Rivista Anarchica Online
Il prezzo della coerenza
di P.F.
8 settembre 1976: suonano alla porta. La madre si alza da tavola, va ad aprire la porta:
"Franco, ci sono due tuoi amici" - dice al figlio. Appena li vede, Franco capisce -
"Mamma, non sono due amici. Debbo seguirli". Monza, Peschiera del Garda, Gaeta,
Latina, Roma, Sondrio, Desio: dopo 19 mesi e 5 giorni di carcere (14 di carcere militare, il
resto di carcere civile) Franco è tornato a casa il 14 aprile scorso. Il congedo militare l'ha
preceduto, arrivandogli a casa mentre ancora era nel "civile".
Ora Franco Pasello, 26 anni, originario di Lendinara (Rovigo), garzone di panettiere
dall'età di 13 anni, è qui in redazione. Ci siamo scritti nell'ultimo periodo della sua
carcerazione, ci ha chiesto la rivista ed i libri, il contatto è stato presto stabilito. Parliamo
della sua vicenda; della vicenda di un giovane che "da sempre" ha deciso che lui il soldato
non lo farà mai e che questa sua volontà ha saputo e voluto realizzare. In effetti - dice
Franco - è proprio così: fin da piccolo mi sono sempre detto che io il servizio militare
non l'avrei fatto. Non vi erano ragioni ideologiche o di altro tipo coscienti in questa mia
volontà, solo un istinto basato sulla convinzione che si trattasse (come poi è) di
un'imposizione dall'alto, assurda ed ingiusta. Dall'età di 13 anni lavoro e prima di
entrare in carcere non avevo mai frequentato compagni o gruppi politicizzati: la mia
rivolta è nata su basi individuali.
Nel '71 Franco riceve la cartolina per i "tre giorni", cioè presentarsi alla visita medica
presso il distretto militare. Ma lui non ci va e per quattro anni non succede niente. Nel '75
prima visita dei carabinieri a casa sua: prendono Franco e di forza lo portano a Como a
fare i "tre giorni", dopo di che lo lasciano ritornare al suo paese. Nell'aprile gli arriva la
notifica di un processo a suo carico, presso la pretura di Como. Franco non ci va, non
nomina nessun avvocato: quello d'ufficio non fa molto per evitargli la condanna ad un
anno per il suo rifiuto di presentarsi puntualmente la prima volta ai "tre giorni". Prima del
processo, intanto, gli arriva la cartolina: a giugno deve partire soldato, la patria lo chiama.
Ma Franco, ancora una volta, non risponde e l'8 settembre - nel modo descritto all'inizio - i
carabinieri lo prelevano da casa e lo fanno rinchiudere nel carcere civile di Monza. Il
giorno dopo lo accoglie il carcere militare di Peschiera del Garda.
Appena incarcerato a Monza - racconta Franco - ho subito iniziato uno sciopero della
fame: per me questa era l'unica possibilità di protestare contro la mia detenzione, che
istintivamente rifiutavo e sentivo ingiusta. A quell'epoca continuavo a non avere nessun
rapporto con movimenti politici ed a sorreggermi nella convinzione della giustezza del
mio comportamento era proprio questa mia istintiva ribellione contro il servizio militare.
Pensa che, data la mia situazione familiare, avrei potuto chiedere e forse anche ottenere
l'esonero, ma non l'ho mai voluto fare. Lo sentivo come un compromesso che non avrei
mai potuto accettare.
Una volta a Peschiera, Franco entra in contatto con alcuni detenuti "politici", uno dei quali
vicino all'anarchismo. I compagni gli propongono un impegno politico, ma Franco ancora
non se la sente.
Nel giro di un mese lo trasferiscono a Gaeta, a centinaia di chilometri da casa sua. È stato
allora che ho cominciato a ricercare il contatto con gli altri; mi sono sentito isolato ed
ho cominciato a scrivere ai compagni che avevo conosciuto. Anche gli altri hanno
cominciato a scrivermi. Il 5 novembre si celebra al tribunale militare di Napoli il processo
a suo carico per rifiuto del servizio militare. Ancora una volta Franco rinuncia ad
occuparsi della sua difesa legale: gli danno un difensore d'ufficio che il giorno del processo
non si presenta, subito sostituito da un altro. Così, su due piedi. Risultato: Franco viene
condannato a 14 mesi. L'appello, nel codice militare, praticamente non esiste. Lo
rispediscono a Gaeta, al reclusorio militare. Vi resta fino al novembre, termine della sua
condanna militare.
Durante la mia detenzione a Gaeta sono stato rinchiuso per punizione due volte in cella
di isolamento: al posto della finestra, c'è solo una grata sul soffitto, aperta, in modo che
qualsiasi cosa vi caschi sopra finisce immediatamente dentro la cella. Come altri
compagni, appena mi ci hanno rinchiuso ho iniziato lo sciopero della fame: che altro ti
resta da fare in quelle condizioni? Di scioperi della fame Franco ha accumulato una
buona esperienza. Nel luglio dello scorso anno io, Renato Zorzin, Beppe Frusca, Rinaldo
Gabrielli e Toni Caczanello abbiamo effettuato un primo sciopero della fame della
durata di 23 giorni; a novembre, insieme con altri detenuti (Lorenzo Santi, Roberto
Francesconi, Roberto Scannagatta e Angelo Motta), ne abbiamo fatto un altro di pari
durata. Chiedevamo che il periodo trascorso in carcere militare fosse considerato valido
al fine del servizio militare (una richiesta, questa, che evidentemente non ci riguardava
direttamente, ma era fatta a favore di altri detenuti militari), che i colloqui con gli amici
(della durata di 20 minuti) potessero essere prolungati come quelli con i familiari (una o
due ore), che fosse sancito il diritto all'uso non censurato del telefono e quello di
ricevere normalmente tutta la stampa (come nei carceri civili), ecc.
Franco ricorda anche la visita effettuata da Pannella nel reclusorio di Gaeta in occasione
del loro secondo sciopero della fame. Il parlamentare radicale preavvisò la direzione del
carcere della sua prossima visita e questo preavviso permise che si facessero ordine e
pulizie dappertutto: i testimoni di Geova (oltre 200 solo a Gaeta) furono invitati a
"mettersi bene", con la camicia, ed a esternare tutta la loro soddisfazione per la situazione
in cui si trovavano. Nelle camerate, prima della visita di Pannella, si accese il dibattito: da
una parte chi voleva nascondere tutti i difetti e le ingiustizie, in obbedienza alle indicazioni
della direzione, dall'altra chi intendeva comunque denunciare la verità. Il che Franco e gli
altri due compagni, che con lui facevano lo sciopero della fame, hanno fatto durante il
colloquio con Pannella, servito praticamente a niente.
Al 18° giorno dello sciopero della fame - ricorda Franco - ci hanno trasferiti al Celio,
l'ospedale militare di Roma: dicevano che eravamo in pericolo di vita. La pressione, in
effetti, c'era scesa molto. Scadevano intanto i termini della mia carcerazione militare: i
14 mesi inflittimi dal tribunale militare di Napoli erano trascorsi. Restava però l'hanno
inflittomi dal tribunale di Como per la mancata presentazione ai "tre giorni". Dal Celio
sono stato così accompagnato direttamente al carcere di Latina, dove sono rimasto "in
transito" per un mese; poi altri sei giorni "in transito" a Regina Coeli; quindi al carcere
civile di Sondrio, dov'ero stato destinato. Forse per la mia partecipazione - unico tra le
decine di detenuti a Sondrio - allo sciopero nazionale dei detenuti promosso dai
carcerati di Padova per il 27-28 febbraio, ai primi di marzo mi hanno trasferito nel
carcere di Desio, salito alla ribalta della cronaca per la "scoperta" che l'autorità
trattiene tutti i soldi versatile per il vitto dei detenuti, costringendo questi ultimi a
comprarsi con la "spesa" tutto il necessario (a parte il pane e qualche uovo ogni tanto).
Il 14 aprile scorso, infine, sono uscito in regime di semi-libertà, sotto la vigilanza di
un'assistente sociale.
Dall'intera vicenda Franco ha tratto conferma della validità del suo comportamento e della
sua scelta: la sua critica del servizio civile proposto dalle autorità in alternativa al servizio
militare gli pare un compromesso inaccettabile. Spesso - dice Franco - mi sono sentito dire
che io avrei scelto di andare in galera: non di una libera scelta si tratta, ma della logica
e diretta conseguenza del mio rifiuto dell'esercito. È in questo contesto che l'alternativa
del servizio civile per me non si è mai posta. Gli chiedo dei rapporti che è riuscito ad
instaurare durante la sua detenzione: quanti hanno capito la sua scelta? e quanti invece lo
hanno sostanzialmente deriso? In effetti la grande maggioranza dei detenuti per reati
comuni (a parte i testimoni di Geova, sempre ubbidienti all'autorità e spesso ostili a noi
"politici", noi "politici" eravamo ben pochi) non riesce a comprendere la nostra scelta di
obiezione totale: ma qualcuno l'ha capita e con molti in genere sono riuscito a stabilire
un dialogo efficace.
Ora che è fuori, Franco continua ad occuparsi del problema dell'obiezione totale ed è in
contatto con altri che se ne occupano, e soprattutto con quei compagni che in carcere
stanno pagando per la sua stessa scelta di coerenza: Lorenzo Santi, Giovanni Pierantoni e
Matteo Danza nel carcere militare di Forte Boccea a Roma, Roberto Francesconi in quello
di Gaeta (è possibile, naturalmente, che già all'uscita di questo numero di "A" qualcuno di
questi compagni sia stato trasferito altrove). Tutti compagni anarchici, come lo sono -
dice Franco - quasi tutti quelli che hanno compiuto e compiono la scelta dell'obiezione
totale, magari senza dichiararsi tali o forse senza neanche saperlo.
Proprio com'è successo a lui, che solo in carcere si è "scoperto" anarchico dopo essersi
comportato di fronte all'autorità che lo voleva soldato proprio come si sono comportati
tanti militanti anarchici.
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