moralmente gli scioperanti ed hanno accettato il grave precedente dell'intervento crumiresco militare (che significativamente ha ripristinato il servizio non con un treno di emigranti ma con un super-rapido di lusso). D'altro canto però hanno dovuto anticipare l'apertura della vertenza ferrovieri per tentare di recuperare il terreno perduto ed hanno opposto un rifiuto categorico alle richieste di regolamentare (cioè limitare) il diritto di sciopero. È anche vero, d'altronde, che hanno promesso in cambio di autoregolamentarsi... Anche le distinzioni tra zuppa e pan bagnato hanno la loro importanza.
Fortuna vuole (per le confederazioni) che, almeno, i grandi padroni pubblici e privati sembra non intendano profittare della situazione (come hanno fatto in altre crisi del passato) per indebolire i sindacati. Tutt'altro. Sembrano essersi finalmente resi conto che la miglior garanzia della pace sociale è l'esistenza di un forte sindacato riformista. Anch'essi, sempre meno capitalisti e sempre più tecnocrati, mostrano d'apprezzare giustamente la "dialettica" collaborazione dei burocrati del movimento operaio. Soprattutto in una situazione di crisi grave come quella attuale.
Le tre centrali sindacali (che non riescono ad unificarsi formalmente ma che comunque agiscono di fatto quasi sempre come un unico sindacato) sanno di giocare molto in questa situazione. Sanno di giocarsi quanto negli ultimi anni hanno riguadagnato (abbastanza) in prestigio presso i lavoratori e quanto hanno guadagnato (molto) in potere. Essi, grazie anche alle strozzature politiche del sistema ed all'immobilismo del "bipartitismo imperfetto", hanno assunto un ruolo politico-economico crescente, complementare ed in parte sostitutivo dei partiti "operai". Ora i burocrati del movimento operaio vogliono non solo conservare il ruolo primario acquisito, ma accrescere il "potere sindacale", il loro potere.
E veniamo, a questo proposito, al terzo aspetto importante di questa tornata contrattuale: la peculiarità di talune richieste normative poste a fondamento comune di tutte le piattaforme rivendicative. Ricollegandosi, con logica ineccepibile, al drammatico aspetto recessivo assunto dalla crisi economica, il direttivo unitario delle tre confederazioni sindacali ha decretato che le piattaforme contrattuali debbano inquadrarsi nella strategia generale del sindacato che dà la priorità al problema dell'occupazione e degli investimenti. Lama ha spiegato che questa priorità significa "norme contrattuali che danno la possibilità al sindacato di negoziare occupazione, investimenti, riconversione, ecc.". Ha anche aggiunto, chiaro e netto, che le piattaforme che non tenessero conto di questa priorità debbono essere modificate. La piattaforma dei metalmeccanici, Lama se ne sarà rallegrato, ne tiene conto. Inizia proprio con il chiedere "il diritto dei consigli di fabbrica e del sindacato territoriale al controllo ed alla verifica congiunta" di: investimenti, modifiche tecnologiche, organizzative e produttive, decentramento, appalti, commesse, lavoro a domicilio, cassa integrazione, mobilità orizzontale, ecc.
In questo modo la risposta confederale alla recessione si configura come una richiesta di "ridistribuzione del potere più che di ridistribuzione dei redditi" come ha scritto il commentatore economico del Corriere della Sera, Massimo Riva. In questo modo infatti si gettano le basi per una estensione del "potere sindacale" in direzione di una "cogestione all'italiana". Mentre ai superiori livelli confederali proseguono i tentativi di "cogestire" la programmazione economica, insieme a imprenditori e governo (o meglio, come ha detto Storti, "con quelle forze politiche che sono al governo o che potrebbero andarci", - chi sa di chi intendeva parlare?) il sindacato intende intervenire ora anche a livello aziendale su tipiche scelte gestionali. Ciò che ancora caratterizza questa "cogestione" rispetto al modello tedesco è che i nostri burocrati sindacali per ora non vogliono poltrone nei consigli di amministrazione. La "cogestione all'italiana" vuole, per ora almeno, restare più conflittuale che corresponsabile.
Con questo le confederazioni non limitano, anzi consolidano - evolvendo in armonia con la realtà politica e sociale italiana, un passo dopo l'altro, prudentemente - il loro ruolo essenziale nel tardo-capitalismo e nella sua evoluzione tecnoburocratica. Un ruolo dinamico, propulsore. Le centrali confederali sono una grossa forza progressista ma insieme necessariamente anti-rivoluzionaria.

A.D.S.