Rivista Anarchica Online
AL CINEMA
a cura di Rozac
La Colonia Cecilia di Jean Claude Commolly.
Raramente mi è stato dato vedere un film così brutto ed insulso quale quello che sto per recensire:
certamente un tentativo abortito in malo modo di fare una pellicola seria su di un aspetto quasi
nascosto della storiografia e dell'ideologia libertaria.
Il regista Comolly, valente critico della rivista di cinema francese "Cahiers du Cinema", ha
completamente fallito la prova in ogni e qualsivoglia maniera, presentando un prodotto sciatto, male
organizzato, peggio diretto e soprattutto molto carente dal punto di vista strettamente politico. Un
Brasile facilmente riconoscibile in qualche valle sperduta della nostra Italia Settentrionale, una
scenografia che lascia del tutto a desiderare, una interpretazione a dir poco fallimentare sono il
risultato di una regia che, a quel che è dato vedere, appare soltanto nel titolo di testa. E che dire
dell'aspetto politico del film? che dire delle enormi castronerie che fanno apparire gli anarchici per
un branco di fanciulloni irruenti, sempre dediti al vino ed alle carte, intenti a circuire donne, stanchi
di lavorare prima di iniziare il lavoro stesso, impegnatissimi in discussioni politiche pressapochistiche
e sempre più piangenti dinanzi ad una bandiera rossonera? Ma è mai possibile che in tanti anni non
si possa cambiare anche tra gli addetti ai lavori il mito stereotipato dell'anarchico che lancia bombe
e, una volta che si vuole cambiarlo, si cade nel pietoso come nel caso della "Colonia Cecilia"?
Ci si sarebbe attesi qualcosa di più e di migliore da un argomento interessante come la vita e le opere
del compagno Giovanni Rossi, ma l'opera, forse improba, presentataci da Comolly, non può fare altro
che spingerci ad un sorriso, prima, ed a tanta rabbia, poi. Unica speranza resta che simili tentativi
dopolavoristici nella peggiore delle accezioni del termine dopolavoristico non vengano più ripetuti in
futuro: a maggior riprova leggere le critiche entusiastiche della stampa della sinistra ufficiale e non,
ben lieta di vedere sugli schermi anarchici così tristemente inutili e, nel contempo, divertenti.
La Recita di Theodoros Anghelopoulos.
Quattro ore di cinema sono troppe anche per i topi di cineteca ma è ben difficile che tempo sia stato
impiegato meglio vedendo uno spettacolo, soprattutto se questo spettacolo è un film come il greco La
Recita, opera di insuperata bravura del cineasta "fuori dal gruppo" Anghelopoulos. Film rigoroso, e
dal punto di vista recitativo e da quello contenutistico, ampio, senza mai una caduta di gusto, nella
parabola degli attori della compagnia protagonista principe della pellicola si viene a rispecchiare,
episodio dopo episodio, il volto di una Grecia che cambia, la coscienza di un paese scosso dalla guerra
mondiale prima e da quella civile, ben più sanguinosa, poi, la storia di una serie di passioni e di idee
che si intrecciano l'una all'altra in un sottile "gioco del massacro". I protagonisti, tutti attori a noi
sconosciuti, sono uno più bravo dell'altro anche perché è facile capire che dietro alla loro recitazione
ci sono reminiscenze di vite e tragedie vissute e mai sopite: lo stesso è facilmente arguibile nell'abile
mano del regista che preferisce mostrare più che filmare in senso vero e proprio, facendo un largo uso
della tecnica del piano sequenza e permettendo che certe situazioni appaiano migliori da questo
raccontare senza vedere. Certo, i giudizi su questa opera saranno molto discordi - quattro ore di
cinema sono davvero tante - ma una cosa è certa, l'onestà degli intenti ed il vasto respiro politico
mostrano con quanto amore e con quanto straordinario mestiere questo isolato della celluloide sa
mettersi dietro ad una macchina da presa e da essa sa trarre momenti di un lirismo e di una forza
politica che molti politici di mestiere non toccheranno con la loro vita di mestatori parlamentari e non:
un grande film, dunque, un grande regista, ed infine, una grande lezione di storia e di come leggerla
criticamente.
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