Rivista Anarchica Online
Contro il gatto e la volpe
di Palluntius
Qual è il limite tra conformismo ed anticonformismo? Dov'è la "terra di nessuno" della "normalità"
che divide le due cose? Ma poi quale normalità? Ognuno di noi si è spesso, se non sempre, sentito
autorizzato a giudicare anormali tutti coloro che non rientravano nel proprio schedario di
normalità, con tutte le sue caselle di comportamento, abbigliamento, ambiente, idee politiche,
gusti musicali, ecc. ecc.. Ormai è d'abitudine dividere la gente ed il suo manifestarsi in "Out" o
"In". La paura del diverso? O forse la propria paura ed incapacità di cambiare. Non è il caso di
iniziare il solito piagnisteo sull'impossibilità di comunicare a causa della rigidezza mentale di noi
tutti, a causa degli strati di paraocchi preconcettuali che spesso ci lasciano solo uno spiraglio, una
finestrella millimetrata in cui riusciamo ad inquadrare solo una sagoma ben precisa con determinati
contorni, con determinate caratteristiche che corrispondono a schemi complicatissimi, contorti,
che si fondono e si dividono. Io non potrò mai entrare nell'inquadratura di una femminista
cosiddetta "dura", la protuberanza della mia sagoma all'altezza dell'incrocio delle cosce fa scattare
in lei il campanello d'allarme. Tante piccole donnine guerrigliere corrono, nel suo cervello ai posti
di combattimento: "Maschio a babordo!". È rischioso attaccare appunto con un esempio del
genere. La donna non si tocca! E così se prima si toccava troppo, adesso non la tocca più
nessuno. Non è vero, però tutti dicono di non toccarla nemmeno col pensiero. Avrei tanto voluto
intervenire nel dibattito sul numero scorso che riguardava la donna. Ero anche facilitato dal fatto
di far parte della redazione. No, doveva essere fatto solo dalle donne. Quando mi sono ritrovato
completamente, come opinioni, nell'intervento di Rossella, ho pensato: "E se questo articolo
avesse avuto una firma maschile?".
Già, cosa succede quando a dire le stesse cose che pensiamo noi, non è uno dei "nostri"? Altro
esempio: spinto dal mio spirito missionario-ottimista retaggio di una diseducazione cattolica mi
impegolo sempre in discussioni con chiunque vada un attimo al di là del grugnito, su anarchia,
anarchismo, rivoluzione, ecc. ecc.. L'altro giorno mi capita con un mio collega di lavoro. Dopo
lunghissime diatribe mi dice alla fine: "Va bene l'anarchia è una soluzione umana (testuali parole)
sono d'accordo con te che è la soluzione ottimale, ma come si fa per arrivarci?". Io, tutto
gongolante: "Semplice, con l'azione diretta!". Eccolo lì! In verità in verità vi dico.... Ma chi
detiene i diritti d'autore sulla verità. Quali esempi realizzati abbiamo di organizzazione anarchica,
che siano durati più di dieci anni? La Spagna? La colonia Cecilia? Kronstadt? Ecco il punto; quasi
sempre chi è convinto di essere dalla parte della verità lo è solo in teoria. Ma se l'anarchia è una
cosa così bella, così liberatoria, così umana cosa aspettiamo a realizzarla? Se essere donna è così
bello perché le donne sono così piene di problemi di inferiorità, di crisi proprio come gli uomini?
Ma perché c'è lo stato, no? Ma perché c'è il maschio che opprime e sfrutta no?!
È vero, ma proviamo a rovesciare il problema se non esistesse lo stato cioè il sistema di potere, se
l'uomo inteso come maschio non fosse in una posizione di dominio rispetto alla donna, o
addirittura, assecondando il desiderio della femminista più inferocita, non esistesse affatto, la
donna sarebbe libera e felice? Esisterebbe una società anarchica funzionale e libera? Ecco.
Proviamo ad eliminare per ipotesi la condizionale, ciò che impedisce la realizzazione di una
condizione ottimale, questa condizione si realizzerebbe automaticamente? No! e lo dico
decisamente. Proprio perché siamo tanto impegnati a cercare di eliminare il fattore di blocco, o
meglio ciò che ognuno di noi identifica o vuole identificare con la causa prima che impedisce la
realizzazione dei nostri desideri delle nostre aspirazioni, sociali, esistenziali ed emozionali che
siano, che finiamo per sclerotizzarci, per conformarci cioè ad una immagine stereotipata di quella
che è la situazione ottimale, l'aspirazione perfetta ad una realtà perfetta.
Ecco che allora va benissimo il precotto, il preconfezionato. Basta che abbia un odioso nemico da
combattere. Per ogni fetta della nostra esistenza è già pronta una verità assoluta confezionata
sotto vuoto con allegate le istruzioni per l'uso: cioè le condizioni perché questa realtà felice si
realizzi, cioè il nemico da combattere, che più grosso e più cattivo è, più importante è la realtà
felice da conquistare. Qualcuno prima o poi stilerà una classifica con tanto di obiettivi strategici o
meno, tanto di fantocci da abbattere con le palle di pezza delle nostre teorie-verità-assoluta. È
come camminare su delle ragnatele in qualcuna ognuno ci casca. Chi è senza peccato scagli la
prima pietra, che gliela ritiro perché è un bugiardo. È più facile lottare per questioni di principio,
che lottare per conquistare o difendere una realtà concreta. Specialmente quando questa realtà
sottintende un impegno duro, costantemente onesto, con se stessi e con gli altri. È più facile
sparar dogmi soprattutto per gli altri.
La realtà, del resto, è come sempre molto più complessa ed articolata. Certo ci sarà sempre chi
cercherà di spacciarmi verità assoluta a caro prezzo o a basso prezzo. Qualcuno che vorrà che mi
conformi alle sue idee sulla lotta rivoluzionaria, sui rapporti con l'altro sesso, sui rapporti con me
stesso, altrimenti non sono un compagno, non sono uno che comunica, non sono un uomo aperto,
non sono me stesso. Ci saranno sempre i cultori della critica pura, magari violenta, sprezzante,
unicamente distruttiva, ma che, con la scusa che non è una cosa abbastanza rivoluzionaria o
perfettamente aderente ai canoni del manuale del perfetto compagno, non muovono un dito, anzi
magari ti accusano di essere un borghese perché hai un lavoro fisso e che quindi è giusto che loro
ti scrocchino anche l'anima e che coltivino l'arte di arrangiarsi sulle tue tasche e sulle tue spalle. Ci
saranno sempre aspiranti gatti e volpi venditori di verità, ma questo non vuol dire che debbano
esserci di conseguenza sempre pinocchi idioti pronti a pendere dalle loro labbra o dai loro breviari
in brossura. Questo è il punto focale del problema: sono peggiori e più colpevoli i gatti e volpi &
C. o i pinocchi sempre pronti a farsi fregare i loro cinque zecchini di ragionamento? È più
colpevole e ipocrita chi inventa i dogmi o chi li accetta, soprattutto a parole, e li difende a spada
tratta contro ogni possibile deviazionismo o ismo qualsivoglia?
Esistono per di più due tipi di pinocchio: quello infantile che per superficialità e spesso in buona
fede (chissà) accetta il suo bel costumino e la sua bella mascherina di questo o quel baraccone
venditore di verità; e quello molto più pericoloso e ipocrita che dopo essere passato per la prima
fase di bagonghismo prende coscienza della propria boccalonaggine che, per preciso calcolo di
comodità ideologica esistenziale o altro, continua a fingere di non sapere, continua a fare la parte
delle tre scimmiette e magari diventa più duro più spietato contro i nemici dell'ideale, li combatte
fino a farne l'unica ragione della sua militanza. E qui si ritorna al discorso iniziale. Ma quello che
più preme è il discorso del conformismo tra anarchici, dall'ambito più vasto del movimento a
quello più ristretto, ma non per questo meno complicato dei rapporti tra compagni. La prima
impressione che si ha osservando gli anarchici dall'esterno è quella di un gruppone di amici sempre
pronto a far quadrato per difendere l'idea, o il compagno perseguitato.
E fin qui niente di male. Non sia mai detto che la solidarietà verso i compagni perseguitati dal
sistema sia una cosa disdicevole. E neanche sia mai detto che è sbagliato che chi difende le idee in
cui crede sia un conformista. Ma è veramente così? Voglio dire, veramente è un fatto cosciente o
piuttosto non è un'abitudine? Ma l'abitudine non è conformismo. No, ma è conformismo lo spirito
di chiesuola un po' (un po' tanto) martirizzata, che quando può si prende la sua rivincita, magari
durante un dibattito, tifando unilateralmente per il "nostro" campione che deve distruggere e
demolire il nemico e le sue idee. Diventa conformismo l'andare a rimorchio delle iniziative degli
altri, non perché è giusto esprimere la propria opinione su quell'argomento, ma perché tutti ne
parlano e siccome si va a rimorchio si arriva magari con un paio d'anni di ritardo facendo anche la
figura dei pippa. È conformismo giocare a fare la figura del ribelle quando magari non se ne ha il
coraggio, o peggio si ha la certezza di propugnare una realtà di là da venire. Allora persino
l'utopia assume un significato negativo. Tanto non si realizzerà mai e allora cosa costa farne la
propria bandiera? Via ragazzi non fate quella faccia cosa volete che siano questi problemi di
fronte al tremendo conformismo della massa. Di fronte al travoltismo, di fronte al rimpirlimento
totale di una gran parte dei giovani?
Certo che allora siamo anche dei cretini, abbiamo scelto l'idea più difficile da confermare. L'utopia
più umana, che ci brucia dentro proprio perché la vediamo così reale, così palpabile, così difficile
da trasformare in un giochetto di pensierini e tanti bei "Noi l'avevamo detto" da distribuire agli
eretici. Forse era meglio che anche noi diventassimo tanti piccoli burattini con la brillantina sui
capelli, magari ci divertivamo di più. O no?
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