Rivista Anarchica Online
I limiti dell'energia alternativa
di Nucleo Anarchico "Utopia" - Napoli
Dibattito sulle centrali nucleari
Nonostante la classe dirigente (politici, padroni privati, padroni pubblici, sindacalisti) abbia optato
per la "scelta nucleare" e non ostante la repressione verso i dissidenti si faccia ogni giorno più
pesante, la lotta contro la costruzione delle centrali nucleari si intensifica e si estende. Il "movimento antinucleare" ha saputo intraprendere iniziative di ampia portata, riuscendo ad
intralciare sensibilmente il programma governativo. In questo momento risulta quanto mai impellente
l'approfondimento di un dibattito che metta in luce tutti gli aspetti della "questione energetica" e che
nel contempo fornisca gli strumenti teorici per sostenere in modo cosciente - e non solo sloganistico -
le iniziative di lotta. In questo ambito pubblichiamo, dopo le interviste del Centro Redazionale della provincia di Napoli
apparse sul n.55, questo articolo dei compagni del nucleo "Utopia" di Napoli. Sollecitiamo inoltre i compagni ad intervenire su questo scottante problema per ampliare il dibattito
e per sviluppare una linea di intervento libertaria in questa lotta così ricca di possibilità operative.
L'attuale opposizione alla proliferazione delle centrali nucleari in Italia risente, a nostro avviso, di una
visione manichea del problema energetico che identifica nella fonte nucleare il male ed in quella solare
il bene. Ci sembra che parte della adesione degli anarchici alla tematica antinucleare avvenga in maniera
acritica limitandosi a porre l'accento sulla presunta incidenza che la scelta solare avrebbe nel favorire una
società autogestita. È mancata l'elaborazione di una controanalisi alle tesi della scelta nucleare come
risposta dei paesi capitalisti al ricatto petrolifero arabo e si accetta l'ipotesi che il semplice rifiuto dei
consumi indotti, abbinato all'adozione di una diversa fonte energetica, determini, di per sé, il
superamento del capitalismo. La nostra personale adesione all'opposizione nucleare, soprattutto per
motivi ecologici, non si riconosce in tale analisi. Anzi, riteniamo che il modo stesso in cui viene condotta
la lotta, per la sua parzialità e per la mancanza di una critica politico-economica ragionata, non
costituisca un reale pericolo per il potere. Gli operai dell'Ansaldo, società partecipante alla realizzazione
delle centrali nucleari, sono stati minacciati di cassa integrazione se le centrali non vengono costruite e
tale minaccia vuole portare ad uno stato di tensione tra loro ed i contadini di Montalto di Castro. Con
metodi simili a questo, il governo è capace di vincere l'opposizione attualmente esistente e di persuadere
l'opinione pubblica che le centrali sono necessarie per la sopravvivenza stessa della società tecnologica,
essendo quella nucleare l'unica fonte capace di far fronte alla progressiva penuria di petrolio.
Il rifiuto di essa, secondo il governo, comporterebbe il ritorno a modelli di vita preindustriali. È in
sostanza, il discorso del ritorno alle candele, ma è giusta la posizione di chi a ciò ribatte che il vero scopo
della corsa nucleare esistente oggi in tutti i paesi capitalistici è quello di mantenere la supremazia nei
confronti degli arabi?
Se così fosse, verrebbe spontaneo domandarsi come mai gli arabi si siano resi conto solo ora del valore
politico-economico dell'arma petrolifera e perché mai non riescono a fare altrettanto i paesi produttori
di materie prime. Si ricorderà, anzi, il ricatto economico a cui fu sottoposto il Cile di Allende che non
riuscì a smerciare il proprio rame. Possedere il petrolio non basta se non si è in grado di trasportarlo,
raffinarlo e distribuirlo. Questo sono in grado di farlo solo le grandi società petrolifere, le cosiddette
"sette sorelle" di cui cinque americane, una inglese e l'altra anglo-olandese. E di questo regime di
assoluto monopolio le società petrolifere si sono sempre servite per mantenere basso e competitivo,
rispetto alle altre fonti energetiche, il prezzo del petrolio, finché ciò rientrava nei loro piani e permetteva
lucrosi profitti. Non è pensabile che queste società abbiano d'improvviso perso il loro potere. Più
accettabile è l'ipotesi che l'aumento del prezzo del petrolio sia stato volutamente permesso perché
rientrava nei loro piani d'espansione e coincideva con le esigenze dell'imperialismo americano. Il prezzo
del petrolio, determinato in modo da non rendere competitivo quello medio-orientale con quello
americano, è stato mantenuto volutamente basso fino al 1970 per imporre una sua sempre crescente
utilizzazione impedendo lo sviluppo di altre fonti energetiche, compresa quella nucleare, rendendole non
competitive.
Tutto lo sviluppo della motorizzazione e, in generale, di molti dei settori trainanti della nostra economia
è avvenuto in quegli anni grazie al basso costo del petrolio, determinando un suo consumo sempre
crescente. Dal '71 il prezzo del petrolio all'origine aumenta e contemporaneamente aumentano gli introiti
delle società petrolifere grazie al loro completo dominio dei settori produttivi e distributivi. L'aumento
del prezzo è stato permesso non solo allo scopo di aumentare i profitti, ma soprattutto per realizzare il
piano di espansione a tutto il settore energetico. Dopo aver imposto l'impiego del petrolio quale quasi-unica fonte energetica a tutti i paesi (in particolare Italia e Giappone) le società petrolifere vogliono ora
passare dal monopolio petrolifero al monopolio di tutte le fonti energetiche. Esse possiedono attualmente
il 40% delle riserve di uranio e nel settore nucleare mirano a monopolizzare fra breve il ciclo completo
dell'energia nucleare (ciclo dell'uranio e centrali), controllano il 32% del carbone americano che da solo
costituisce il 16,4% delle riserve mondiali e cercano di ottenere uguali risultati per l'energia geotermica.
Questo monopolio permetterebbe di realizzare introiti enormi quando i costi delle diverse fonti
energetiche vengono eguagliati al livello che consente il massimo profitto, in modo da costringere ad
utilizzarle indistintamente senza che nessuna di esse sia competitiva rispetto alle altre. Da ciò la necessità
di innalzare il prezzo del petrolio e la via libera agli arabi che, però, vengono presentati come capri
espiatori all'opinione pubblica mondiale.
Ma tale strategia non poteva attuarsi senza l'approvazione del governo americano, regista di tutta
l'operazione. I motivi agli U.S.A. non mancano. Fino ad ora gli U.S.A. hanno soddisfatto le loro esigenze
petrolifere grazie alla propria produzione, facendo ricorso a quella medio-orientale solo in misura
ridottissima. Ma l'economia statunitense per continuare a svilupparsi secondo le linee sino ad allora
seguite, avrebbe necessitato di un considerevole aumento dei consumi petroliferi con la conseguente
perdita dell'autonomia energetica che avrebbe potuto mettere in discussione, in modo determinante,
l'egemonia imperialistica degli U.S.A. sul mondo. Inoltre il capitalismo americano ha dovuto, in questi
anni, subire la competitività aggressiva dell'Europa occidentale e del Giappone che minavano la
supremazia economica e politica degli U.S.A.. Questi ultimi, tenendo conto delle loro risorse nazionali
di energia estremamente varie (petrolio, uranio, carbone, energia geotermica) hanno puntato ad un
consumo energetico diversificato ottenuto attraverso l'equiparazione dei costi delle varie fonti
energetiche che garantiva loro l'autonomia energetica e nel contempo poneva in ginocchio i paesi rivali,
assoggettati da vari decenni al consumo petrolifero e le cui risorse nazionali non sono, ovviamente,
confrontabili con quelle U.S.A.
La crisi petrolifera, e più in generale quelle energetica, non sono l'unica causa della attuale crisi
economica, e per di più è uno strumento in mano all'imperialismo americano per perpetuare la propria
egemonia. La speranza dei capitalismi europei di trovare negli arabi dei partner commerciali recuperando
i capitali da loro accumulati mediante la vendita di prodotti industriali è una pia illusione. Paesi come
l'Iran non sono altro che luogotenenti dell'imperialismo americano e assolvono nell'area mediorientale
la stessa funzione del Brasile in Sudamerica. I capitali di paesi come l'Arabia Saudita accumulati con il
permesso delle società petrolifere ritorneranno a queste ultime sotto forma di compartecipazione
finanziaria alla gestione delle società stesse. Introiti utili alle "sette sorelle" per perfezionare, con grossi
investimenti, il loro monopolio energetico.
Agli europei rimangono soli paesi arabi come l'Algeria che tentano di sviluppare la loro economia per
emanciparsi politicamente. Accortisi in ritardo dei disegni americani, i paesi europei stanno puntando
sull'energia nucleare in una corsa contro il tempo per svincolarsi dall'asservimento energetico. Puntano,
in particolare, sui cosidetti reattori autofertilizzanti (breeders) che producono plutonio in quantità
superiore a quella distrutta per produrre energia. La scelta nucleare sembra quindi essere l'ultima carta
dell'Europa per conservare un suo ruolo mondiale in funzione anti-americana anziché tanti-araba.
La politica dei sacrifici
Il costo pagato dai diversi paesi europei alla strategia vincente dell'imperialismo americano varia a
seconda della solidità delle singole economie. Quella italiana è caratterizzata da una estrema debolezza
strutturale dovuta ad uno sviluppo industriale caotico e legato ad interessi particolaristici. Gli interessi
clientelari democristiani hanno contribuito allo stato di arretratezza della nostra agricoltura e al
gigantesco sviluppo dei cosiddetti consumi improduttivi, cioè di quella ricchezza sottratta agli
investimenti e spesa per mantenere l'apparato burocratico governativo.
Anche se questi motivi sembrano giustificare il fatto che in Italia sussista un tasso di incremento
inflazionistico maggiore che nelle altre nazioni europee occidentali, non sono sufficienti a spiegare la
rapidità con cui è avvenuto tale incremento in questi ultimi anni.
Alla determinazione di un tasso di inflazione del 20-25% annuo, probabilmente hanno concorso manovre
speculative internazionali che hanno accelerato il processo inflattivo. L'offerta sui mercati di valuta di
grossi quantitativi di lire italiane, deliberatamente voluta dagli americani, determina un deprezzamento
del valore della nostra moneta con un conseguente aumento di costo delle merci da noi importate,
indipendentemente dai loro costi all'origine. Aumenti che si riflettono sui costi di produzione privando
le merci da noi prodotte della loro competitività sui mercati internazionali. Cosicché il deprezzamento
artificiale della lira diventa rapidamente reale innescando un processo a spirale controllabile solo dai
giochi monetari americani. La spiegazione dei mali italiani non va, dunque, ricercata solo nel campo
economico, ma anche in quello politico. E i motivi politici per un simile trattamento non mancano.
La combattività della nostra classe operaia, il maggior peso politico del PCI, costituiscono ragioni
sufficienti perché venga usata la mano pesante. Lo scopo di queste manovre consiste in un progressivo
allontanamento del nostro paese dall'area del capitalismo avanzato caratterizzato, rispetto al resto del
mondo, da un alto consumo di beni. Il mezzo più facile per i padroni italiani per riequilibrare i fattori
economici aziendali è contrarre i costi di produzione delle nostre merci mantenendo inalterata così la loro
competitività. La contrazione dei costi di produzione avviene riducendo il costo del lavoro, cioè i redditi
operai e quindi il consumo interno dei beni. Questo per mantenere gli alti livelli dei profitti, evitando così
un incremento della fuga dissanguante dei capitali all'estero. L'Italia si avvia a diventare un paese che
lavora per l'estero e con redditi proletari bassi, e cioè verso le condizioni che caratterizzano le economie
di tipo sudamericano. A questo disegno si ispirano le misure governative antioperaie tipo la
fiscalizzazione degli oneri sociali e alla sua realizzazione puntano i richiami ai sacrifici ed all'austerità.
Dal punto di vista energetico è di vitale importanza per l'apparato produttivo nazionale pervenire ad una
autonomia energetica che gli garantisca libertà di manovra. Ed è il PCI che si è assunto il compito di
difensore di tali interessi. La scelta nucleare risolverebbe molti problemi. Oltre a poter risolvere i
problemi energetici lo sviluppo nucleare assicurerebbe una dipendenza minore nei confronti degli
americani. Evidentemente si punta a favorire a lunga scadenza la nascita di una tecnologia propria (che
partirebbe dai reattori nucleari ad acqua pesante del tipo "Cirene"), mentre a breve scadenza il settore
nucleare permetterebbe una diversificazione delle aree geografiche da cui dipendere. Infatti l'Italia si è
garantita l'uranio arricchito necessario per le centrali che sta costruendo con contratti sia con gli U.S.A.,
sia con l'U.R.S.S., oltre a partecipare al 25% all'impianto europeo di arricchimento dell'uranio chiamato
COREDIF. La linea del PCI rientra, quindi, nel quadro generale della sua strategia politica quale forza
di governo "responsabile", tutelatrice degli interessi nazionali e capace di prospettare un passaggio
indolore verso un nuovo modello di sviluppo ottenibile su tempi lunghi con l'introduzione progressiva
di "elementi di socialismo" agendo sull'apparato economico dal lato dei consumi, anziché direttamente
su quello della produzione e officiando in questo modo un'autentica "politica dell'austerità".
Panorama ecologico
Qualsiasi fonte energetica presenta pericoli ecologici e se viene utilizzata oltre certi limiti il rischio
connesso diventa intollerabile. Così l'utilizzazione su larga scala dell'energia solare presenterebbe
inconvenienti non trascurabili. A parte le difficoltà tecniche determinate dall'intermittenza della
radiazione solare, dalla manutenzione di materiali pregiati esposti alle intemperie e che rendono
convenienti le centrali solari solo per potenze da 1 a 10 megawatt (attualmente in Italia ne esiste un solo
esemplare costruito dall'Ansaldo), sono proprio i motivi ecologici a sconsigliare un tale uso, il più
importante dei quali prende il nome di "effetto serra". La cattura dell'energia solare attraverso le superfici
selettive (cioè superfici attraversate dalla radiazione incidente ma non da quella riemessa dalla terra),
provoca un riscaldamento della superficie terrestre. Un effetto simile generalizzato su tutta la superficie
terrestre provocherebbe una ecocatastrofe. Ancora peggio l'assorbimento della luce al di fuori della terra
con celle fotovoltaiche poste su di un satellite e la trasmissione alla terra di tale energia sotto forma di
microonde determinerebbe un surriscaldamento dell'area interessata. Ma tutte queste difficoltà cadono
se si limita l'impiego dell'energia solare a scopi agricoli e per riscaldare le abitazioni civili. In questo caso
l'energia solare darebbe un valido apporto alla produzione energetica e, più in generale, porrebbe il
problema di una più razionale progettazione degli edifici. Sarà utile ricordare che un uso massiccio dei
combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale) produrrebbe un incremento del tasso percentuale
di anidride carbonica presente nell'atmosfera. Tale incremento comporta un effetto gravissimo: le
molecole di anidride carbonica fanno passare la luce del sole ma non quella riemessa dalla terra per
effetto della diversa lunghezza d'onda. La cattura dell'energia solare, così avvenuta, comporterebbe in
tempi relativamente ristretti (50-60 anni) delle conseguenze ecologiche gravissime, quali lo scioglimento
progressivo dei poli. Apporti energetici sono offerti dall'energia geotermica, a cui è associato
l'inconveniente della rumorosità, e dall'uso dei rifiuti solidi.
Ma le conseguenze più gravi dal punto di vista ecologico si hanno senz'altro con l'utilizzazione
dell'energia nucleare per fissione. Ad essa è connessa la problematica delle radiazioni (che attaccano
direttamente la catena del DNA) e verso le quali non esiste una soglia di tollerabilità. Inoltre esiste il
pericolo di inquinamento termico dei corsi fluviali, di catastrofi per incidenti o terremoti. Ma il pericolo
più grave rimane connesso alle scorie altamente radioattive, soprattutto di quelle dei reattori veloci
(breeders) che determinano un forte accumulo di residui di plutonio. Quest'ultimo, oltre ad essere un
pericoloso veleno, ha un'attività radioattiva prolungata nel tempo. Perché questa diminuisca di un milione
di volte, riduzione considerata necessaria finché non sia più pericoloso, occorrerebbe porlo a deposito
controllato per 500 mila anni mentre per gli altri tipi di reattori il tempo di deposito è di "solo" 500 anni.
Problemi gravissimi quindi, del cui costo dovrebbe essere dimostrata la necessità per gli interessi della
collettività. La soluzione di tutti questi problemi potrebbe venire dal settore nucleare qualora si riuscisse
a controllare il processo di fusione nucleare; ciò eliminerebbe tutti gli inconvenienti legati alla fissione
nucleare e fornirebbe una quantità immensa di energia esauribile solo nell'arco di millenni. Tuttavia le
difficoltà tecniche alla costruzione di un reattore nucleare a fusione sono notevoli e non è prevedibile
quando sarà realizzato, né a quali costi.
Sprechi energetici
Il problema energetico si presenta sotto due aspetti. Il primo riguarda la disponibilità energetica mentre
il secondo i consumi di energia. I consumi energetici mondiali s'identificano essenzialmente con quello
di poche nazioni. U.S.A., Europa occidentale e Giappone toccano il 57% e con l'aggiunta di Canada e
U.R.S.S. si giunge al 74% dei consumi di energia mondiali. La necessità di limitare i consumi energetici
e di pervenire ad una loro più equA distribuzione si identifica con l'instaurazione di un modello sociale
alternativo. Infatti l'alto consumo energetico delle nazioni industrialmente avanzate è caratterizzato da
forti sprechi insiti nella loro stessa organizzazione. Ridurre quindi gli sprechi non significa adottare
misure irrisorie quali la riduzione dei limiti di velocità per le auto o fissare la massima temperatura per
il riscaldamento degli appartamenti. Queste misure puntano solo a farci sentire responsabili della crisi
energetica e a predisporci psicologicamente a qualsiasi soluzione, e a distogliere la tensione da una
qualsiasi analisi che metta sotto accusa l'organizzazione attuale della società e dalla prospettiva di un
modo diverso di soddisfazione dei bisogni collettivi. La concretizzazione, almeno teorica, di questa
alternativa sociale è un traguardo verso il quale la sinistra rivoluzionaria è protesa ma il cui
raggiungimento richiede sforzi notevoli e tempi lunghi.
Tuttavia, per quanto riguarda il settore energetico, esistono fin d'ora esperienze di creazione di sistemi
decentrati che vanno sotto il nome di "M.I.U.S." (modular integrated utility system). Sviluppatisi negli
U.S.A., essi ricalcano il modello delle comuni cinesi basato su piccole unità produttive, integrate
territorialmente nel senso che le scelte organizzative si basano sul tipo di risorse disponibili in loco. La
loro promozione è avvenuta negli U.S.A. per motivi di ordine bellico, riconoscendo il governo americano
la maggiore vulnerabilità dei grandi complessi energetici rispetto a quelli decentrati. Il MIUS è, in
sostanza, il centro energetico di piccole comunità di ordine variabile da centinaia di individui a varie
migliaia. Viene prodotta in maniera autonoma energia elettrica e termica e realizzato il recupero di
energia attraverso il trattamento dei rifiuti solidi della comunità. In caso di necessità avviene il
collegamento con la rete elettrica. I servizi garantiti dal MIUS sono notevoli e comprendono la fornitura
di energia elettrica, la climatizzazione di edifici, fornitura di acqua calda, trattamento di rifiuti solidi e
liquidi, ecc. Esso presenta le caratteristiche di un centro dipendente dalle esigenze comunitarie e
facilmente autogestibile dalla collettività globale. Centri di questo tipo sono particolarmente indicati per
lo sfruttamento di risorse energetiche locali quali l'energia solare, eolica, idroelettrica e geotermica e
permettono un risparmio rispetto al sistema centralizzato della rete elettrica, del 20% annuo. È questa
dei MIUS una strada da approfondire e da generalizzare ad altri settori produttivi per farla passare da
una esperienza pilotata dall'alto delle esigenze belliche ad un concreto modello organizzativo orizzontale
e popolare.
L'indicazione generale che se ne può trarre è quella della necessità di eliminare consumi individualistici
rendendoli il più possibile collettivi (caratteristici quelli dell'attuale famiglia mononucleare funzionali alle
esigenze della produzione attuale e basate su una miriade di piccoli elettrodomestici a basso rendimento
energetico) e di limitare la produzione centralizzata dei beni e servizi sostituendola, dove è possibile, con
strutture produttive decentrate e autonome.
Integrazione internazionale
Un modello sociale alternativo permetterebbe, dunque, di utilizzare più razionalmente le risorse
energetiche mondiali. La disponibilità energetica anche se non infinita, è notevole su scala mondiale, ma
le singole risorse energetiche sono distribuite in maniera ineguale sulla superficie terrestre. Una diversa
politica energetica non coincide con gli attuali interessi del potere. L'attuale organizzazione energetica
viene presentata come necessaria per garantire il tenore di vita acquisito cosicché sarebbe proprio
l'opinione pubblica ad invocare la nuclearizzazione. È dunque necessario sviluppare una coscienza
popolare sulle implicazioni, non solo ecologiche, ma anche politiche ed economiche della attuale scelta
nucleare al fine di imporre, attraverso azioni di massa anche violente, una politica energetica conforme
agli interessi popolari. Ma questa condizione, cioè la coscienza popolare, non è di per sé sufficiente per
poter realizzare soluzioni alternative in un paese come l'Italia di limitate risorse energetiche. L'Italia
sarebbe facilmente ricattabile energeticamente dall'esterno e ciò impedirebbe la nostra
autodeterminazione nella realizzazione del modello sociale alternativo. D'altra parte anche i paesi ricchi
di risorse energetiche, quali quelli arabi, sono ricattabili in quanto privi di una tecnologia propria
detenuta dai paesi industrialmente avanzati.
Per tali motivi occorre invertire il decorso storico d'integrazione internazionale voluto dai governi e
mirante a creare blocchi di nazioni cementate dall'affinità delle rispettive economie e con interessi
contrapposti ad analoghi blocchi (tipo CEE). Ma l'integrazione internazionale fra paesi ad economia
complementare, primo passo verso l'integrazione mondiale, può essere realizzata solo dall'azione
popolare finalizzata al raggiungimento, contemporaneamente nei singoli paesi, di un ordine sociale
rivoluzionario ed affine. Dalla questione energetica si trae quindi una indicazione sul ruolo internazionale
di un movimento rivoluzionario, sulla necessità di favorire contatti e coordinamenti dell'azione
rivoluzionaria tra movimenti popolari di diverse nazioni. Inserendo la lotta antinucleare in questo
contesto politico ed economico più ampio, è a nostro avviso, possibile farne di esse una tappa importante
verso la rivoluzione libertaria.
Creys-Malville, 31 luglio, un morto e centinaia di feriti sono stati il bilancio della manifestazione
antinucleare che ha visto la partecipazione di oltre ventimila persone, molte delle quali provenienti
anche dalla Germania, dal Belgio, dall'Italia ecc. La grande centrale nucleare "Super-Phenix" che
dovrebbe sorgere nell'Isére è "un capitale nazionale, uno stabilimento destinato ad assicurare
l'indipendenza energetica della Francia" ha dichiarato il ministro degli interni, Cristian Bonnet,
aggiungendo che pertanto si assumeva "la piena e completa responsabilità della consegna data alle
forze dell'ordine, attraverso il prefetto dell'Isére, di difendere il posto a qualsiasi costo". La durezza
della repressione contro i movimenti antinucleari denota una debolezza del sistema: quanto più è
difficile accaparrarsi il consenso della popolazione tanto più energico e criminale diviene l'attacco
contro quelle forze che esprimono fattivamente il dissenso. |
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