Rivista Anarchica Online
Emile Henry e il senso della misura
di Amedeo Bertolo
Non siamo soliti ospitare sulle colonne di "A" interventi polemici con scritti apparsi su altre
pubblicazioni anarchiche. Lo facciamo questa volta, ben volentieri, pubblicando questo scritto
del compagno Amedeo Bertolo (membro del collettivo redazionale di "A" dalla fondazione al
1974), perché la questione affrontata - quella del terrorismo e della violenza indiscriminata -
riveste grande importanza, e perché tutti noi del collettivo redazionale ci riconosciamo appieno
in questo scritto.
Avevamo sempre creduto che Emile Henri e il suo attentato al Caffè Terminus facessero parte,
come l'attentato al Diana e qualche altro episodio, del passato anarchico meno esemplare. Che, se
non proprio uno "scheletro nell'armadio", fosse quanto meno quel tipo di anarchismo da spiegarsi
(o forse solo da esorcizzarsi) con un particolare contesto socio-economico-politico, eccetera.
Avevamo sempre creduto che tutto il movimento anarchico, traendo esperienza dal suo passato,
avesse acquisito una concezione equilibrata del possibile uso della violenza come mezzo di lotta,
che il "terrorismo anarchico", sia perché contrario alla nostra necessaria coerenza mezzi-fini sia
perché dimostratosi disastrosamente controproducente, fosse considerato un "ramo secco" e che
solo i più grossolani mistificatori prezzolati della storiografia e dell'editoria e della stampa
potessero agitarne il fantasma.
Ci sbagliavamo. Alfredo Maria Bonanno, dalle pagine dell'ultimo numero della rivista
"Anarchismo", in una recensione di Colpo su colpo, ci dice non solo che l'attentato di E. Henri fu
un salto qualitativo (positivo) nell'uso rivoluzionario della violenza, perché segnò il passaggio
dall'attentato discriminato (contro singoli personaggi del potere e del privilegio) all'attentato nel
mucchio del "nemico di classe", ma che oggigiorno un gesto alla E. Henri indicherebbe un
analogo "salto qualitativo" e porterebbe un "contributo teorico al movimento"!
Abbiamo cercato di ridere - a fatica, come di uno scadente umorismo nero - ma, pur sforzandoci
di non prendere troppo sul serio quanto andavamo leggendo, ci sentivamo ugualmente rizzare i
capelli in testa.
Abbiamo cercato di riderne perché conosciamo l'autore e la sua incontentabile esigenza di esibirsi
in rodomontate sempre più impressionanti, pour épater le bourgeois, o più probabilmente, visto
che di questi tempi è difficile impressionare il borghese con truculenze verbali decisamente
inflazionate, pour épater l'anarchiste. Sono anni, del resto, che Alfredo Maria si va dedicando a
flagellare il rammollito e imborghesito movimento anarchico (Lui escluso) con la modestia di un
pubblico ministero, il garbo di un attaccabrighe e l'ingenuità di un pubblicitario.
Così, siamo riusciti ancora a "digerire", sullo stesso numero della stessa rivista, il pezzo su
Proudhon dove ci invita a sparare in testa ad alcuni personaggi. Non è nuovo, il Nostro, a inviti
del genere. Ha avuto un certo successo pubblicitario lo "spara, ragazzo, spara" (alias "armiamoci
e partite") di un suo opuscolo condito di gioiose immagini come quella del cervello che schizza
fuori dal cranio. D'altronde sembra si tratti di questione semantica, più che altro: oggi pare si dica
"ti sparo in bocca" con la stessa facilità con cui si dice "al limite", "cazzo" e "cioè". Certo
dev'essere faticoso continuare a doversi superare in virulenza verbale per continuare a "fare
scandalo". Si deve ricorrere a difficili esercizi retorici, come taluni recuperi tardo-ottocenteschi,
già anticipati dal "falso Sartre", altro discreto successo pubblicitario (è tempo di revival): ad
esempio le immagini del grasso borghese (che nel contesto è diventato l'intellettuale socialista) che
si forbisce la bocca del sangue proletario e si toglie di tra i denti filacce semimasticate di carne
operaia. Ma sin qui siamo, forse, ancora nell'ambito appunto di una cattiva retorica, non tanto in
termini di gusto, quanto in termini di sproporzione troppo vistosa tra realtà e linguaggio.
Sin qui dunque non avremmo trovato sufficiente stimolo a prendere la penna, ad esempio, per
chiedere polemicamente se l'Apocalittico ritiene che Malatesta fosse un rammollito quando
discuteva con Costa e Merlino anziché piantar loro una pallottola "in mezzo alla fronte", o per
chiedergli secondo quale logica gli appare degno di quel trattamento un riformista e non uno
stalinista, di quelli ad esempio di cui golosamente pubblica dovizia di documenti e comunicati. La
linea di demarcazione tra compagni è l'uso della violenza "rivoluzionaria"? Sono la bomba e la
P38 (vere o di carta stampata)? Allora sono compagni anche i fascisti "rivoluzionari" dei N.A.R.?
Non avrei sin qui trovato sufficiente stimolo a raccogliere la "provocazione". Non perché, per
carattere, sia del tutto estraneo al gusto della polemica. Il fatto è che dopo quasi vent'anni di
presenza nel movimento, comincio ad averne fin sopra i capelli di polemiche, rivelatesi spesso -
quasi sempre - come occasione di facile sfogo interno di un'aggressività che non si riesce a
rivolgere all'esterno, così come l'ulcera è stomaco che si auto-digerisce, corpo che si auto-aggredisce, riflesso di un'angosciosa impotenza individuale. Una discussione, anche vivacizzata da
qualche punta di bellicosità (come del resto richiama la radice greca della parola polemica), può
essere costruttiva o comunque chiarificatrice, certo. Ma l'esperienza militante mi ha insegnato che
quando la discordanza tra le posizioni è ampia e va oltre l'oggetto di una specifica questione è
ancor più quando vi è nell'interlocutore una palese e compiaciuta rissosità, la polemica ha alte
probabilità di perdere i connotati sostanziali della discussione e diventare gioco di massacro
verbale. Meglio allora scegliere non la via della polemica diretta, del botta-e-risposta, ma la via del
confronto indiretto tra quanto si fa e dice e quanto fanno e dicono altre componenti individuali o
collettive dell'anarchismo.
Eppure ho preso la penna, correndo il rischio di sopravvalutare l'importanza negativa di certa
prosa, rieccheggiando su "A" le allucinanti sciocchezze apparse su un'altra rivista. Il fatto è che la
citata recensione, a mio avviso, supera il limite del consueto tremendismo di quella rivista, del
violentismo verbale con cui si cerca di fare vivere un surrogato in carta stampata dell'insurrezione,
di spacciare per pratica sociale - non diversamente dalle Rivoluzioni della Direzione Strategica
dell'autonominatosi nucleo d'acciaio del Partito Comunista Combattente - quella violenza diffusa
che è in realtà una pratica militante, versione armata, dell'illusoria "rivoluzione domani". Su pregi
e difetti di queste forme di lotta, su cui siamo ben lungi dall'esprimere un giudizio
indiscriminatamente negativo, la discussione è tutta aperta, anche se a nostro avviso dovrebbe
essere condotta con maggiore equilibrio e rigore morale, dal momento che la storia avrebbe
dovuto insegnarci quale rapporto delicato e non facilmente prevedibile vi sia tra uso del mezzo
violento e crescita rivoluzionaria e libertaria delle coscienze, della coerenza cioè sia etica sia
tattica e strategica tra mezzi e fini. Finché, tuttavia, qualcuno fantastica di "sviluppo dello scontro
a livelli inimmaginabili" (da leggersi con un crescendo di voce in falsetto e magari con inflessione
artatamente dialettale, da falso proletario), vi si può semplicemente leggere un eccesso di
"ottimismo" così come forse qualcuno di noi eccede in "pessimismo".
Quando però teorizza il colpire nel mucchio, si supera, credo, il limite tollerabile dell'artificio
retorico costruito su misura di un improbabile catastrofismo, per cadere nell'irresponsabilità di una
eccitazione ed autoeccitazione emozionale che sono più materia di psico-analisi che di analisi
politica.
Per ora, in quella recensione, si pone ancora un limite all'indiscriminazione della violenza: nel
mucchio della "borghesia". Ma che cos'è la borghesia oggi? Se la colpa di chi si uccide non è
individuale ma "oggettiva", di classe, come si stabilisce dove inizia e dove finisce quella
"borghesia"? Laddove, come nelle strutture tardo-capitalistiche italiane, il potere è diffuso, diluito
in una sfumatura continua così come diffusi, diluiti, intrecciati sono il privilegio, il parassitismo,
dove lo stato è interiorizzato, dove il "cuore dello stato" è anche negli sfruttati perché non esiste
più una cultura proletaria estranea ed antagonistica allo stato, qual è questa borghesia da colpire
nel mucchio? È vero che a livello d'astrazione sociologica è possibile ancora individuare - come
abbiamo fatto anche noi - una classe dominante (ibridamente capitalistica e tecno-burocratica) che
occupa il vertice della piramide sociale, ma un conto è individuare le barriere di classe in sede
analitica, un altro è identificarle operativamente.
È, in questa situazione, terribilmente facile dare di "borghesia" una definizione ideologica e
psicologica dilatabile a volontà. E allora, per quale motivo ci si fermerà qui, nella escalation
terroristica e non si potrà procedere oltre e dichiarare che altri "salti qualitativi" sono possibili? Ad
esempio si può sostenere (a parole si può quasi tutto) che ammazzare delle casalinghe o degli
operai significa: 1) colpire individui "oggettivamente" colpevoli (le casalinghe votano D.C. e
danno retta al prete ed a Gustavo Selva, gli operai si "fanno stato" con il P.C.I. e i sindacati...), 2)
costringere gli ignavi sfruttati a risvegliarsi dal sonno televisivo e consumistico, metterli di fronte
alla oggettiva brutalità mascherata del sistema, 3) chi più ne ha più ne metta. E con quali
motivazioni si potrà negare la validità di colpire nel mucchio l'odioso ceto medio?
Fermiamoci qui, perché nostra intenzione non è - per i motivi già esposti - tanto di discutere e
dunque di argomentare punto per punto e ribattere e documentare, quanto di testimoniare la
nostra indignazione e la nostra preoccupazione. Facciamo solo una considerazione finale. Ci pare
di tornare indietro di dieci anni, al 1969, quando un manipolo di "arrabbiati" gridava nelle piazze
"bombe-sangue-anarchia" e qualche esaltato irresponsabile in vena di nichilismo parolaio
discettava sull'utilità o meno di mettere bombe nelle banche - tempio del capitale - e nei grandi
magazzini - tempio del consumismo -. Poi venne la strage di Piazza Fontana, fatta da fascisti e
servizi segreti - meno parolai - e attribuita agli anarchici. Non vorremmo ritrovarci per altri cinque
anni a dovere impegnare tutte le energie del movimento per spiegare di essere nuovamente vittime
della "provocazione". E qui ci viene irresistibilmente alla mente l'immagine fotografica di Alfredo
Maria Bonanno (pubblicata su uno opuscolo edito da "La Fiaccola" alcuni anni fa) che tiene un
comizio dall'alto di un palco su cui spicca una grande scritta: Le bombe le mettono i fascisti.
Peggio ancora. Dato che si va riflettendo anche in seno al movimento anarchico la
disperazione/disgregazione dell'estrema sinistra (effetto della Grande Delusione delle aspettative
rivoluzionarie a breve termine), che va sostituendo alla vitale creatività delle sue più felici
espressioni una mortifera distruttività-outodistruttività (omicida-suicida), dato che esistono oltre
ai teorici da tavolino della "violenza proletaria" anche protagonisti in carne e ossa e nervi
dell'angoscia esistenziale, dell'emarginazione e dell'estrema ribellione contro una situazione che
appare indefinitamente "bloccata", non vorremmo che qualcuno prendesse alla lettera i
vaneggiamenti sul colpire nel mucchio e emettesse, poniamo, una bomba in un bar di Piazza del
Duomo a Milano o - perché no? - in via Etnea a Catania.
Non basterebbe allora, a scaricare la terribile responsabilità morale, scrivere qualcosa di simile a
quanto il Nostro scrisse in occasione dell'attentato alla questura di Milano, che è la più recente
approssimazione di attentato nel mucchio (ma non poi tanto "nel mucchio" e semmai
involontariamente). Allora noi, pur condannando il gesto, difendemmo la figura dell'autore contro
le troppo facili e comode calunnie di matrice sinistrese. Non così l'Apocalittico, come risulta alle
pagine 429-431 dei suoi scritti editi e inediti, raccolti nella preziosa antologia La dimensione
anarchica. Segno anch'essa del tumultuoso mutare dei tempi: in epoca di deplorevole modestia
borghese, queste antologie si pubblicavano postume e comunque non a cura dell'autore....
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