Rivista Anarchica Online
Disertate! (il femminismo è morto)
di Marina Valcarenghi
Che non si possa più vivere che passando da un eccesso all'altro? Che la nostra capacità critica
sia ormai così compromessa da essere sporadicamente destata solo da urla scomposte e da
ragionamenti schiamazzoni? Finito (o riservato a pochi felici (?)) il piacere di riconoscere il
lungo fluire di un pensiero, la finezza di un'immagine, il concatenarsi di un ragionamento?
Si preferiscono i bombardamenti, i best-seller ovvii e chiassosi che non dicono molto, né bene,
ma lo dicono con molto clamore. Come questo "Disperate! Il femminismo è morto" di Annie Le
Brun, best seller in Francia e ora anche in Italia (Arcana, 3.000 lire).
Cosa ha voluto dirci Annie Le Brun scrivendo questo libro? Principalmente che l'impegno della
donna per uscire dai modelli storicamente imposti è una faccenda che riguarda solo lei,
un'avventura individuale che il femminismo militante costringe in ridotti confini, snaturandolo
da impresa di liberazione a battaglietta emancipatoria o celebrandola in mistica della
femminilità con i suoi elementi liturgici: mestruo, maternità, magia eccetera.
Ci sono, secondo me, almeno due motivi per cui era inevitabile che, prima o poi, comparisse una
Annie Le Brun a tirar spadate all'impazzata e questi due motivi sono, primo: l'attestarsi di parte
del movimento femminista su obiettivi quali l'aborto, il salario alle casalinghe o la lotta contro
lo stupro e secondo: la rivalutazione selvaggia dello specifico femminile (ahimè spesso quanto
svilito!) visto come elemento positivo di una bipolarità dove l'elemento negativo è lo specifico
maschile. Non stiamo parlando di tutto il movimento femminista, ma di quella parte che è anche
la più chiassosa, di quella parte che la Le Brun ha avuto buon gioco a usare come tiro a segno.
Dunque l'autrice ce l'ha a morte con una parte del movimento femminista (considerato a torto e
forse non in buona fede come il suo intero) perché intrupperebbe le donne in una
contrapposizione frontale con gli uomini, perché organizzerebbe una competizione insensata e
perché soprattutto priverebbe la donna della libertà di fare da sola il suo gioco, di rompere
individualmente il prisma della sua vita.
Ma quando mai? Ma chi l'ha detto? Ancora una volta da parte di una donna una sfiducia di
fondo verso le donne. Ma perché si deve sempre vedere questa bipede come una potenziale
marionetta sempre disposta ad essere intruppabile da parte di preti, stregoni, maschi e, adesso,
femministe? In che modo l'impegno sociale per l'aborto o per gli asili nido impedirebbe alla
donna una sua rivolta personale contro il destino che il modello sociale le impone?
E poi: come non registrare la contraddizione dell'autrice che, da una parte infierisce sul
movimento per la sua attività sul sociale riduttiva e autoritaria e dall'altra afferma che
l'autentica liberazione è l'insubordinazione personale? Praticamente accusa il movimento di non
fare quello che comunque non potrebbe fare.
E ancora: mi sembra giusto non aggredire l'ideologia maschilista solo per contrapporle
l'ideologia femminista in uno scontro mutilante per tutti. Ma non sono affatto convinta che
l'alternativa all'intruppamento sotto le ali dell'ideologia sia l'individualismo un po' arrogante e
sempliciotto di Annie Le Brun che in sostanza afferma: io ce l'ho fatta per conto mio, che le
altre se la sbrighino da sole. È un po' più complicato e interessante di così, il problema: ci sono
intrecci sociali, etici, psicologici che è appassionante illuminare, c'è un inconscio collettivo
femminile col quale fare i conti e c'è soprattutto un eterno fluire di energie dall'individuo alla
società e dalla società all'individuo che non sono disposta ad ignorare.
Forse è vero che la liberazione della donna (come quella dell'uomo) è un'impresa in larga parte
solitaria: si tratta di decifrare nelle pagine scure del nostro passato prossimo e remoto. Si tratta
di capire che il nemico più infido è dentro di noi, in quella parte di noi che si rende complice
delle "cose come stanno". Così è necessario riflettere, più che comunicare, prendere in mano le
radici della propria insicurezza piuttosto che velarla col sollievo di essere tante. Così, io credo,
è necessario accettare la bellezza del nostro essere femminile, come quella dell'essere maschile,
ritrovando la profonda specificità dell'uno e dell'altro e riconoscendo l'uno e l'altro dentro di
noi.
Ma di questa personale ricerca, che arricchisce chi la fa in una forza immensa e serena per la
propria e altrui trasformazione invano cercherete tracce nel libro di Annie Le Brun.
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