Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 41
estate 1975


Rivista Anarchica Online

La concorrenza ineguale
di R. Brosio

La colonizzazione della campagna da parte della città è al contempo causa ed effetto dei più generali squilibri sociali - Sottrazione della manodopera migliore, sottovalutazione dei prodotti, impiego extra-agricolo dei risparmi formati in agricoltura: i numerosi canali tramite cui il mondo agricolo viene subordinato alla logica di "sviluppo" della città - Attualità delle indicazioni contenute nel "Campi, fabbriche, officine" di Kropotkin

Il progressivo dissesto ecologico (in senso lato) a cui l'espansione urbana va sottoponendo il territorio rurale ripropone in termini di drammatica attualità il problema del rapporto città-campagna. La casistica del fenomeno è nota essendo uno degli argomenti trattati, si può dire, quotidianamente dagli organi di informazione, e non richiede, in questa sede, ulteriori approfondimenti. Quello che, invece, ci preme notare è che l'inquinamento ambientale, fisico, chimico, estetico, delle zone agricole, non è che un effetto, se pur macroscopicamente importante, della condizione di sottomissione "coloniale" in cui la città tiene (e, in genere, ha tenuto) la campagna. Di ciò intendiamo qui parlare.
Il rapporto di dominazione della città sulla campagna ha assunto, nel tempo, varie forme, a seconda delle forme assunte dai rapporti di produzione e dal potere politico. Attualmente nei paesi tardo-capitalisti come l'Italia, dove sopravvive ancora un'economia mercantile, tale dominio prende comunemente l'aspetto di un diseguale rapporto di scambio tra i prodotti della città e quelli della campagna, vale adire tra i beni e servizi prodotti dai settori secondario e terziario e i frutti dell'agricoltura. Da questo "scambio ineguale" deriva una diversa capacità di concorrenza reciproca tra città e campagna, per l'acquisizione e l'uso di quei fattori necessari ad entrambe per le proprie attività produttive: manodopera, capitali, terra. Più precisamente tale concorrenza è nettamente squilibrata a vantaggio della città, al punto che alla campagna e all'agricoltura viene lasciata solo quella dose di fattori produttivi rimasta inutilizzata dalla città, dall'industria e dai servizi. In altri termini la città può attingere a terra, manodopera e capitali, secondo le sue esigenze e secondo la sua logica di sviluppo, mentre la campagna è costretta, nei fatti, a subire tali esigenze e tale logica. L'affermazione apparirà confermata, esaminando più da vicino i meccanismi di questo squilibrio concorrenziale.

La concorrenza per la terra

Il suolo, nel nostro paese come in tutti quelli tardo-capitalistici, è in larghissima parte oggetto di libera compravendita. La scelta tra i possibili usi alternativi di esso, quindi, è lasciata al gioco del mercato, cioè appunto alla concorrenza mercantile tra città e campagna. Ora, tale concorrenza è per la campagna palesemente insostenibile. Una qualunque destinazione extra-agricola del suolo (casa d'abitazione, capannone industriale, distributore di benzina, eccetera) può "pagare" valori unitari dieci, cinquanta, cento e più volte superiori a quelli compatibili con un uso agricolo. Un metro quadrato di seminativo irriguo, ad esempio, viene attualmente compravenduto ad un prezzo medio oscillante tra le tre e le quattrocento lire, contro le svariate, spesso decine di migliaia di lire che potrebbe spuntare in caso di destinazione edilizia o simile. Questa concorrenza insostenibile (se di concorrenza ancora si può parlare tra chi può pagare uno e chi può pagare cento per lo stesso bene) determina due principali effetti negativi sull'agricoltura. Il primo di essi è che la destinazione agricola di un terreno è condizionata non tanto dalla possibilità tecnica di esercitare su di esso questa o quella coltivazione, quanto dal fatto che possa esser utilizzato, o no, per le esigenze dello sviluppo urbano. All'agricoltura, dunque, non vengono lasciati i terreni più adatti, ma semplicemente quelli non adatti all'industria e ai servizi, buoni o cattivi che siano per le coltivazioni o l'allevamento.
Il secondo tipo di danno apportato dalla concorrenza della città è un incremento del valore dei fondi che non ha rapporto con la produttività agricola degli stessi, incremento che limita fortemente la ristrutturazione fondiaria (ampliamento aziendale, eccetera) e funziona pertanto da ostacolo all'aumento della produttività agricola stessa. In altri termini, la semplice possibilità, anche non immediata, di futuri usi extra-agricoli (e quindi di maggiori prezzi) tende a far aumentare anche il valore "agricolo" attuale dei terreni, costringendo gli agricoltori che desiderano ingrandire la propria azienda a contenere gli ampliamenti e le ristrutturazioni, o rinunciarvi, per l'eccessivo costo di esse, non compensato da una adeguata produttività.

La concorrenza per la manodopera

La campagna è, notoriamente, il serbatoio di manodopera cui la città attinge secondo le sue esigenze. Ad esempio, il boom italiano degli anni '50 e '60 ha ridotto drasticamente la manodopera agricola, trasferendola al settore secondario (soprattutto) e terziario. Nell'ultimo ventennio, infatti, gli attivi in agricoltura, che erano il 42,2% degli attivi totali all'epoca del censimento del 1951, si sono ridotti al 17,3% (censimento del 1971). Ora, la riduzione degli attivi in agricoltura, per quanto intensa, non è in sé un fenomeno negativo, chè anzi essa è necessaria per aumentare la produttività pro-capite del lavoro, cioè per ridurre l'incidenza del fattore produttivo oggi più caro, la manodopera. Se però dall'aspetto quantitativo passiamo a quello qualitativo, non è difficile identificare i danni che derivano all'agricoltura dalla concorrenza urbana nell'uso della manodopera. La riduzione di manodopera agricola avviene contemporaneamente per "espulsione" (per l'introduzione cioè di tecnologie che rendono conveniente la sostituzione del capitale al lavoro) e per "attrazione" (migliori condizioni monetarie e non degli impieghi extra-agricoli). Sinché il drenaggio di manodopera avviene in armonia con l'espulsione, il settore agricolo non subisce alcun danno da esso, anzi ne viene favorito, come s'è detto, lo sviluppo della produttività del lavoro umano. Quando viceversa la "attrazione" agisce in misura eccedente le possibilità di "espulsione", l'equilibrio dinamico dell'agricoltura ne viene danneggiato. Inoltre, in generale, essendo la città a determinare la riduzione degli attivi agricoli, essa esercita un effetto negativo sulla campagna anche per quella quota di manodopera "attratta" coperta dalla "espulsione". Infatti gli elementi che più sentono tale attrazione sono i lavoratori più dinamici e più giovani. Questo significa, semplificando, che l'agricoltura perde i "migliori", e si impoverisce qualitativamente in misura superiore alla diminuzione quantitativa.

La concorrenza per i capitali

Il mezzo più rilevante, oggi, con cui la città "drena" capitali dalla campagna, è rappresentato certamente dalla sottovalutazione dei prodotti agricoli rispetto a quelli industriali. Ciò è reso possibile dal fatto che la città detiene praticamente il monopolio della domanda dei prodotti agricoli (o ne è comunque l'acquirente d'elezione) e gode quindi di condizioni di netta prevalenza nella determinazione dei prezzi. In tal modo, spendendo cioè relativamente "poco" per il proprio mantenimento, può devolvere l'uso del capitale così risparmiato alle attività che la contraddistinguono, l'industria e i servizi.
Un'altra forma di "drenaggio" capitalistico è rappresentato dall'uso per impieghi extra-agricoli del risparmio formato in agricoltura. La redditività del capitale impiegato per scopi rurali, infatti, è nettamente inferiore a quella ottenibile con altri investimenti: questo significa che gli agricoltori stessi sono spinti ad investire perlomeno una parte del proprio risparmio in azioni di società industriali, nell'edilizia, eccetera, invece che nel proprio fondo. La somma totale di questo "risparmio distratto" non ha certamente un gran peso sul complesso degli investimenti industriali e terziari, a causa della ridotta rilevanza economica del settore agricolo in confronto agli altri settori. Costituisce, comunque, un ulteriore esempio di quella sottrazione di strumenti produttivi che la città opera ai danni della campagna. Può sembrare in contrasto con tutto ciò, l'osservazione che ormai, in tutti i paesi tardo-capitalisti, i capitali investiti nell'agricoltura provengono in larga misura dal finanziamento pubblico, cioè dalla "città" intesa in senso lato. In Italia, ad esempio, un terzo del credito agrario a breve termine, la maggior parte di quello a medio e quasi tutto quello a lungo termine, è dovuto all'intervento dello stato. Ma la contraddizione è solo apparente. Nella realtà, questo dimostra che la campagna "da sola" non è in grado di approvvigionarsi dei capitali che sono necessari, e deve dipendere per essi dall'"aiuto" proveniente dai settori urbani dell'economia. La città, d'altro canto, ha interesse a compensare parzialmente, con tale aiuto, gli effetti dello scambio ineguale, per evitare che la sottrazione di capitali all'agricoltura arrivi a bloccare patologicamente tale settore, e di conseguenza ne rende impossibile lo sfruttamento. In ultima analisi, è sempre la città che decide l'ammontare degli investimenti agricoli, secondo i suoi ritmi e i suoi interessi.
Con questa forzatamente breve disamina dei meccanismi di dipendenza della campagna dalla città, non abbiamo certo toccato tutti gli aspetti del problema. Altri ne esistono, che qui non è il caso di trattare per i limiti di spazio che ci sono imposti. Crediamo comunque che la dipendenza, definita "coloniale" in apertura, dell'ambiente rurale da quello urbano, sia stata sufficientemente messa a fuoco. A questo punto sorge spontanea una domanda: come è risolvibile il problema? Settant'anni fa, l'anarchico Pietro Kropotkin, esule in Gran Bretagna, diede alle stampe "Campi, fabbriche, officine", un libro che molti, all'epoca, giudicarono stravagante. In esso si sosteneva che fosse auspicabile e possibile l'integrazione economica e sociale di industria e agricoltura, di città e campagna, attraverso il decentramento, la "ruralizzazione" dell'industria. Tale decentramento sarebbe stato reso possibile dal progressivo superamento delle principali condizioni che avevano reso economicamente conveniente l'accentramento urbano industriale (vicinanza alle fonti di energia, problemi delle comunicazioni e dei trasporti, eccetera). Oggi le idee di Kropotkin appaiono assai meno stravaganti, non solo agli anarchici, che vi scorgono la geniale intuizione di chi aveva a cuore l'armonico sviluppo dei rapporti umani, ma a quanti siano sufficientemente lucidi da accorgersi dove ci ha condotto lo squilibrio economico e sociale esistente tra l'ambiente rurale e quello urbano. La città ha quasi completamente annullato i modelli culturali rustici e questo è bene, perché essi, fatti su misura di arcaiche strutture, poggiano sulla famiglia patriarcale autoritaria, sulla tradizione, sull'immobilismo, sulla chiusura e in definitiva sulla miseria. Ma i modelli culturali proposti dalla città sono altrettanto discutibili, perché fatti su misura di una società altrettanto ingiusta di quella contadina, perché mitizzano un dinamismo fine a se stesso, perché elevano le nevrosi a modelli di vita, perché uccidono la solidarietà. L'industria ha bisogno dell'agricoltura, e questa di quella. Che l'industria non possa esistere senza l'agricoltura è un'evidenza banale, ma anche l'agricoltura moderna, libera cioè dalla fatica bestiale e dalla bestiale dipendenza dalla natura, è inconcepibile senza l'industria della città perché ha bisogno di uscire dallo squallore della cascina, dall'isolamento culturale del paese, dalla miseria dei rari contatti umani, dal buio, dal fango, dalla nebbia. L'unica soluzione possibile sta dunque nel superamento globale della separazione città-campagna; cioè nel superamento sia della realtà urbana che di quella rurale, quali si sono storicamente configurate finora. Già oggi, è in atto un processo di parziale decentramento delle industrie, in quanto, superati certi limiti, la cogestione urbana offre loro più svantaggi che economie. Ma questo decentramento, caotico e violento, è ancora espressione del prepotere dell'industria sull'agricoltura, della città sulla cascina e sul paese. Non ha nulla a che vedere con quella "ruralizzazione", armoniosa ed intelligente, che può risolvere i problemi della campagna e insieme della città e non può avvenire senza una profonda rivoluzione dei rapporti sociali ed umani. Cioè senza una rivoluzione libertaria.

R. Brosio