Rivista Anarchica Online
Al servizio del compromesso storico
di Claudia V.
L'analisi socio-economica del PCI. Sulle orme del marxismo, i teorici del partito comunista hanno
sviluppato la loro interpretazione sociale e la
conseguente strategia politica per la conquista "democratica" del potere - Il mito funzionale della
produttività -
I nuovi rapporti di potere basati sul sapere tecnologico - Da Gramsci a Berlinguer, via Togliatti: ovvero
dal
"blocco storico" al compromesso storico.
La politica culturale svolge un ruolo molto importante nella strategia del
PCI per la conquista del potere: essa
non corrisponde soltanto a un'attività di propaganda a sostegno dell'azione politica, ma è
essa stessa azione di
organizzazione politica e sociale da parte degli intellettuali per gettare le basi della futura "società
socialista". La strategia della politica culturale comprende quindi sia un'analisi della situazione attuale,
sia la teoria per un
intervento concreto.
Il tardocapitalismo
L'analisi dei teorici del PCI sull'attuale economia riprende integralmente e sviluppa le previsioni di
Marx sul
tardocapitalismo. Il punto di partenza è la considerazione che l'attuale fase economica
mantiene tutti i caratteri dello sfruttamento
capitalista. I mezzi di produzione sono in mano ai proprietari capitalisti, i quali, perciò, si
appropriano del
plusvalore prodotto dagli operai: lo sfruttamento si realizza con la vendita da parte dell'operaio della
propria forza
lavoro al padrone. Il fattore caratterizzante dell'economia è perciò il persistere dei
rapporti di sfruttamento sulla
base della proprietà privata: quest'ultima è all'origine della divisione in classi e
dell'ingiustizia sociale. Uno dei fenomeni più importanti che si verifica oggi nei paesi
industrialmente avanzati è il processo di
concentrazione del capitale e della produzione: i principali settori della produzione industriale vengono
progressivamente assoggettati al potere di pochi gruppi economici; la piccola impresa viene gradualmente
soppiantata dalla grande impresa con grande capitale con il risultato che giganteschi monopoli esercitano
sempre
più il predominio economico e sociale. Questo fenomeno di concentrazione monopolistica
approfondisce, secondo la tesi marxista, l'antagonismo tra
coloro che posseggono i mezzi di produzione e coloro che per sopravvivere sono costretti a vendere la
propria
forza lavoro in cambio di un salario. Si estende cioè la classe sfruttata e si aggrava la
contraddizione tra capitalisti
e nullatenenti. Infine un altro fenomeno importante è rappresentato dall'intervento
economico, finanziario e politico dello Stato
nell'economia monopolistica. Questa situazione viene definita dai teorici comunisti come "capitalismo
monopolistico di Stato". Il significato politico di questa definizione, il suo scopo nella teoria della
strategia comunista è di confermare la
validità "scientifica" e il carattere inevitabile della lotta di quella che è ormai la
maggioranza degli "espropriati"
contro gli espropriatori e di assicurare la validità della tesi marxista secondo la quale la lotta per
l'emancipazione
degli sfruttati si realizza solo contro la proprietà privata, contro la borghesia capitalistica. La
teoria della conquista del potere ha però due aspetti: infatti, oltre a giustificare con l'analisi del
capitalismo
monopolistico di Stato una lotta di massa contro la borghesia, essa mira soprattutto a conquistare i centri
di
controllo effettivo del potere economico. Per capire verso quale potere si muove il PCI è
perciò necessario
accennare alla forma dell'organizzazione del lavoro nel "tardocapitalismo".
Organizzazione del lavoro
Lo sviluppo del capitalismo nel senso che abbiamo ora visto ha determinato profonde trasformazioni
nell'organizzazione del lavoro: innanzitutto la concentrazione del capitale ha comportato un aumento
delle
operazioni necessarie per organizzare e controllare il processo produttivo, quindi è aumentata
la quantità delle
informazioni sia tecniche sia economiche e amministrative (e di conseguenza il numero degli impiegati
in possesso
di queste conoscenze). Inoltre lo sviluppo e l'applicazione della tecnica e della scienza per aumentare la
produttività (ad es. attraverso l'automazione) ha accresciuto il valore economico e sociale della
conoscenza
scientifica. Complessità ed estensione delle organizzazioni e automazione stanno così
alla base dell'attuale sviluppo della
scienza. Questa scienza ha un aspetto "quantitativo" - è un volume di informazioni posseduto
da uno strato sempre
più esteso di lavoratori - e soprattutto un aspetto "qualitativo" - i diversi tipi di conoscenza e la
loro capacità di
controllare la produzione distinguono le differenti funzioni sociali e la collocazione di chi le esercita nella
gerarchia sociale. Il ruolo della conoscenza tecnologica nella divisione del lavoro è quindi
determinante per il rapporto tra le classi
sociali: la scienza, dai gradi più bassi a quelli più alti del controllo della produzione si
ritrova in tutte le funzioni
produttive e sembra comprendere in un enorme ceto medio l'operaio qualificato e il tecnocrate.
La tecnoburocrazia
Ciò che la teoria comunista non dice, ma su cui si basa il programma della via italiana al
socialismo, è che il
possesso del sapere tecnologico è il criterio sul quale si fondano i nuovi rapporti di
potere. Infatti il potere decisionale, la direzione effettiva della fabbrica (e dell'economia), sta
passando in modo sempre
più decisivo dalle mani dei proprietari capitalistici a quelle dei managers i quali
soltanto posseggono il sapere
tecnico complessivo necessario per la guida dei grandi complessi industriali. Soltanto partendo dalla
considerazione che la base dello sfruttamento è la divisione autoritaria del lavoro, la
separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra ruolo subordinato e ruolo direttivo, è
possibile
comprendere come, al di là dei rapporti di proprietà, è la distribuzione del sapere
(e del lavoro rispetto al sapere)
in senso gerarchico e autoritario a determinare la nuova forma di sfruttamento. Esiste infatti nel "ceto
medio" una differenza sostanziale tra chi possiede anche un notevole bagaglio di
conoscenze tecniche, ma sempre relative al ruolo subordinato ed è ancora sfruttato, e i tecnocrati
che invece
posseggono la conoscenza generale e complessiva della produzione e sono i futuri sfruttatori. La strategia
della
transizione del PCI, mentre da una parte spinge per l'abbattimento definitivo del potere borghese,
dall'altra mira
a realizzare un sistema di organizzazioni di controllo politico e sociale che sia espressione, e allo stesso
tempo
guida della società. A questo scopo, il primo problema teorico che si presenta al PCI
è di trovare il modo di unificare ideologicamente
la maggior parte delle classi sociali, tacendo il fatto che già da ora esse si articolano secondo i
rapporti che
abbiamo esposto e i puntando invece sulla comune condizione di sfruttamento rispetto alla
proprietà. La teoria della classe sfruttata è l'anello di congiunzione tra l'analisi del
capitalismo monopolistico di Stato e il
piano di conquista del potere politico della tecnoburocrazia.
La teoria della classe sfruttata
Come abbiamo visto all'inizio, per i teorici del PCI le attuali condizioni di sfruttamento sono quelle
capitalistiche
analizzate da Marx: ciò che distingue il padrone dallo sfruttato è la proprietà dei
mezzi di produzione: sfruttato
è colui che vende la propria forza lavoro e produce un plusvalore che non viene pagato. Ora, se
nella situazione
attuale è evidente che la maggioranza dei lavoratori è esclusa dalla proprietà dei
mezzi di produzione (ed è perciò,
secondo il PCI, sfruttata), meno chiaro è però se, indipendentemente dal tipo di rapporto
esistente tra il lavoratore
e la produzione, tutti i lavoratori possono essere definiti comunque sfruttati. Per rapporto tra lavoratore
e
produzione si intende la funzione che egli svolge nell'azienda (se cioè egli è per es.
operaio oppure ingegnere). Il fine della teoria del PCI è di riuscire ad affermare che tutti
sono sfruttati anche se non tutti svolgono nella realtà
funzioni equivalenti (in virtù della gerarchia del sapere che abbiamo prima indicato). Il tema
trattato più di frequente è infatti quello del "lavoro produttivo": in linea generale (proprio
per non toccare
il tema della divisione gerarchica del lavoro) la questione del rapporto con la produzione non viene
impostata
sull'interrogativo "come il lavoratore produce", ma sulla domanda "se il lavoratore produce": ossia il fatto
di essere
o no produttore viene preso come criterio per distinguere chi è sfruttato da chi non lo
è. Uno dei concetti che ricorre con più frequenza è che non è
sfruttato solo chi è direttamente legato al processo
produttivo, chi opera direttamente sui mezzi di produzione, ma lo è anche chi lavora
perché esso si realizzi: "I lavoratori produttivi non sono soltanto coloro che intervengono
fisicamente sugli oggetti prodotti... Ingegneri,
tecnici, quadri, ricercatori possono essere produttori di plusvalore ed "esattori" di plusvalore. Questa
interpretazione si fonda sul carattere dirigente necessario per la produzione del lavoro
dell'ingegnere. Ma tale
necessità, che è necessità di produzione, diviene per effetto dei rapporti di
produzione capitalistici, necessità del
capitale... D'altra parte, appare difficile se non impossibile stabilire una netta divisione tra l'attività
di direzione
a favore della produzione e quella di direzione a favore del capitale". Dovendo affrontare il problema
della divisione autoritaria del lavoro, i teorici del PCI interpretano la gerarchia
del lavoro manuale e intellettuale come un aspetto della specializzazione dell'organizzazione del lavoro,
una
divisione in settori equivalenti, tutti egualmente necessari rispetto alla produzione e perciò tutti
socialmente
uguali. Non solo, ma poiché tutti partecipano, chi come formica chi come aquila a livelli
stratosferici, al sapere
tecnologico, tutti sono "intellettuali", tutti possono partecipare al "controllo sociale": si tratta solo di
organizzare
questo controllo al di fuori del dominio della borghesia. Il marxismo, precisano i suoi teorici, "non
ha mai confuso lavoro manuale e appartenenza alla classe sfruttata"
ed è vero. Infatti se per lavoro manuale non si intende semplicemente il "lavoro faticoso", ma
il lavoro
subordinato, che può essere anche manuale, ma è comunque il lavoro dello sfruttato, il
marxismo non si è mai
mosso contro di esso e oggi più che mai, nella forma concreta e specifica, del PCI, dimostra
appunto di non voler
abbattere lo sfruttamento, ma di volerlo gestire a proprio vantaggio. Nel ceto medio rientra
così una folla eterogenea di sfruttati veri sciacalli travestiti da sfruttati, di produttori ed
esattori di plusvalore allo stesso tempo, tutti ugualmente necessari e tutti "derubati". La classe
sfruttata, dunque, nella teoria del PCI, comprende per definizione tutti coloro che vendono la propria
forza lavoro in cambio di un salario, che sono esclusi dalla proprietà dei mezzi di produzione e
partecipano "a
vari livelli" alla produzione. Questa interpretazione del ceto medio sfruttato è è la
base politica sulla quale il PCI afferma di costruire una
strategia realista, nel senso che tiene conto degli attuali "rapporti di forza"; essa è anche il terreno
sul quale il
partito imposta la politica delle alleanze. Vediamo ora quale specifica teoria il PCI ha elaborato per
giustificare e programmare la conquista del potere
politico da parte dei "tecnocrati sfruttati", sulla base dell'alleanza di classe. Questa teoria è
una elaborazione del pensiero di Gramsci: il Gramsci che appare qui è quindi quello un po'
deforme, inserito nella linea ideologica "Gramsci-Togliatti-Berlinguer", che è risultato dall'azione
di filtraggio dei
teorici comunisti: è comunque il Gramsci ufficiale del partito, uno dei suoi pensatori più
importanti.
Gramsci e gli intellettuali
Il PCI si richiama a Gramsci quale ideatore teorico della via italiana al socialismo. Gramsci si
occupò infatti delle
condizioni specifiche per una rivoluzione socialista nei paesi industriali occidentali e in Italia in
particolare,
trattando soprattutto del rapporto tra partito, società e Stato. È questo un riferimento
importante se si considera
che il PCI afferma che la sua strategia è realista e specifica della situazione italiana proprio
perché è il frutto
dell'analisi della particolare contraddizione tra detentori dei mezzi di produzione e nullatenenti in ogni
singola
nazione. Il concetto più importante ripreso da Gramsci è quello della egemonia di
classe. Poiché lo Stato si presenta come
organizzazione dell'egemonia di una classe sulla società (secondo l'analisi Gramsci-PCI), la
realizzazione
dell'egemonia è il punto centrale per il passaggio al socialismo all'interno di strutture sociali
capitaliste.
L'egemonia si forma e si esprime in un blocco storico, cioè in un sistema di alleanze politiche e
sociali
caratterizzato da una ideologia e una cultura unitarie, o perlomeno omogenee. L'egemonia si esprime
in due forme: la "direzione" e il "dominio". La direzione è la capacità di agire sulle
strutture
economiche e sociali e di fondare e dirigere l'alleanza di classe; il dominio si realizza con la sconfitta del
nemico
comune (in questo caso la borghesia) e il definitivo possesso del potere (dittatura del proletariato). Dei
due
momenti il primo - la direzione - svolge ruolo fondamentale: è l'azione concreta di
organizzazione del potere di
cui la dittatura del proletariato è in un certo senso il "riconoscimento ufficiale". Se il blocco
storico perde la sua
capacità di direzione, se non è più in grado di reggere l'egemonia, la classe
dominante entra in crisi. L'egemonia
del proletariato deve perciò essere la realizzazione di un'alleanza di classe che permetta al
proletariato di muovere
la maggioranza dei lavoratori contro la borghesia e soprattutto deve esprimersi come capacità di
dirigere la
transizione dal capitalismo al socialismo. Se la conquista dello Stato è possibile solo dopo
aver ottenuto il controllo e l'adesione della "base sociale",
questo significa che questa base rappresenta una conquista in un certo senso precedente e sostanziale
rispetto a
quella successiva e "formale" del controllo dello Stato. Questi due momenti diversi della conquista
del potere si spiegano considerando che essi sono il risultato di
un'analisi storica su come si attua il passaggio del potere (l'analisi di Gramsci sul ruolo dell'egemonia) e
presuppone una distinzione tra un livello politico e un livello storico della conquista del potere; l'egemonia
è
infatti la capacità di dirigere l'alleanza delle classi sul terreno in cui si forma il nuovo potere, il
terreno "storico";
essa perciò deve formare organizzazioni che siano espressione delle nuove funzioni sociali (le
quali insieme
formano il blocco storico), e dirigerle. Ed è quindi relativo e indipendente l'intervento nelle
istituzioni politiche
capitaliste e borghesi, le quali sono quasi anacronistiche rispetto alla nuova organizzazione del
lavoro. L'egemonia deve mirare a costruire una rete organizzativa (attraverso istituzioni alternative)
tra i più importanti
centri di potere economico e sociale del "tardocapitalismo", i quali non sono e non possono essere
controllati
dalle istituzioni borghesi; realizzare l'egemonia significa per la classe operaia (o meglio, per i burocrati
che la
rappresentano) porsi ai vertici dell'organizzazione di questo blocco storico. Il compito di elaborare
la teoria e la strategia è quindi fondamentale: esso significa controllo e decisione sul
potere; e poiché le classi sono alleate sulla base del sapere (cioè sulla divisione gerarchica
secondo diversi livelli
della conoscenza tecnologica) al cui vertice vi è il sapere tecnocratico, esercitare la direzione del
blocco storico
significa avere il massimo del controllo sociale, possedere la scienza complessiva della produzione e della
società
tecnoburocratica in formazione. Se inoltre il ruolo politico di una certa classe all'interno del blocco
storico è l'espressione della funzione da essa
svolta rispetto al controllo della produzione, ne deriva che il massimo ruolo politico spetta agli intellettuali
di
vertice, ai tecnocrati. Nella teoria del PCI, l'organizzazione base per mezzo della quale soltanto
può esercitarsi la direzione
dell'egemonia è il partito operaio. Il partito viene definito come momento della "coscienza",
della consapevolezza critica, dell'ideologia in senso lato:
gli intellettuali, di cui in modo mistificante si nasconde il ruolo di sfruttatori, sono gli unici secondo la tesi
gramsciana a poter assumere il ruolo direttivo: da una parte infatti essi soli possono superare i limiti della
coscienza tuttalpiù "sindacalista" degli operai, volta alla conquista di obiettivi spiccioli, dall'altra,
sfuggendo a
una definizione di sfruttamento in termini di divisione del lavoro, possono presentarsi come parte
organica della
classe operaia e sua "emanazione", come la mente dell'unico blocco storico della tecnoburocrazia di cui
gli operai
sono ancora una volta il braccio. Poiché il partito operaio è il vertice unificatore
dell'organizzazione del contro potere sulla base del sapere, questo
significa che il senso della politica culturale del PCI nel programma della via italiana al socialismo,
è di riuscire
ad organizzare la lotta della classe tecnocratica identificando tendenzialmente in un medesimo luogo il
vertice
del partito e il vertice della tecnoburocrazia.
Claudia V.
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