Rivista Anarchica Online
Ma la scheda no...
di P. F.
Quattro anni dopo il referendum abrogativo del divorzio, i cittadini dello Stato italiano
sono nuovamente chiamati alle urne per altri due referendum abrogativi. All'origine
dovevano essere otto: tanti ne aveva proposti già nel '74 il partito radicale, che insieme
con Lotta Continua ed il Movimento dei Lavoratori per il Socialismo (o meglio, per lo
Stalinismo) ha successivamente dato vita all'apposito comitato nazionale per gli otto
referendum abrogativi. Sei, però, si sono persi per strada: alcuni sono stati dichiarati
improponibili, altri sono stati evitati quasi all'ultimo momento dalle manovre parlamentari
dei partiti politici (soprattutto grazie al P.C.I.) che hanno parzialmente modificato le leggi
di cui il comitato proponeva l'abrogazione annullandone così la richiesta abrogativa. Il
comitato ha contestato il valore marginale delle modifiche di legge apportate, chiedendo
che i cittadini potessero votare in merito alle otto leggi criticate: ma proprio in questi
giorni la corte costituzionale ha definitivamente sancito che si voterà solo per due leggi,
quella relativa al finanziamento statale dei partiti e la cosiddetta legge Reale.
Il mini-fronte del "sì" è composto da radicali, democrazia proletaria, lotta continua, M.S.I.
e da qualche singolo esponente di altri partiti (come Riccardo Lombardi, leader storico
della sinistra del P.S.I.). I liberali sono favorevoli all'abrogazione del finanziamento
pubblico dei partiti, ma contrari a quello della legge Reale. Tutti gli altri partiti, dal P.C.I.
a democrazia nazionale, si sono dichiarati contrari all'abrogazione delle due leggi (il P.S.I.
con minore decisione, stante la volontà abrogazionista di consistenti settori della sua base
e della sua federazione giovanile al completo).
Il fronte del "no" comprende così quasi tutti i partiti dell'arco costituzionale, il che induce
molti a pensare che il prossimo referendum dell'11 giugno sia di fatto un plebiscito pro o
contro "il regime". Anche prescindendo da considerazioni specifiche (per esempio, il fatto
che anche l'M.S.I. e i neo-nazisti di Ordine Nuovo si sono pronunciati per il "sì"), è
evidente che le istituzioni non sono certo messe in pericolo dall'operazione-referendum: lo
confermano anche le dichiarazioni di numerosi esponenti della sinistra sedicente
rivoluzionaria, che invitando a votare "sì" spiegano che in tal modo si contribuisce alla
difesa della democrazia ed al suo allargamento. Un obiettivo, questo, che non è certo
molto rivoluzionario!
L'11 giugno noi non andremo a votare, confermando così la nostra scelta del 12 maggio
1974: già allora, all'epoca del referendum sul divorzio, la nostra scheda restò inutilizzata e
già allora avemmo modo di accennare agli otto (ora ridotti a due) referendum, proprio in
quelle settimane lanciati dai radicali. Prescindendo infatti dalle singole leggi che di volta in
volta si vorrebbero abrogare, è il referendum in sé che noi non possiamo accettare di
utilizzare come mezzo di lotta.
È la vecchia questione del "metodo" cioè del rapporto tra mezzi e fini della nostra
azione. - scrivevamo quattro anni fa ("A" 30) - Se, come crediamo, la nostra azione è
tutta tesa a maturare la lotta di classe degli sfruttati a consapevolezza libertaria ed a
volontà rivoluzionaria (o, come si dice anche, marxisticamente, a far "crescere la
coscienza di classe"), i mezzi utilizzabili sono tutti "e solo" quelli coerenti con questi fini.
Quei mezzi che accrescano la fiducia degli sfruttati nella loro capacità di autogestire la
loro lotta oggi e la vita domani ed insieme la sfiducia nello stato e nelle istituzioni; quei
mezzi che nella terminologia libertaria sono definiti come "azione diretta". La distinzione
tra i rivoluzionari ed i riformisti ed ancor più tra gli autoritari e gli antiautoritari passa
attraverso il rifiuto dei mezzi di azione istituzionali (e non attraverso la banale e
mistificante questione del "tutto o niente"). Il mezzo istituzionale di azione politica è
precisamente uno strumento per incanalare i conflitti sociali nell'ambito del sistema e
della sua gerarchia.
Questa per noi è la questione centrale: partecipare ai referendum significa riconoscere la
natura democratica (nel senso letterale del termine) dello Stato; spingere gli sfruttati a
parteciparvi significa nascondere loro il carattere mistificatorio e strumentale dell'intera
"operazione referendum". Anche prescindendo dal carattere unicamente abrogatorio dei
referendum, che lascia al parlamento il compito di colmare il vuoto legislativo derivato
dall'abrogazione di una legge (tanto per fare un esempio, la legge Reale che si vorrebbe
abrogare è già stata superata sul piano repressivo da nuove leggi e disposizioni ben più
repressive e liberticide!), è evidente che qualunque possa essere l'esito specifico della
consultazione sarà sempre lo Stato ad avvantaggiarsene in termini di immagine e di
consenso (indotto).
Il potere, dimostrando "fastidio" ed insofferenza per l'iniziativa radicale, sembrerebbe
smentire questo suo uso strumentale dei referendum: ma è necessario non fermarsi alle
apparenze. Certo, è vero, i risultati dei referendum, qualora contrastanti con le previsioni
"volute" dal regime, sarebbero da questo più difficilmente gestibili di quanto lo sono
sempre i risultati delle normali consultazioni politiche e amministrative. Ma ciò
significherebbe, al massimo, un intralcio momentaneo e superabile al funzionamento del
sistema, non una sua destabilizzazione. Sarebbe già qualcosa questo "intralcio" e potrebbe
giustificare per alcuni la partecipazione al voto, se non vi fosse comunque nel frattempo la
continua mistificazione "democratica" del referendum. Lo Stato, insomma, anche e forse
soprattutto se i risultati dei referendum fossero opposti a quelli voluti dai partiti al
governo, potrebbe sbandierare ai quattro venti la sua democraticità, dandosi d'altro canto
delle leggi simili o magari anche peggiori delle precedenti. Francamente, per i rivoluzionari
il gioco (cioè l'abolizione di due specifiche leggi, sostituite sempre e comunque dal
parlamento) non vale la candela (cioè la credibilità rivoluzionaria del nostro rifiuto delle
istituzioni).
In un regime come il nostro, il potere ha la continua necessità di mobilitare intorno a sé il
consenso degli sfruttati e si serve di tutte le occasioni e di tutti i mezzi per realizzare
questo obiettivo. Dal 16 marzo in poi per esempio abbiamo assistito alla grandiosa
sceneggiata di regime orchestrata in occasione del rapimento Moro, al fine di incrementare
il consenso popolare intorno alle istituzioni ed allo "stato di cose presente". Sull'efficace
scenario dei mass-media (RAI-TV, giornali, radio e televisioni "libere", ecc.) hanno
recitato in molti, ma alla fine chi ha incassato il guadagno dello spettacolo è stato il potere.
Su un piano diverso, certo con una minore drammaticità (ma nel '74 non fu così e la
mobilitazione popolare "all'interno" delle istituzioni fu allora notevole ed efficace - per lo
Stato), si replica quest'anno la commedia dei referendum.
La drammatizzazione dello spettacolo questa volta è nettamente inferiore, un po' perché il
caso Moro ha già risvegliato a sufficienza (per lo Stato) l'attaccamento dei cittadini alle
istituzioni, un po' perché questa volta tutti i partiti di regime sono uniti dalla stessa parte
della mini-barricata elettorale (mentre nel '74 P.C.I. e D.C. incontrarono nel referendum
sul divorzio un doloroso seppur temporaneo ostacolo alla loro marcia di avvicinamento).
Anche se con caratteristiche specifiche diverse dal '74, questa nuova consultazione
elettorale referendumista conserva intatti i suoi connotati strutturali di strumento di
mobilitazione del consenso all'interno e quindi in definitiva a favore delle istituzioni.
I radicali e gli altri sostenitori del "sì" ci accusano come al solito di qualunquismo e di
astratta coerenza. Alla prima accusa rispondiamo che la partecipazione alle elezioni e ai
referendum non è necessariamente una dimostrazione di "partecipazione", anzi è proprio la
dimostrazione del contrario. Alla pratica della delega e della lotta all'interno delle
istituzioni, noi opponiamo quella dell'azione diretta al di fuori e contro le istituzioni.
All'accusa di astratta e alla fin fine deleteria ricerca della coerenza, rispondiamo che simili
problemi certo non possono interessare chi programmaticamente "entra" nelle istituzioni
per migliorarle dal di dentro e si serve delle pratiche di azione diretta solo come
complemento per l'attività legalitaria e parlamentare del partito. Sono e restano
fondamentali, invece, per chi come noi ha ben chiaro il ruolo dello Stato e delle sue
istituzioni, al di là di qualsiasi mistificazione democratica.
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