Rivista Anarchica Online
La siringa scende in piazza
a cura della Redazione
Tavola rotonda sulle lotte dei lavoratori ospedalieri
"Il Policlinico è in coma", "Gli ultrà di sinistra terrorizzano i dipendenti", "Paralisi pressoché totale
delle strutture sanitarie", "Scritte provocatorie e rivendicazioni spesso gratuite", "I malati abbandonati
a se stessi", "Minoranze di provocatori", "Atti di vero teppismo". Così la stampa, da quella moderata
a quella di sinistra, si è espressa nei confronti delle recenti agitazioni degli operatori ospedalieri.
L'intervento dell'esercito negli ospedali milanesi è stato salutato con favore e i sindacati hanno
abilmente scaricato la colpa di questo crumiraggio militare sui lavoratori in lotta. Ma perché tanto
accanimento, tante calunnie nei riguardi di lavoratori che, stanchi di esser super sfruttati e sottopagati,
vogliono la attuazione di un contratto di lavoro siglato nel 1974?
Gli interessi negli ospedali coinvolgono forze di potere composite, accomunate da interessi poco
confessabili. In questo settore i sindacati sono ancor più rinunciatari del solito e hanno sempre cercato
di fare accettare ai lavoratori i ritmi e le condizioni decise da una amministrazione preoccupata
innanzitutto di salvaguardare le posizioni di privilegio di baroni, medici ecc. Il mettere in discussione
questo mondo ha sollevato un vespaio che in parte spiega la campagna di calunnie sfociata alcuni
giorni fa nell'apertura ufficiale di una inchiesta nata dalle denunce dell'Amministrazione della Ca'
Granda. Ma quello che ha maggiormente impensierito politici e dirigenti è che queste lotte sono state
portate avanti in modo autonomo, fuori dalla logica e dagli schemi dei sindacati confederali e che tra
i "teppisti" e "provocatori" numerosi erano i lavoratori anarchici e libertari.
Abbiamo incontrato alcuni compagni del Gruppo Anarchico Ospedalieri (Fabio P., Sabina B., Michele
A., del Policlinico; Anna B., Lorenzo V., Anacleto M. dell'Ospedale Niguarda; Enzo F. del S. Carlo;
Rudy F. del S. Raffaele) perché ci illustrassero i termini reali delle lotte in corso e la loro esperienza.
Direi di iniziare con una panoramica della situazione che ha dato origine alle lotte attuali negli
ospedali.
Michele A. - Più o meno, credo si possa dire che tutto ha avuto inizio con la chiusura del vecchio
contratto nel 1974 che ha aperto nuove prospettive di lotta sindacale all'interno degli ospedali milanesi.
Una cosa estremamente importante sancita da quel contratto è stata l'applicazione del mansionario, che
avrebbe quindi richiesto una rivalutazione di tutti gli organici degli ospedali. Infatti gli ospedali hanno
sempre funzionato, e funzionato male, solo grazie al fatto che i lavoratori svolgevano altre mansioni oltre
a quella per cui erano pagati: le aiutanti svolgevano anche le mansioni delle generiche, queste ultime
facevano lavori da infermiere specializzate, i tecnici dei laboratori svolgevano funzioni da medici e così
via per tutta la scala gerarchica.
Evidentemente questo stato di cose nasceva da un lato da un'endemica carenza di personale e, quindi,
dalla necessità in qualche modo di assistere gli ammalati, e dall'altro da quella strana concezione di
stampo tipicamente cristiano (non a caso le suore negli ospedali hanno un potere enorme) che vedeva
nel lavoratore degli ospedali un lavoratore diverso dagli altri, quasi un missionario.
Con l'applicazione del mansionario si sarebbe quindi dovuto porre fine a questo stato di cose, a questo
supersfruttamento dei lavoratori. Ma così non è stato. Ad esempio per il Policlinico si è arrivati al giugno
del '76, attraverso tutto un lavoro di informazione, di discussioni in assemblee di reparto ecc. a formulare
l'organico dei vari settori dell'Ospedale Maggiore, organico che prevedeva un inquadramento ai livelli
superiori del personale esistente. Questo inquadramento è stato quindi deliberato dalla Amministrazione
del Policlinico nel giugno '76 che lo ha presentato al Comitato Regionale di Controllo per la decisione
definitiva. Decisione che è stata, e non poteva non esserlo, negativa. A questo punto, a un anno e mezzo
dalla stipulazione del contratto di lavoro e dalla sua non applicazione continua, i lavoratori ne hanno
avuto le tasche piene e sono scesi in lotta senza attendere nessuna indicazione sindacale, soprattutto quei
lavoratori che venivano pagati come manovali (che è l'ultimo livello salariale del settore ospedaliero)
mentre in realtà svolgevano mansioni da specializzati. Sono quindi scesi in lotta applicando il
mansionario e attenendosi rigidamente a fare quei lavori per cui venivano retribuiti. Questa semplice e
sacrosanta forma di lotta è stata sufficiente per mettere in crisi tutta la struttura dell'ospedale, per
paralizzare il suo funzionamento. D'altro canto l'applicazione del mansionario non si poteva neppure
portare avanti completamente perché l'ospedale non è una fabbrica dove se non lavori non esce il
prodotto, qui il prodotto è l'ammalato che è un essere umano e uno sfruttato esattamente come te e con
cui devi sempre fare i conti. Questo fattore, quindi, importantissimo, condizionava anche le lotte più dure
limitando necessariamente la nostra azione.
Enzo F. - La situazione attuale ha dei precedenti che si possono far risalire a due cose abbastanza
importanti: al contratto del '74 e alla costituzione del consiglio dei delegati che è relativamente recente
negli ospedali (1972-73). Queste due cose avevano creato delle aspettative grossissime tra i lavoratori,
i quali però si sono presto resi conto che il contratto non veniva applicato e che il consiglio dei delegati
non era quello strumento di partecipazione che essi pensavano. Da qui la disillusione e la situazione
attuale. Il contratto in effetti che cosa aveva dato? Aveva previsto una serie di cose che potevano
migliorare le condizioni dei lavoratori e tra queste cose finalmente il fatto che i lavoratori dovevano
essere inquadrati nei livelli funzionali retributivi, cioè in base alla funzione svolta il lavoratore doveva
essere retribuito. Consentiva una modifica delle classi stipendiali; consentiva inoltre ai lavoratori di poter
usufruire delle 150 ore di studio, consentiva una modifica dei turni per arrivare a fare due giorni di riposo
ogni cinque o sei, consentiva poi di arrivare alle 40 ore di lavoro settimanale, consentiva il pagamento
degli arretrati. Il contratto inoltre apriva un discorso sulle scuole professionali, e sul dipartimento come
obiettivo da raggiungere nella ristrutturazione dell'ospedale. Ora tutte queste cose in effetti non sono
state messe in pratica. Erano previste dal contratto, però per poterle ottenere i lavoratori hanno dovuto
lottare. Cosa hanno ottenuto i lavoratori con le loro lotte? Sono riusciti a far sì che venisse rispettato
l'articolo che prevedeva le 150 ore in base alla percentuale definita del 4 per cento sul totale del
personale assunto. A volte infatti la direzione non voleva cedere neppure su questa percentuale per cui
si dovevano iniziare nuove lotte. La stessa cosa è avvenuta per le 40 ore settimanali. A Niguarda, ad
esempio, per ottenere le 40 ore c'è stato un periodo di lotte durissime, dove le occupazioni della
direzione sanitaria e dell'ufficio del primario si susseguivano a ritmo incessante. Tutto questo per
spiegare che anche le cose previste dal contratto si è dovuto lottare per ottenerle. La stessa cosa è
avvenuta per il sovraffollamento.
Per il regolamento dell'ospedale ogni corsia dovrebbe contenere un certo numero di letti ma di norma
ne contiene molti di più e ci sono letti persino nei corridoi. Tutto questo cosa significava? Da una parte
una assistenza agli ammalati molto scadente e dall'altra un sovraccarico di lavoro per il personale. Ora
come si è riusciti ad ottenere che venisse rispettato il numero di letti previsto per ogni reparto? Portando
i lettini in direzione sanitaria o addirittura fuori dall'ospedale. Ecco un altro esempio di lotta per ottenere
qualcosa che formalmente era già stato concesso. Inoltre siamo riusciti ad ottenere che i lavoratori che
frequentano le scuole professionali vengano pagati, mentre prima essi si dovevano mettere in aspettativa
senza alcuna retribuzione.
Questo è quanto si è riusciti a strappare mentre molte altre cose, vuoi perché era mancata una forte
spinta da parte dei lavoratori, vuoi perché il sindacato non era intervenuto, non si era ottenuto un bel
nulla. Ad esempio l'inquadramento previsto dal contratto del '74. I lavoratori ancora oggi, alla scadenza
del contratto, non sanno se sono inquadrati o no, e questo ha dato il via alla vertenza attuale. L'articolo
86 prevedeva una modifica delle classi stipendiali che avrebbe comportato un aumento di 15/20.000 lire
in più per i lavoratori; questo articolo avrebbe dovuto essere rispettato entro il 15 settembre del '75. Il
problema degli organici è stato continuamente messo sul tappeto perché la carenza di personale negli
ospedali è estremamente grave; così come il problema delle scuole professionali che ancora oggi
rimangono a numero chiuso impedendo al personale di essere qualificato e di migliorare le proprie
condizioni sia di lavoro che salariali. Inoltre restava aperto il problema del dipartimento. Ora di fronte
a tutti questi problemi il sindacato ha avuto una politica ambigua e si è trovato a giugno di quest'anno
senza aver fatto un solo passo avanti. Direi che su questo contratto la sua politica è stata fallimentare.
A questo punto si sono mossi i lavoratori con un grosso momento di mobilitazione e il sindacato ha
chiesto del tempo poiché sembrava che la regione fosse disposta ad arrivare ad un accordo nel giro di
pochi mesi. Sfumata anche quest'ultima possibilità si è avuta la reazione durissima dei lavoratori di questi
ultimi tempi. Direi, in definitiva, che i precedenti della situazione attuale vanno ricercati proprio nel fatto
che i punti qualificanti del contratto non sono mai stati rispettati.
Passerei ora ad esaminare il lavoro portato avanti dai compagni nei vari ospedali in questi ultimi
anni.
Rudy F. - La situazione dell'ospedale S. Raffaele in cui lavoro (sono uno studente di medicina e faccio
l'interno in ospedale) è abbastanza diversa da quella del Policlinico, del Niguarda e del S. Carlo. Si tratta
di un ospedale fondato da poco tempo prevalentemente con fondi del Vaticano. Da parte degli studenti
di medicina si era sentita l'esigenza di collegarci in modo organico con gli altri lavoratori dell'ospedale,
li abbiamo contattati ed insieme a loro abbiamo costituito un collettivo politico che, però, ha avuto una
vita abbastanza breve sia perché i problemi degli studenti erano diversi da quelli degli altri lavoratori sia
perché la Direzione, venuta a conoscenza della sua esistenza, ha usato tutte le forme possibili di
intimidazione e di repressione per boicottarlo (gli studenti sono stati allontanati dall'ospedale e gli operai
minacciati nei modi più svariati). Al ritorno dalle ferie ho dovuto quindi ricominciare daccapo tutto ed
ho trovato gli operai estremamente disillusi e scazzati sia del sindacato che delle varie forze ex-extraparlamentari che li avevano strumentalizzati ai fini della campagna elettorale del 20 giugno. Per tutti
questi motivi i lavoratori del S. Raffaele hanno sentito l'esigenza di collegarsi con il gruppo anarchico
ospedalieri perché hanno potuto constatare la loro incidenza nelle lotte. Ora siamo in una fase in cui si
cerca faticosamente di liberarsi dalla paura e dalle minacce per poter agire.
Per quanto riguarda il discorso più generale a tutto il settore ospedaliero io credo che si possano
individuare due momenti di intervento. Un primo momento in cui i compagni hanno lavorato per la
diffusione delle idee di emancipazione e per la denuncia dello sfruttamento comune ai lavoratori
ospedalieri ed ai pazienti (che vede questi ultimi utilizzati come cavie della speculazione delle grandi
industrie farmaceutiche che su di essi sperimentano nuovi farmaci il più delle volte inutili e dannosi con
il tacito consenso dei primari che percepiscono laute ricompense), utilizzando tutti i mezzi possibili
(manifesti murali, volantini, discussioni, contatti diretti con pazienti, ecc.) e un secondo momento in cui
i lavoratori, dopo aver preso coscienza della propria condizione di sfruttati e della possibilità di prendersi
ciò che loro spettava, hanno cominciato ad agire in prima persona.
Fabio P. - Due anni fa mi trovavo ad essere il solo anarchico al Policlinico ed ovviamente potevo fare
ben poco, anche perché all'epoca c'era un altro gruppo di Avanguardia Operaia che operava in ospedale
e io dovevo adeguarmi alla loro linea o non far nulla. Poi sono venuti a lavorare altri compagni, ci siamo
messi in contatto, abbiamo cominciato a riunirci, a scambiarci le informazioni sui vari reparti e abbiamo
iniziato a fare un intervento libertario in ospedale. Il nostro intervento si è sviluppato in due ambiti: nelle
assemblee di reparto e nei contatti diretti con i lavoratori. Io, ad esempio, mi sono sempre presentato
come anarchico ma ai lavoratori non andavo a parlare solo di anarchia o di rivoluzione, ma
semplicemente cercavamo insieme i mezzi per risolvere i problemi comuni. Magari partendo da esigenze
minime, che so, il problema delle siringhe in un reparto e quello dello strofinaccio in un altro. In questo
modo esisteva un dialogo continuo e un rapporto personale che ha permesso di creare quell'unità tra noi
anarchici e gli altri lavoratori che ha portato poi agli ultimi avvenimenti. Certo gli altri lavoratori non
sono diventati anarchici, ma sono finalmente riusciti ad avere fiducia in se stessi. Un esempio
significativo è quello del lavoro svolto dal compagno Enzo nelle cucine della mensa dell'ospedale.
Quando lui era arrivato aveva trovato una situazione incredibile di supersfruttamento e pochissimo
spirito di ribellione e dopo tre mesi bastava che un compagno andasse ad avvertire che era arrivata la
polizia in un qualunque reparto perché tutto il personale delle cucine piantasse il posto di lavoro e
corresse, pentole alla mano, dove era necessaria la sua presenza.
Poi, dove era possibile, i compagni hanno fatto lavoro di reparto e qui ci siamo trovati di fronte al
problema della delega. Infatti, poiché i lavoratori ci conoscevano ormai molto bene e avevano fiducia
in noi, a un certo punto vedevano in noi delle persone che potevano rappresentare i loro interessi e
volevano che noi diventassimo i loro delegati. Naturalmente a noi la cosa non piaceva per niente ma
dopo averne discusso a lungo abbiamo deciso di accettare ponendo però la condizione che questa carica
fosse ricoperta a rotazione, proprio per evitare che sul delegato fisso si concentrassero una serie di poteri
e di informazioni che invece dovevano essere di tutti. Non pochi erano stati, in passato, i casi di lotte
fallite proprio perché portate avanti in modo autoritario anche su obiettivi qualificanti, fallite perché i
lavoratori non potevano partecipare attivamente a qualcosa che non era stato elaborato e vissuto da loro
stessi.
Questa nostra decisione di fare i delegati a rotazione all'inizio ha dato molto fastidio ai sindacati perché
disturbava il loro gioco. Tutto questo insieme di cose, il lavoro nei reparti, il lavoro individuale, i
rapporti personali, il fatto che il sindacato si è sputtanato da solo, hanno poi portato alla situazione
attuale.
Michele A. - Quando ci siamo costituiti come Nucleo libertario del Policlinico, avevamo l'esigenza di
conoscere molto bene quali erano le condizioni di lavoro in tutti i reparti, quali erano le varie esigenze,
quale era la politica sindacale e della direzione. Una volta che ci siamo chiariti le idee e abbiamo
assimilato tutte le informazioni necessarie ci siamo resi conto che una cosa da fare subito era rivalutare
le assemblee di reparto che fino ad allora erano tali solo di nome. Così ci siamo battuti per fare frequenti
riunioni di reparto in cui i lavoratori dovevano partecipare attivamente alla discussione dei loro problemi,
ci siamo battuti perché il delegato non fosse fisso e fosse continuamente controllato dagli altri lavoratori.
Questa nostra battaglia, nei reparti dove eravamo presenti ha presto dato buoni risultati perché proprio
da questi reparti sono scaturite forme di lotta autonoma.
Enzo F. - Fondamentalmente all'interno del Policlinico il lavoro ha avuto un periodo di incubazione
abbastanza lungo centrato su questi due aspetti uno di reparto e l'altro di collegamento tra compagni
dell'ospedale. Il gruppo anarchico quando è nato non aveva lo scopo di formulare una linea di intervento,
ma era più semplicemente un momento di crescita per i compagni, di informazione, di discussione e per
portare all'interno il frutto di questi incontri.
Il lavoro di reparto era invece tutto una cosa diversa, che partiva dalle esigenze reali. Mi è sembrato di
notare, anche parlando con i lavoratori del mio reparto, che esistessero principalmente due ostacoli: il
problema dell'assemblea generale, a cui i lavoratori partecipavano in maniera abbastanza passiva e il
problema del Consiglio dei delegati che si è rivelato col passare del tempo sempre più uno strumento
sindacale per la trasmissione delle decisioni dei vertici alla base. Comunque questi due momenti,
l'assemblea generale e il consiglio dei delegati, non riuscivano a coinvolgere i lavoratori. Per questi
motivi ho preferito lavorare a livello di reparto, e del resto era anche la valutazione dei compagni negli
altri reparti.
Nelle cucine, dove io lavoravo, siamo partiti proprio da discorsi minimi, sull'organizzazione interna del
lavoro, sul fatto che molte volte il capo faceva fare il lavoro più leggero alla persona che parlava meno
o a quella più simpatica. Abbiamo discusso di tutto questo in assemblea e individualmente e abbiamo
constatato che i problemi erano di tutti e che si potevano risolvere dividendoci i vari lavori di reparto
a rotazione in modo da impedire ingiustizie e da rendere nel contempo il lavoro più vario. Tutto questo
è stato possibile utilizzando lo strumento dell'assemblea di reparto, prevista almeno una volta al mese
dal regolamento del consiglio dei delegati ma fino ad allora non applicato. In quel periodo doveva essere
eletto il nuovo consiglio dei delegati e i lavoratori del mio reparto, sollecitati da altri compagni non
anarchici, volevano eleggere me. Abbiamo discusso tutti insieme di cosa voleva dire fare il delegato e
mi sono deciso ad accettare di essere eletto solo quando si è arrivati alla conclusione che il delegato
doveva essere fatto da tutti a rotazione e che l'assemblea di reparto doveva discutere e deliberare
sull'ordine del giorno prima della riunione del consiglio dei delegati e dopo per valutarne l'andamento.
Così si riusciva a dimostrare che non era affatto difficile fare il delegato poiché chi decideva era sempre
e solo l'assemblea di reparto e il delegato era solo un portavoce.
Siamo andati avanti in questo modo per parecchi mesi, discutendo di tutti i problemi generali o specifici
del reparto, come ad esempio l'atteggiamento da dittatore che avevano i capi cuochi e siamo veramente
riusciti a scardinare queste cose poiché i lavoratori finalmente si sentivano forti, sentivano di poter
decidere e gradualmente siamo arrivati, partendo da una situazione di scarsissima partecipazione, ad una
coscienza altissima dei lavoratori che ha portato, ad esempio, all'episodio citato prima da Fabio quando
siamo usciti in massa con le pentole dalle cucine per correre dove era necessaria la nostra presenza in
aiuto ad altri compagni. Un'altra cosa su cui si è lavorato molto è il problema dell'organico. Il
regolamento prevedeva che il numero dei lavoratori addetti alla cucina fosse proporzionale al numero
dei pasti preparati e questo non avveniva quasi mai per cui quando non se ne poteva più si smetteva di
lavorare e si andava in massa dall'economo a chiedere che venisse applicato il regolamento. Poi il
discorso si è ampliato, siamo arrivati a chiedere asili nido per i figli dei dipendenti, c'era una grossa
disponibilità a muoversi sul problema della casa, il corso delle 150 è stato una bomba all'interno del
reparto poiché si sono iscritti più della metà dei lavoratori.
Vorrei aggiungere un'altra cosa. È ovvio che non dobbiamo pensare che siano nati tanti rivoluzionari,
da come si stanno mettendo le cose è possibile intravvedere risultati positivi. Non è questa la cosa
importante. La cosa importante è che finalmente è caduto il muro della paura di muoversi, della paura
di far politica e bisogna tener presente che tutto questo è stato possibile perché alla base vi era un
rapporto umano favoloso perché veramente sono sempre stati scardinati quegli atteggiamenti di rifiuto
del compagno di lavoro che non la pensava come te.
Passiamo ora alle ultime lotte. Come sono state portate avanti, qual è stato il vostro intervento
al loro interno.
Anacleto M. - Le lotte che abbiamo condotto sui problemi di cui hanno già parlato tutti i compagni e
che sono comuni a tutti gli ospedali si sono concretizzate in cortei interni con una buona partecipazione
dei lavoratori, cortei che erano sempre decisi dai lavoratori e che rompevano molto le scatole alla
Amministrazione (questo prima dell'intervento dell'esercito). Durante uno di questi cortei siamo andati
a chiedere che prendessero provvedimenti per dare da mangiare agli ammalati, che facessero lavorare
finalmente anche le suore e i vari capetti e alla risposta stronza che abbiamo ricevuto abbiamo subito
risposto con un blocco stradale davanti all'ospedale, discutendo con tutta la gente su quanto stava
avvenendo all'interno e sui problemi più generali di tutte le strutture ospedaliere. Nelle assemblee
cerchiamo per quanto ci è possibile di contrastare e smascherare il sindacato che porta sempre posizioni
di attesa e di pompieraggio. Inoltre interveniamo nelle situazioni di più palese ingiustizia. Ad esempio
un primario aveva minacciato di fare rapporto a un compagno che gli aveva dato giustamente del
fascista; appena lo abbiamo saputo siamo andati da lui in delegazione dicendogli che lo sconsigliavamo
caldamente dal fare una cosa del genere e lui non l'ha fatto; un'altra volta abbiamo deciso di intervenire
sul problema del medico di guardia di notte, che di fatto non c'era mai perché al suo posto lasciava
l'aiutante. Allora siamo andati nella stanzetta dove dormiva invece di fare i turni e gli abbiamo smontato
pezzo per pezzo il letto. Un'altra azione che abbiamo portato avanti è l'autoriduzione del costo del pasto
in mensa.
Lorenzo V. - Noi come anarchici a Niguarda, del resto, non possiamo fare molto di più perché purtroppo
siamo tutta gente che gira. Oggi siamo in un reparto e domani ci spostano in un altro e così non abbiamo
mai la possibilità di farci conoscere, di stabilire rapporti continuativi con i lavoratori di un reparto. Nel
nostro ospedale c'è un livello di coscienza abbastanza basso, il consiglio dei delegati funziona poco e
male, c'è poca partecipazione alle lotte perché i lavoratori non hanno ancora superato la paura delle
minacce di perdere il posto. Il settore più avanzato in questo senso è l'economato. Man mano che le
promesse sindacali non venivano mantenute una buona parte dei lavoratori, tra i quali gli autonomi e i
compagni anarchici assumevano degli atteggiamenti sempre più al di fuori della linea sindacale e
proponevano delle forme di lotta più incisive. I militanti di Democrazia Proletaria, quando le lotte si
radicalizzavano, tendevano a tirarsi indietro. Così quando le lotte sono partite, molto dure, al di fuori
del controllo sindacale, si sono formati due schieramenti: da un lato il sindacato, D.P., Comunione e
disperazione, i preti, le suore e le convittate più reazionarie e dall'altro gli anarchici, gli autonomi e buona
parte dei lavoratori. Ad esempio quando è stato deciso nelle assemblee il blocco dell'ospedale per due
giorni bisogna dire che D.P. ha votato contro insieme a Comunione e Liberazione e con un prete. Poi,
a poco a poco, c'è stato un po' di riflusso e in questo riflusso si è reinserita D.P. riprendendo il
sopravvento, assumendo posizioni un po' più radicali. Ma d'altra parte anche il sindacato in quest'ultimo
periodo ha cercato di cavalcare la tigre, di barcamenarsi. Perché, anche se non era d'accordo, né poteva
esserlo sulle forme di lotta, non poteva certo dire che gli obiettivi non erano giusti senza perdere
completamente la faccia.
Secondo me, più in generale, quando due anni fa dicevamo di puntare sulle assemblee di reparto
vedevamo giusto e dove questo lavoro è stato fatto abbiamo visto i risultati, dove non è stato fatto
abbiamo battuto la testa contro il muro. Ora si tratta di fermarsi un attimo, ripensare e rivalutare le lotte
fatte sino ad ora, tirare un attimo il fiato, riprendere pazientemente il lavoro nei reparti per partire su basi
solide per le lotte del nuovo contratto.
Anna B. - Quando sono entrata a Niguarda in luglio come aiutante, mi sono trovata subito sballottata
da un reparto all'altro, da una corsia all'altra senza sapere nulla di nulla. Mi sono presto resa conto sulla
mia pelle che l'organizzazione del lavoro in ospedale era estremamente gerarchica: l'aiutante, la generica,
la professionale, senza che fosse possibile alcun contatto fra le aiutanti e le altre. Il mio compito avrebbe
dovuto essere quello di fare le pulizie ma quando tu stai lavando il pavimento del corridoio e l'ammalato
suona e le altre infermiere (per ogni corsia ci sono solo una generica e una professionale) sono occupate
in altre cose tu cosa fai? Ti viene spontaneo di andare a sentire che cos'ha, di portargli la padella, di
portargli da bere o di alzarlo. Così ti ritrovi la sera stanca morta perché oltre ad aver fatto il tuo lavoro
ne hai fatti anche molti altri.
A un certo punto in un periodo di grossa mobilitazione, ho deciso anch'io di applicare da sola il
mansionario, cioè di attenermi ai compiti per i quali ero pagata spingendo le altre a fare altrettanto. Ne
è uscito un vespaio terribile, con accuse fatte dalle generiche e dalle professionali, pressioni, minacce da
parte delle suore, cose indescrivibili.
La condizione di oppressione che si subisce continuamente deriva da un ricatto di tipo scientifico (tu non
hai conoscenze necessarie, quindi non puoi fare altro che lavare i pavimenti) e di tipo morale poiché
l'ammalato non può essere abbandonato.
Enzo F. - Io credo che sia molto importante che tutti noi riesaminiamo le lotte di quest'ultimo periodo
per trarne delle indicazioni per il futuro prossimo (dicembre '76). Perché bene o male le cose sono
cambiate, è cambiato l'atteggiamento dei lavoratori, è aumentata la loro partecipazione alle lotte e sono
cambiate le lotte stesse: si è abbandonato lo strumento dello sciopero per passare ad altre forme più
incisive: l'applicazione del mansionario, le assemblee permanenti, i cortei interni, il blocco delle cucine,
le delegazioni di massa, gli ambulatori aperti, le cartelle cliniche gratis, il rifiuto di rimanere in reparto
di notte se non si è qualificati, il controllo degli onorari dei medici in ambulatorio. Pensa che alcuni
medici si fanno pagare fino a diciottomila lire una visita in ambulatorio. Sono tutte cose che mettono in
luce le carenze di chi gestisce l'ospedale, che fanno capire che se la situazione dell'ospedale è di merda
non è colpa del lavoratore, dell'ausiliario. Secondo me queste forme di lotta hanno consentito anche di
fare chiarezza sulla situazione degli ospedali, e su questi spunti, credo molto positivi, dobbiamo
ripensare, anche se queste forme di lotta non si sono ancora estese a tutti i lavoratori proprio perché è
in parte mancato quel lavoro di preparazione di cui parlavo prima.
Qual è il ruolo svolto dagli anarchici in queste lotte?
Michele A. - Direi che dovrebbe essere emerso da quanto detto sino ad ora, ma si può sintetizzare
dicendo che, oltre al lavoro preparatorio, la funzione degli anarchici al Policlinico (presenti soprattutto
nelle cucine, all'Economato e al Laboratorio centrale) è stata quella di essere un continuo stimolo,
lasciando nel momento più caldo il proprio posto di lavoro per partecipare a tutte le assemblee di
reparto, portando proposte e battagliando contro l'immobilismo dei sindacati o anche più semplicemente,
neutralizzando le loro proposte: i sindacati proponevano un'assemblea permanente fuori orario di
servizio e noi si proponeva, e veniva accettato, di farla durante l'orario di servizio; veniva indetta
un'assemblea generale fuori orario di servizio e i lavoratori del Policlinico la facevano nell'orario di
servizio; occupazione del palazzo degli uffici fuori orario di servizio e noi la facevamo di notte e
nell'orario di servizio.
Enzo F. - Vorrei aggiungere ancora due cose. Noi, in quanto anarchici, oltre a vivere sulla nostra pelle
lo sfruttamento come lavoratori, viviamo anche una condizione continua di isolamento nel senso che da
parte di alcuni capi, da parte di alcuni figli di puttana di vari partiti di sinistra, l'anarchico ancora oggi
viene additato come un provocatore. Secondo me il ruolo che noi abbiamo giuocato in questa situazione
è stato quello di far chiarezza su un certo metodo di lavoro e di lotta, soprattutto demistificando il ruolo
delle avanguardie, spingendo affinché le decisioni fossero prese a livello assembleare, chiedendo il
massimo rispetto delle decisioni prese dalla assemblea, chiedendo ai lavoratori di partecipare attivamente
sia alle assemblee che alle trattative, siano esse con un capo servizio, con un responsabile
dell'Amministrazione o con un rappresentante della Regione; chiedendo ai lavoratori di valutare
l'andamento delle cose. Ecco, quello che mi sembra importante è che questi discorsi passano tra i
lavoratori, certo non fra tutti perché altrimenti saremo in una fase molto più avanzata. Certi concetti,
se lavori bene, passano e vengono fatti propri dai lavoratori. Questo è quello che dobbiamo sempre
tenere presente, senza falsi trionfalismi poiché, dalle informazioni che abbiamo, la situazione degli
ospedalieri a Roma, ad esempio, è molto più avanzata di quella di Milano.
Qual è stato il ruolo dei sindacati in queste lotte?
Michele A. - Diciamo che il sindacato oggi interviene e interviene massicciamente perché si è visto
scavalcato, perché i lavoratori hanno cominciato a muoversi da soli. Ma la sua presenza massiccia si
limita al tentativo di frenare le lotte cercando di ricattare i lavoratori col solito discorso moralistico,
distribuendo volantini all'interno del Policlinico in cui si attaccano e si criticano le azioni e le persone.
Ad esempio per fare indire lo sciopero generale provinciale di due giorni, i partecipanti all'assemblea
generale del Policlinico e di Niguarda si sono dovuti spostare in massa alla Camera del lavoro dove era
in corso il direttivo degli esecutivi dei delegati e siamo intervenuti sputtanandoli e costringendoli ad
indire uno sciopero di 24 ore in luogo di quello di otto ore che loro avevano previsto.
Enzo F. - A me sembra che dovremmo cercare di capire perché il sindacato si è comportato in questo
modo. Io credo che il suo comportamento derivi semplicemente dalla logica del sindacato stesso. In
effetti in questa situazione ci sono tutta una serie di interessi in gioco, interessi di tipo economico,
politico scientifico; ci sono i baroni, ci sono le industrie farmaceutiche, ci sono i preti, ci sono i partiti
per cui il settore sanità può rappresentare una grossa possibilità in termini di sottogoverno, di clientele
politiche. Si crea così la catena padroni, chiesa, riformisti. Ora, i sindacati, che bene o male
rappresentano precise forze politiche ci pensano bene prima di fare una lotta che potrebbe mettere in luce
questi legami, che potrebbero mettere in crisi gli equilibri esistenti; per cui, nel momento in cui le lotte
partono da sole, ecco il loro atteggiamento di incertezza, di rifiuto e, a volte, addirittura di condanna.
Nello stesso tempo, però, il sindacato fa anche un altro tipo di lavoro. Consente sì a certe forze della
sinistra di occupare alcuni posti di potere, ma altri li occupa lui stesso. Si può fare l'esempio di un
sindacalista della CGIL che si chiama Mantovani che all'interno dell'ospedale S. Raffaele fa addirittura
il capo del personale!
Avete subito delle provocazioni?
Sabina B. - Possiamo fare alcuni esempi: la costante intimidazione della polizia fino a sfondare i
picchetti; il presidio dei carabinieri al Comitato Regionale di controllo nella giornata di sciopero con le
armi puntate contro i lavoratori; minacce di denunciare alla magistratura quei lavoratori che
partecipavano alle assemblee per "abbandono di servizio"; la P.S. che carica un picchetto di lavoratori
e di ammalati e l'amministrazione che dimette 50 ammalati di reparti infettivi solo perché avevano
solidarizzato con noi. Poliziotti in borghese sempre presenti in ospedale. Ma di esempi se ne potrebbero
fare molti altri.
La stampa, nel corso di tutte queste lotte ha avuto un comportamento a dir poco vergognoso nei
vostri confronti, dipingendo a tinte foschissime la situazione all'interno degli ospedali, parlando
di moribondi che venivano lasciati in balia di se stessi ed altre cose di questo genere. Cosa c'è di
vero in tutta questa storia?
Enzo F. - Secondo me gli amministratori degli ospedali sanno molto bene quali sono, da sempre, le
carenze degli ospedali, soltanto che le tirano fuori solo quando i lavoratori lottano. Tutte le cose di cui
hanno parlato i giornali sono assolutamente normali sempre negli ospedali, anche quando non ci sono
lotte in corso, anzi direi che ne succedono di più gravi. E proprio a questo proposito, in risposta le
denunce ad alcuni lavoratori fatte dalla Amministrazione stanno partendo controdenunce sulla reale
situazione che ci permetteranno di far sapere molte cose all'opinione pubblica. Facciamo alcuni esempi.
Il fatto che alla sera gli ammalati mangiano prosciutto, affettati e formaggi. Ma è una cosa normale,
anche quando non ci sono gli scioperi e lo possono dire tutti quelli che in ospedale ci sono stati. Il fatto
che non ci sia assistenza medica nei reparti. Ma è una cosa normale, perché nonostante ci sia una legge
che prevede il tempo pieno per i medici, i medici in ospedale non ci sono se non due ore al giorno al
mattino; e allora si fa un gran parlare del funzionamento a tempo pieno delle fabbriche, mentre gli
ospedali devono funzionare due ore al giorno e per le rimanenti ore i reparti vengono affidati agli ausiliari
che, ovviamente, non possono dare assistenza medica. Queste sono o non sono carenze? Il fatto che si
denuncia la possibilità di infezioni nel cibo. Ma questa è la prassi normale, le cucine sono sempre state
uno schifo e i lavoratori lo denunciavano già due anni fa, ma naturalmente allora non li ascoltava
nessuno. La salmonella al S. Carlo non è comparsa perché c'erano gli scioperi, ma molto prima degli
scioperi.
Michele A. - Sembra proprio che la stampa non abbia mai saputo quali erano e sono le reali condizioni
degli ospedali. Per farti un esempio, anche durante le lotte al Policlinico abbiamo continuato a fare il
brodino di sempre agli ammalati che ne avevano bisogno, ci siamo fatti carico di questa cose perché
abbiamo coscienza, ma di questo la stampa non ne ha parlato. Al Policlinico non sono mai esistite diete
particolari, malgrado ci siano malati che ne abbisognerebbero, non è mai esistito un dietista!
Lorenzo V. - Io vorrei parlare della qualità e della quantità del cibo che viene dato agli ammalati. Io ho
preparato spesso il mangiare per i degenti e posso dire che a volte ci ritrovavamo a mezzogiorno e non
c'era abbastanza roba per tutti e allora bisognava diminuire le porzioni. Io ero al padiglione Origgia, un
padiglione psichiatrico e ad esempio la sera si davano affettati, formaggi e frutta. Io diventavo matto
perché arrivavano 20 pere per 25 malati e tutti volevano la frutta. Per non parlare della qualità del
prosciutto che io stesso mi vergognavo a dare agli ammalati tanto faceva schifo.
Anna B. - Vorrei aggiungere una curiosità. La responsabilità del consumo di viveri e altro materiale tipo
detersivi, guanti, ecc. è delle caposale. Bene, fino a poco tempo fa, a fine anno la caposala che aveva
consumato di meno (cioè che aveva fatto risparmiare l'amministrazione) riceveva un premio, alla faccia
della salute degli ammalati.
Abbiamo ora una visione più completa della situazione. Ma la vostra strategia qual è? Cosa vi
proponete di fare nei prossimi mesi?
Enzo F. - Nelle situazioni di lotta si rischia di perdere di vista gli obiettivi veri. Non a caso in questa
intervista non si è fatto mai un accenno all'ammalato, alla medicina, a quello che dovrebbe essere la
funzione della medicina. Questo deriva dal fatto che noi viviamo una condizione di sfruttamento
veramente schifoso: lavorare in ospedale è una situazione che non ti permette nemmeno di vedere con
chiarezza i problemi. Secondo me queste lotte da un lato hanno consentito a noi di crescere come livello
di coscienza e dall'altro preparano il terreno per vedere con maggiore chiarezza quale debba essere la
funzione della medicina, chi è l'utente della medicina e chi in effetti la manipola, per potere in futuro
battersi per scardinare questa grossa oppressione che è costituita dalla funzione medica.
In definitiva, quindi, ci poniamo due obiettivi: prima potenziare i nuclei di lavoratori anarchici già
esistenti nei vari ospedali, costruirne di nuovi e collegarci in modo più organico; secondo cercare
collegamenti con altri lavoratori anarchici perché il discorso non deve rimanere settoriale ma deve essere
allargato al territorio proprio perché la medicina deve, in prospettiva, essere gestita dai lavoratori.
All'interno dell'ospedale poi abbiamo individuato due problemi che ci sembra siano molto importanti:
la qualificazione del personale all'interno dell'ospedale e quello della prevenzione. Su queste due cose
i padroni arriveranno allo scontro, e anche duro, perché non hanno voglia di fare né l'uno né l'altro.
Infatti l'uno porterebbe i lavoratori ad acquistare le cognizioni necessarie per gestire non solo gli ospedali
ma la medicina stessa e l'altro significherebbe intaccare le cause della malattia e quindi, di conseguenza
buttare in merda questa società.
Al momento di andare in macchina, apprendiamo che a Milano sei lavoratori del Policlinico (tra i quali
il compagno Fabio P.) sono stati condotti in questura e interrogati dall'Antiterrorismo in merito
all'uccisione, avvenuta mesi orsono, del consigliere missino Pedenovi. Non a caso questa manovra
repressivo-provocatoria coincide con la campagna di stampa, sindacale e giudiziaria contro i lavoratori
più impegnati nelle lotte degli ospedalieri. |
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