Rivista Anarchica Online
Militanti o militonti?
di Collettivo di Comunicazione Libertaria - Milano
Fino a ieri, c'era ancora qualcuno che credeva alla rivoluzione dietro l'angolo, ma oggi
sembra che nessuno più creda alla sua immediata realizzazione. Stiamo vivendo una
situazione di riflusso, di ripensamento o di svacco a seconda di come la si vuole
interpretare. Di certo è andato in crisi tutto il vecchio modo di far politica, di intendere la
rivoluzione e la lotta rivoluzionaria e con essi i valori e i miti scaturiti dalle rivolte
sessantottesche. Di pari passo il sistema ha continuato il suo cammino verso la
massificazione, riuscendo a trasformarsi ed a trasformare la realtà sociale secondo il suo
progetto di società assistenziale. La scissione degli elementi sociali in "garantiti" e "non
garantiti" dall'assistenza del sistema sottintende la sua capacità di ricomposizione delle
contraddizioni, in nome di una "normalità" che è diventata la garanzia economica, politica,
sociale ed esistenziale per la soddisfazione dei bisogni. Bisogni che se prima erano
considerati un diritto fondamentale dell'uomo, ora sono considerati un diritto "legale"
dell'uomo, cioè un diritto di chi accetta la legge del sistema di sfruttamento in cambio della
sicurezza dell'assistenza.
Sembrerebbe un'affermazione assurda se si analizzasse solo da un punto di vista teorico.
Chi accetterebbe di farsi sfruttare in cambio di ciò che é suo diritto? Chi accetterebbe di
rinunciare alla propria realtà culturale, sociale, espressiva, in cambio di una realtà
pianificata, funzionale agli interessi del sistema? Chi accetterebbe un modello sociale
castrante basato sulla divisione e i ruoli, che si regge su strutture alienanti e gerarchiche?
Chi accetterebbe di farsi garantire in questo modo dal sistema se non fosse convinto della
assoluta mancanza di una alternativa valida ad esso? È proprio sulla dimostrazione di
questa mancanza di alternativa che il sistema ha potuto ottenere il consenso della massa-interlocutore.
Grazie all'uso strumentale dei mass-media, dei mezzi di comunicazione culturale, della
ricerca scientifica, ha potuto dimostrare l'inattuabilità di qualsiasi progetto alternativo al
suo. Contro questo muro isolante si sono scontrati tutti i progetti rivoluzionari, le
organizzazioni che li propugnavano e i militanti che le componevano.
Ma la crisi di valori e di contenuti del modo di far politica e di intendere la rivoluzione dal
'68 ad oggi non è certamente dovuta solamente all'isolamento in cui il sistema ha relegato
le forze rivoluzionarie. È una crisi che nasce proprio dal modo di intendere la realtà sociale
ed individuale, ancora legato a vecchi sistemi. E questo non riguarda solo quelle
organizzazioni che hanno monopolizzato e incanalato, addormentandola, la rivolta
sessantottesca, anzi, una crisi di questo genere se vogliamo era prevedibile per quelle
organizzazioni che si basano su un'ideologia autoritaria come il marxismo, volta quindi alla
ricerca del consenso attraverso la propaganda delle loro azioni esemplari e dei loro testi
sacri.
Ma riguarda soprattutto tutte quelle realtà di rivolta tendenti a negare qualsiasi potere
imposto e qualsiasi struttura politica e sociale che lo sostenga. Riguarda quindi soprattutto
il movimento anarchico e libertario. Se per i gruppi si è trattato di una incapacità di
ottenere il consenso alla propria ideologia basata sulla lotta per l'egemonia, ciò non
avrebbe dovuto valere per il movimento anarchico che lotta per l'emancipazione con le
masse e non certo per il loro consenso-delega. Eppure se analizziamo la realtà e le
tendenze dei cosidetti "nuovi soggetti" ci accorgiamo di come siano spesso simili i motivi
di crisi sia dei gruppi ex-extraparlamentari sia del movimento anarchico. Noi crediamo che
l'errore principale sia stato quello di proiettare il progetto anarchico in una visione futura,
post-rivoluzionaria, privilegiando il progetto di abbattimento dello stato attraverso uno
scontro che sarebbe dovuto scaturire dall'acuirsi della tensione sociale dovuta
all'emancipazione degli individui e quindi ad una loro presa di coscienza rivoluzionaria. Il
che può sembrare anche giusto, ma con quali mezzi si è cercato di fornire questa
emancipazione? Dobbiamo distinguere tra quella che è la comunicazione della rivolta
all'esterno, cioè verso gli sfruttati i nostri interlocutori diretti e rivoluzionari potenziali, e
quella che è la comunicazione del progetto anarchico o meglio dell'essere anarchici
all'interno, cioè tra militanti, vale a dire sfruttati coscienti del proprio sfruttamento e
rivoluzionari attivi. Dove la seconda è diretta conseguenza della prima realtà. Il
movimento anarchico "risorto" come voce e corpo nel '68 ha sofferto degli stessi mali, che
hanno afflitto i gruppi extraparlamentari anch'essi sorti dal '68. L'essere andati quasi
sempre a rimorchio dei gruppi extraparlamentari seguendone le scadenze, i momenti di
lotta e gli obiettivi pur con moventi diametralmente opposti, ci ha fatto subire la stessa
crisi di emarginazione che essi soffrono ora, per cui le azioni fatte dagli anarchici finivano
per essere assorbite dalla asfissiante vicinanza dei "compagni" dei Gruppi. Quando non si è
trattato di vera e propria repressione (MLS). Ma secondo noi la causa determinante è
stato l'errore di usare il modo spettacolare, cioè simbolico, le azioni, le iniziative, i
momenti di lotte intrapresi. E se per i Gruppi ciò era logico in quanto tesi alla ricerca del
consenso per noi si è rivelato castrante in quanto rappresentazione simbolica di una realtà
di lotta, e non momento di lotta fine a se stesso. Quasi mai si è riusciti pur con tutta la
buona fede e la buona volontà a creare una situazione valida e duratura alternativa come
struttura reale, che non fosse un fatto simbolico e "spettacolare" destinato ad esaurirsi o a
non incidere per niente sul tessuto sociale su cui si è sviluppato. Così è stato per la lotta
per la casa, così è stato per la lotta nelle fabbriche, così è stato per la lotta anti-nucleare,
ecc.. Anche se non si possono bollare tutte queste lotte come non valide non foss'altro per
quello che sono servite a noi per cercare di capire il perché esse non siano riuscite ad
incidere validamente sulla realtà.
Tutte queste forme di lotta risultate castranti si sono poi rivelate una delle cause principali
della situazione di crisi dei militanti stessi. Secondo noi la causa della crisi di identità del
militante nasce proprio dalla scissione forzata tra lotta politica e vita quotidiana, che egli è
costretto a fare proprio per i mezzi, per i contenuti, e per i metodi che la sua lotta politica
richiede. Lottare per l'emancipazione sociale, culturale, politica e morale dell'individuo,
significa riuscire ad essere per lui stimolo attraverso l'esempio delle proprie azioni
quotidiane, individuali e collettive, significa entrare nella propria realtà di sfruttato,
analizzarla e portare le sue contraddizioni agli altri. Non certo perché il personale è
politico o collettivo, ma perché solo attraverso una comunicazione diretta dei propri
bisogni e della propria espressione si può ottenere la comunicazione della rivolta. La
scissione tra lotta politica e vita quotidiana non è solo determinata dai momenti di lotta
falsati dalla loro spettacolarizzazione, ma anche e soprattutto dai ruoli che tali momenti
obbligano a ricoprire. Ecco quindi la crisi di ruolo del militante a tempo pieno teso
unicamente a comunicare con le masse ed incapace di comunicare con l'individuo e
addirittura con se stesso. Questa scissione drammatica dell'identità dell'individuo è forse la
causa primaria della crisi di rigetto e di riflusso dei soggetti rivoluzionari rispetto
all'organizzazione della lotta. E, ripetiamo, se questo può essere logico all'interno di
gruppi strutturati in modo gerarchico e verticale, non trova più una logica all'interno del
movimento anarchico. Il progetto anarchico ha la sua forza, ma anche la sua debolezza
nell'utopia. Ora, proiettare questa utopia in un futuro post-rivoluzionario, rischia di essere,
a livello di soggetto, un rimandare la costruzione della realtà o perlomeno di una parte di
questa realtà laddove è possibile, non foss'altro che dentro se stessi. Se è vero che in
ognuno di noi si annida il fascista, il maschio padrone, il giudice, il maestro, è proprio vero
che è verso di noi che dobbiamo rivolgere le armi della rivolta. Non si può pretendere di
voler emancipare gli altri senza insieme emancipare anche se stessi. E questo lo vediamo in
modo stridente nella nostra vita quotidiana. Con questo noi non intendiamo assolutamente
fare l'ideologizzazione del personale finendo per vivere un individualismo deleterio, dove
l'unica comunicazione possibile è quella ottenibile attorno al bisogno disperato di
aggregazione per sfuggire alla propria alienazione. Finendo per tentare di creare isole di
libertà vigilata, vivendo in ansia per la maggior parte della giornata per poi tirare due
boccate di paranoia attorno ad un po' di musica o ad uno spino, ricoprendo precisi ruoli di
un rito che non ha nulla a che vedere con il bisogno di comunicazione o di aggregazione, e
che resta fine a se stesso. Così come prima si viveva una realtà di militanza in modo
estemporaneo attraverso il ruolo del militante, ora si vive una realtà di svacco travestita da
ideologia del personale, vivendo il ruolo di emarginato, di diverso, come un'alternativa
reale al ruolo di integrato, di "normale".
Ma come è possibile costruire qualcosa di effettivamente valido, di anarchico anche se
minimale senza intoppare nella repressione violenta o strutturale del sistema? Forse è
inutile parlare di canali, di spazi lasciati liberi, inutile e forse un po' ridicolo, soprattutto
ora che il sistema è sempre più forte, violento e repressivo. Ma è anche vero che partendo
da una considerazione così distruttiva si può arrivare alla scelta disperata e suicida di una
lotta modello B.R., sterile e funzionale al sistema (vedi leggi speciali).
Noi crediamo, partendo dalla considerazione che il sistema non è ancora riuscito come
vorrebbe far credere a portare a termine il suo progetto di massificazione, che sia possibile
ancora poter comunicare agli sfruttati la rivolta: cioè emanciparli. Questa possibilità di
comunicazione passa per la nostra capacità di individui e di movimento, di uscire dai
vecchi schemi e dai ruoli che essi impongono e ricominciare a riappropriarci di noi stessi,
cioè del nostro quotidiano che è lo stesso quotidiano dei nostri interlocutori. -Vale a dire
riappropriarsi della nostra capacità di comunicare con gli altri e con noi stessi. Ciò
significa a livello di movimento che si deve cominciare a far emergere tutte quelle
tematiche che riguardano questa riappropriazione, come ad esempio i problemi inerenti al
lavoro e/o al suo rifiuto, al rapporto con l'ambiente, alle possibilità esistenti di cominciare
a creare situazioni di vita anarchica, ai problemi riguardanti l'uso del proprio corpo come
mezzo di espressione, di comunicazione, di rivolta, i problemi riguardanti i rapporti fra
compagni, il nostro essere castrati da mille situazioni e realtà alienanti, il nostro castrare
gli altri con il nostro comportamento, e mille altri argomenti legati alla nostra capacità di
autoemancipazione attraverso le azioni quotidiane, che non possono essere che stimoli
positivi per tutti coloro che come noi vivono la stessa realtà alienante di sfruttamento.
Tutto questo, lo ripetiamo, non vuole essere un voler ideologizzare schematizzandoli
schemi e momenti legati al personale, ma vuole essere un cominciare a vivere l'utopia,
proprio perché siamo un movimento di gente che vuole vivere l'anarchia.
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