Rivista Anarchica Online
Le cattedrali della salute
a cura della Redazione
Ma a che cosa serve l'ospedale? Abbiamo rivolto questa domanda a due compagni che ci
lavorano: Giuliana ed Enzo. Altri ospedalieri non hanno voluto rispondere perché sono un po'
diffidenti verso la rivista e in genere verso gli "intellettuali" del movimento. Personalmente
condivido questa diffidenza e proprio per ciò ritengo che momenti come questo, in cui un
ausiliario e un'infermiera parlano in prima persona da queste pagine dovrebbero essere
moltiplicati: è ora o no di esprimere una cultura proletaria? E come la esprimiamo, cucendoci
la bocca? Dichiarandoci ignoranti? O gridando finalmente quello che pensiamo?
Enzo: Io non ritengo che l'Ospedale abbia una funzione... o meglio, non so individuarla.... Tutti
credono che all'ospedale verranno curati, invece secondo me l'ospedale cura solo in minima
parte.... Non ha nemmeno una funzione di custodia: si cerca di dimettere al più presto che si
può.... E non mi sembra nemmeno che l'ospedale sia quello che dicono molti... un posto dove si
ricuciono gli operai per renderli di nuovo buoni per il lavoro. Queste mi sembrano tutte etichette
che vengono appiccicate all'Ospedale, che in ultima analisi a me sembra solo una struttura che
cerca disperatamente di conservare se stessa... isolata dal resto della società, con cui mantiene un
rapporto molto difficile, che diventa anche difficile interpretare....
Giuliana: L'ospedale cura? Lavorando nelle medicine è una domanda che ti fai spesso: nei reparti
di medicina molti pazienti sono affetti da tumori, da cirrosi epatica: che sono malattie a sfondo
sociale. L'ospedale interviene nella fase acuta di queste malattie, ma non si collega con l'esterno,
con la loro origine, con la fabbrica che ha causato il tumore, con il quartiere ad alta presenza di
cirrotici. E lo stesso si può dire per i tossicomani, gli asmatici.... E non affronta nemmeno in
generale i problemi della vita dell'operaio, che ormai non vede altro, oltre al lavoro, che queste
evasioni squallide: l'alcol, la droga, per cui si "fa" o si sbronza....
Questo mancato intervento dell'ospedale è anche relativo alla persona ricoverata? Voglio dire:
quando un tossicomane, un cirrotico viene ricoverato, c'è qualcuno che si preoccupa della
nocività del suo ambiente, dello squallore della sua vita, ne parla con lui?
Giuliana: Nel nostro ospedale proprio no, e non credo nemmeno negli altri grandi nosocomi
milanesi.... Inoltre l'ospedale fa dei pazienti delle cavie per i medici. Io ho visto rappresentanti di
ditte farmaceutiche lasciare campioni di farmaci non ancora in commercio, ho visto somministrare
questi farmaci ai malati senza avvertirli che su di loro si stava facendo un esperimento. Ho anche
visto fare una serie di esami che non adempivano alla funzione di diagnosi-cura, ma ad altro: una
volta ho spiegato ad un malato che cosa fosse la laparoscopia, un esame dell'addome che egli
avrebbe dovuto fare secondo le prescrizioni del medico. Questo malato ha verificato con un
medico se le informazioni che gli avevo dato erano vere, e poi si è rifiutato di fare questo esame,
perché a lui non serviva: il suo addome era pieno di aderenze e con le aderenze non si riesce a
vedere bene, quindi l'esame non avrebbe migliorato la diagnosi.
Ma allora perché glielo facevano?
Giuliana: per esempio perché un medico del reparto aveva come argomento della tesi di specialità
le laparoscopie.
I vostri esempi mi hanno fatto capire molto bene perché avete dei dubbi sul fatto che
all'ospedale si sia curati, sulla funzione curativa dell'ospedale. Non ho capito perché respingete
l'analisi, fatta da alcuni gruppi marxisti-leninisti, secondo la quale l'ospedale è un posto dove si
ricuce l'operaio per rimandarlo al lavoro.
Giuliana: Non so però se è almeno economico mettere delle pezze che poi si strappano.
Enzo: Io credo che le malattie oggi hanno un aspetto diverso, sono diverse da quelle che c'erano
quando è stato inventato l'ospedale. Finisce che spesso in ospedale di cura non si fa quasi niente,
per cui uno entra malato ed esce malato, oppure, se guarisce, lo fa perché sarebbe comunque
guarito, non perché l'ospedale l'ha ricucito, ma al massimo perché ha goduto di un periodo di
riposo.
Giuliana: Però io credo che ci manchino... a me mancano gli strumenti per capire se e fino a che
punto una persona è rattoppata o guarita. E mi mancano anche i mezzi per capire se il merito è
dell'ospedale o se sarebbe guarita comunque: dunque comunico soltanto impressioni.
Non avete dati, statistiche, elementi su cui giudicare?
Giuliana: Le statistiche le fanno, ma non se ne sa niente.
Enzo: Per quanto ne so io, poi sono statistiche richieste dagli enti per giustificare le spese: ti
immagini che attendibilità hanno?
A questi dati, per quanto grossolani, o alle stesse cartelle cliniche, voi non avete accesso?
Enzo: Noi ausiliari, ufficialmente no: potremmo sempre scorrerli facendo pulizie, ma... non
abbiamo diritto alla loro consultazione.
Giuliana: Se tu lavorassi in corsia, ti accorgeresti del come i dati sono riservati ai medici, e nel
nostro ospedale con i medici non ci parliamo nemmeno.
Enzo: e loro si guardano bene dall'informarci. E poi ci sono motivi anche di interesse. Esiste una
tale routine, un tale menefreghismo del medico, che ti dà solo l'impressione che il malato si curi
esclusivamente con le proprie risorse.
Giuliana: Esiste un registro, con le entrate, le uscite, le diagnosi le principali terapie, ma non è
mai discusso in reparto, quanto meno per dire: come stiamo lavorando? Funziona il nostro
lavoro?
A quanto ho capito, allora, esiste una contraddizione fra la sicurezza con cui dimostravate
all'inizio che l'ospedale non cura e quello che affermate adesso, che vi mancano gli strumenti
per dire che cosa faccia.
Enzo: diciamo che non abbiamo le statistiche per dire a che cosa servano le operazioni che si
fanno in ospedale, ma che resta la sensazione che alcune cose siano proprio riti e in realtà non
servano a niente.
Quanto mi avete detto contrasta con la mia esperienza. Ho lavorato quasi quattro anni in
ospedale, ho notato qualche ritualità, ma mi sembrava che la preoccupazione di "ricucire" ci
fosse, e fosse rilevante. Da che cosa dipende questa differenza secondo voi?
Giuliana: Io credo che dipenda dai reparti: ho lavorato per un certo periodo nel reparto di
rianimazione di Rho, dunque un ospedale "normale": non un ospedale-pilota. Lì era tutto diverso:
c'era un maggior rapporto fra laureati e personale paramedico, e inoltre un'attenzione vivissimia ai
malati. Ma in rianimazione il rapporto personale/malato è alla peggio di un infermiere ogni due
malati, mentre nei reparti di medicina è di uno ogni ventotto o trenta, quando va bene. Capisci che
non è la stessa cosa occuparti di due persone o di trenta.... Ma in quasi tutti i reparti, tranne
dialisi, rianimazione, unità coronarica, il rapporto è come nelle medicine.
Enzo: Ed è proprio nelle medicine, nelle piccole chirurgie, nelle lungodegenze che questi riti senza
senso sono esasperati.
Giuliana: Per esempio nelle medicine a mezzanotte fai tutte le glicosurie (cioè vedi se nelle urine
dei pazienti c'è dello zucchero), alle sei misuri la temperatura di tutti.... Ma non è detto che queste
cose servano a tutti i pazienti, sono utili solo per alcuni. Quindi si assiste ad una ritualità che è
priva di significato, o che almeno non risponde ai suoi scopi dichiarati. Si perdono sei-sette giorni
negli esami di routine prima di mettersi a pensare seriamente a quale potrebbe essere il problema
del malato.
Quindi da un lato avete l'impressione di una routine che non si sa bene a che cosa serva, ma che
sicuramente non serve ad accelerare i tempi di diagnosi e cura. Chi è il maggior responsabile di
questa routine?
Enzo: un po' tutti: il medico, che se ha uno schema fisso da seguire finisce in due ore il giro di
corsia e se ne va, l'infermiere, che una volta compiuti i riti di dovere si sente "a posto", più
rilassato e tranquillo, l'aiutante, che così non è coinvolto nei problemi del malato. Pensa solo che
cosa succederebbe se invece di fare il giro della camomilla alle otto di sera l'aiutante si mettesse a
fare la camomilla solo quando un malato la chiede: avrebbe più traffico, e dovrebbe considerare il
problema di quel malato, non di uno-che-è-in-corsia-con-il-diritto-della-camomilla. E perché
camomilla e non tè, o infuso di menta, o latte? Capisci che l'ospedale diventerebbe per il malato...
Se ho ben capito tu pensi che la routine sia un mezzo che ti salva dall'ansia e dai sensi di colpa
che altrimenti proveresti, costretto come saresti a considerare il malato come essere umano. Ma
non è possibile che la routine abbia anche una funzione politica e sociale?
Enzo: Sociale certamente: se il malato potesse fare delle richieste, se ci fosse elasticità nelle ore di
visita, nella richiesta di cibo, di cure... potrebbe anche rendersi conto di tutta una serie di cose che
non vanno e mandarti a quel paese.... Dal punto di vista politico forse il fatto che si curi solo
passando attraverso certi schemi sempre uguali vuole significare che il giudizio e la gestione della
malattia deve rimanere al tecnico... cioè all'ospedale. Che non può essere il malato a decidere se è
guarito o no.
Giuliana: Forse anche un'altra cosa. La mia impressione è proprio che l'ospedale, così com'è
adesso almeno, potrebbe tranquillamente chiudere salvo che in rarissimi casi.... Solo il paziente
acuto ha bisogno di una struttura, di un posto specializzato che lo ospiti e lo curi. Negli altri casi
l'ospedale potrebbe benissimo essere sostituito da servizi territoriali o da altre cose....
Quindi per voi l'Ospedale è morto? Potrebbe chiudere? E perché resta aperto?
Giuliana: non può morire per i pazienti in fase acuta.... Non so né se è morto né se può restare
aperto....
Enzo: Per me si sente proprio, invece, la puzza del cadavere.... Per evitare la putrefazione i tecnici
più furbi corrono verso i reparti superspecializzati: rianimazione, alta chirurgia, dialisi, unità
coronarica ecc., ma anche qui non si notano segni di una nuova medicina, di un vero
rinnovamento: il vuoto di idee è solo mascherato dall'alto livello tecnologico.
Ma, se è così.... Voi, dentro nell'Ospedale, che cosa ci fate?
Giuliana: Io me ne vado. Me ne vado, capito? Intendiamoci, degli spazi forse ci sarebbero, ma
per me..., per me come individuo intendo, per i problemi che mi sento dentro, questi spazi sono
ormai inagibili: i turni di lavoro, il tipo di lavoro stesso che sei ridotta a fare: limitarti a dare la
pastiglia, a fare l'iniezione o il prelievo, senza rapporti con il malato, con i medici che non
collaborano.... Io non reggo più. Sarò forse infantile, ma quando mi sono iscritta alla scuola di
infermiere professionali immaginavo un lavoro diverso: collaborazione con il medico, rapporto
con il paziente. Pensavo che in Ospedale veramente si curasse. Ora vedi il menefreghismo, la
speculazione, ti senti frustrata, ti cerchi altri spazi dove agire. Puoi tentare dal di dentro, ma io
non ce la faccio più.
Enzo: Io voglio restare ancora dentro, invece, per fare alcune cose: politicizzare il personale, al di
là delle lotte rivendicative, far sentire a tutti questa tua esigenza di avere un lavoro umano, e
quindi di cambiare la società che te lo nega. Questo comporta interventi in relazione (assemblee di
reparto, discussioni, propaganda) e di riappropriazione delle conoscenze che il personale ha....
Spesso conosciamo cose, ma ce ne freghiamo di approfondirle e di renderle collettive, mentre
questo servirebbe a darci maggiore dignità sul piano dei rapporti con i medici e a iniziare dei
discorsi autonomi sul modo di curare. Inoltre è necessario uscire dall'ospedale sul territorio,
vedere sul territorio quali sono le classi potenziali alleate, capaci di fare un discorso nuovo alla
salute, di sostenerti nelle lotte, di far progredire le idee, di far crescere un discorso politico
globale.
Un'ultima domanda: le lotte del giugno e del settembre '78 hanno cambiato qualcosa in
Ospedale? E che cosa?
Giuliana: Dopo le lotte ho notato in molti come una delusione: ti aspetti cambiamenti molto
diversi, molto più grossi di quelli che invece in realtà ci sono.... Ho sentito molti dire che
vorrebbero lasciare l'Ospedale. Io mi chiedo se questo dipenda dal grado di coscienza politica
delle persone.... Durante le lotte molti hanno avuto una crescita di coscienza.... Beh, io subito
dopo mi sono ammalata e poi ho incominciato a sentire questo rifiuto.... Enzo dovrebbe saperne
di più....
Enzo: come faccio a dire se quello che so io è tutto quello che sta succedendo in Ospedale? Non
so: a me sembra che siano successe alcune cose: i più conformisti, quelli che si erano schierati con
i baroni e potenti adesso mi sembra che si sentano mancare il terreno sotto i piedi, vedono
scomparire l'autorità, gli straordinari, le mance, la tranquillità della routine, e se ne vanno.... Poi
c'è una componente che si è avvicinata ai problemi, anche a quelli rivendicativi, per la prima volta
durante le lotte, e ha capito che deve muoversi in prima persona. Alcuni hanno anche capito che
non basta muoversi per le venti lire in più, e si pongono problemi sociali e politici, tipo quelli del
rapporto tra infermiera e malato. Il maggior scoraggiamento l'ho notato nei compagni: forse si
aspettavano di più. Nei neopoliticizzati invece non manca l'entusiasmo, c'è una specie di irrisione
diffusa verso il dogma e l'"autorità" che prima non ti sognavi neanche, c'è una voglia di muoversi,
di fare. Certo, non si può prevedere che cosa succederebbe se su queste persone, ancora così
fragili, si scatenasse una forte repressione. Ma per intanto c'è molto lavoro da fare.
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