Rivista Anarchica Online
Atti individuali e "terrorismo"
di Gianfranco Bertoli (carcere Badu e Carros - Nuoro- 12.3.1979)
(...) Nel corso di quella recensione si sostiene che con l'attentato del 12 febbraio 1894 si realizzò
un "salto di qualità" consistente nell'aver voluto "colpire nel mucchio". Decisione questa che
includerebbe una "analisi del concetto di classe" talmente "attuale" da poter affermare che un
gesto analogo, oggi, non solo sarebbe un fatto valido e positivo ma costituirebbe anche un
"contributo teorico" al movimento. Questa analisi attribuita all'Henry si svilupperebbe
emergendone sì da poter essere compresa compiutamente, secondo il Bonanno, "non tanto dalle
sue lettere o nello stesso dibattito processuale ma proprio nel gesto in sé".
Certo ogni atto umano, che sia frutto di una decisione, presuppone un'analisi, più o meno
approfondita, sviluppatasi nel cervello dell'autore ed alla quale può attribuirsi l'origine della sua
scelta comportamentale. Se vogliamo, però, tentare di risalire da un fatto alle sue motivazioni per
giungere alla comprensione sarà necessario guardarci dal considerare il fatto stesso avulso dal
contesto storico-sociale in cui si è verificato e dalla personalità dei protagonisti. In un gesto
potremo vedere una riprova o una smentita della forza delle convinzioni personali del
protagonista, della di lui coerenza con le sue teorie e le conclusioni cui lo hanno portato le sue
analisi e le sue deduzioni, ma ciò non ci dà nessuna conferma circa la validità "oggettiva" di
esse.Né, tanto meno, è possibile dalla dinamica del fatto in sé arrivare a riconoscere in modo
univoco il significato dello stesso negli intenti dell'autore. Come sarebbe possibile considerare e
classificare come analoghi gesti che pur se attuati con modalità assai simili sono del tutto
inassimilabili tra loro per la diversa personalità e le differenti motivazioni di chi li ha attuati e per il
momento in cui si sono verificati? Che cosa hanno in comune tra di loro, per esempio, il gesto del
monaco Ravaillac e quello di Sante Caserio? Eppure l'arma usata, la dinamica del fatto, le vittime
dell'attentato (in entrambi i casi il capo dello stato in carica) la stessa tragica fine degli attentatori
presentano caratteristiche comuni. È forse possibile catalogare e valutare nello stesso modo le
"rapine a mano armata" di cui furono autori personaggi tanto diversi per carattere, motivazioni,
scopi, come: Jules Bonnot, Giuseppe Stalin, o... John Dillinger? A voler continuare con degli
esempi paralleli di gesti apparentemente simili ma che non hanno alcun legame di affinità si
potrebbe andare avanti a lungo (Gaetano Bresci e Gavrilo Prinap, Felice Orsini e Gino Lucetti,
ecc.).
Ogni avvenimento porta con sé, nel suo rapporto con il sociale, tre diversi tipi di immagine. Vi è
una "verità oggettiva", che consiste nel fatto in sé, nel suo svolgimento materiale e cronologico.
Vi è poi una prima "verità soggettiva" rappresentata da quello che l'atto compiuto è stato, o
voleva essere, per chi ne fu l'autore. Vi è poi un'ulteriore verità "soggettiva" che nasce dalle
opinioni, dai giudizi e dalle impressioni di chi vi si è trovato coinvolto o ne è stato, comunque,
interessato. Questo terzo aspetto, che è poi, paradossalmente, quello che finisce per assumere il
peso e l'importanza maggiore dal punto di vista dell'incidenza sul sociale, costituisce quasi sempre
la "verità" meno vera e più ambigua e spesso mistificante. Anche a voler prescindere
dall'intervento di manipolazioni, strumentalizzazioni e di interpretazioni di "comodo" da parte di
persone comunque interessate a portar acqua al loro mulino, è evidente che molto difficilmente è
possibile accingersi all'esame di un qualsiasi fenomeno senza portare con sé tutto un bagaglio di
idee, convinzioni, prevenzioni, disposizioni caratteriali, che condizionano interpretazioni e giudizi.
Il pericolo cui è assai difficile sfuggire è quello di cadere nella tentazione (dalla quale nessuno è
immune e cui il Malatesta rimproverò un giorno di indulgere lo stesso Kropotkin) di partire da
una tesi aprioristica che ci piace, per poi cercare nell'analisi tutti, e solo quelli, gli elementi che
confermano, o sembrano idonei a confermare, la nostra tesi.
A questo procedimento (che è poi quello adottato da sempre da avvocati e da pubblici ministri) mi
sembra abbia fatto ricorso anche Bonanno nella sua recensione. Egli, infatti, forse spintovi dalla
continua gara con se stesso nell'escogitare tesi "originali" e dal suo gusto per il terribilismo
verbale, si appiglia, estrapolandole dal contesto, ad alcune affermazioni di E. Henry (che a me
pare debbano essere considerate come delle argomentazioni di tipo "etico" che l'Henry porta
avanti per giustificare con se stesso il suo atto di rivolta incondizionata e disperata contro tutto e
contro tutti) per interpretarlo come la risultante di una "analisi del concetto di classe" ed una
proposta tattico-strategica permanente.
Per dimostrare l'inaccettabilità di questo discorso basterebbe, secondo me, considerare a quali
aberranti conclusioni ci porterebbe il volerlo condurre alle sue estreme conseguenze logiche. Se,
infatti, ci ponessimo nell'ottica di una "colpevolezza" oggettiva e proseguissimo, sulla falsariga di
Henry (quando dice: "E non soltanto essi ma tutti coloro che sono soddisfatti dell'ordine
attuale...") estendendo questo concetto di "colpevolezza oggettiva" su tutti coloro che, nella
società attuale, subiscono ed interiorizzano i condizionamenti dei "mass-media" e le influenze
delle burocrazie politiche e sindacali, dovremmo allora salutare come "oggettivamente
rivoluzionari" anche i fascisti di Piazza Fontana o di Piazza della Loggia (!).
Quanto a me, sono ben lontano dall'illusione di essere immune da quella unilateralità e "faziosità"
di giudizio che riscontro in molte analisi altrui. La semplice constatazione che le mie opinioni di
oggi non coincidono con quelle che, in un passato non troppo lontano, sono state per me delle
"certezze", mi fa vedere come neppure oggi io possa essere del tutto certo della giustezza del mio
attuale punto di vista. Comunque, oggi, sono propenso a considerare il fenomeno sociale
rappresentato dai numerosi attentati anarchici in Francia nel biennio 1892-1894 come una serie di
reazioni individuali al senso di impotenza e di isolamento del movimento rivoluzionario, nonché al
cozzo contro una realtà oppressiva e repressiva che appariva ulteriormente e particolarmente
spietata. In sostanza l'altra faccia di quello che, in un'altra epoca di "riflusso" delle speranze
rivoluzionarie, ha spinto molti compagni al rifugio nel "personale", alla "soluzione droga" oppure
in braccio ai vari "guru orientali".
In questo senso io credo che la definizione di "terrorismo" attribuita agli attentati individuali di
quel periodo (anche se di questo termine fecero uso autorevoli osservatori e perfino Errico
Malatesta) non sia del tutto esatta ed appropriata. Etimologicamente, infatti, per "terrorismo"
(non possedendo un dizionario italiano traduco qui la definizione in francese del Robert) si
intende: "impiego sistematico di misure di eccezione della violenza per raggiungere uno scopo
politico (presa, conservazione, esercizio del potere). - Insieme agli atti di violenza (attentati
individuali o collettivi, distruzioni) che un'organizzazione politica esegue per impressionare la
popolazione e creare un clima di insicurezza". Ora, comunque la si giri, ciò presuppone un preciso
programma pianificato ed un'organizzazione che lo attui; invece, nonostante si sia fatto ogni
sforzo da parte del potere di allora per ipotizzare "complotti" e una "trama" (magari
internazionale), è cosa assodata che nulla di simile vi fu mai. Gli attentati anarchici nella Francia di
fine secolo non sono definibili come 'anarchici' se non perché tali ne furono gli autori, non perché
vi sia mai stata una "organizzazione anarchica" che li abbia scatenati. Nulla di simile nella Francia
di allora al "Narodnja Volja" in Russia, o all'Irgun Tvai di Menahem Begin, o all'I.R.A. o
all'E.T.A. basca, o ad altre simili organizzazioni di ogni colore ed epoca.
D'altra parte una logica eminentemente individualista emerge evidentemente da tutte le
dichiarazioni dei protagonisti. Consideriamo, per esempio, quanto scriveva Henry nella sua lettera
all'En Dehors: "Quando un uomo, nella società attuale, diventa un ribelle cosciente del suo atto -
e tale era Ravachol -, è perché il suo cervello ha fatto un lavoro di deduzione che abbraccia tutta
la sua vita analizzando la causa delle sue sofferenze: lui solo può giudicare se ha ragione o torto
(...)". A voler continuare con le citazioni di questo tipo si potrebbero riempire pagine su pagine.
Pur inserendosi tutti nello stesso contesto storico ed avendo tutti i protagonisti in comune lo
stesso rifiuto della società esistente e la volontà di combatterla nonché una comune aspirazione
ideale ad un mondo diverso e migliore, l'unico collegamento consequenziale può individuarsi
nell'influenza dell'esempio e nel fatto che alcune tesi e convinzioni personali siano state accettate e
fatte proprie da altri. (A questo proposito si potrebbe ipotizzare un'influenza delle argomentazioni
addotte da Leon Lehothier, circa la "non-innocenza" di ogni singolo "borghese" in quanto tale, su
Emile Henry il quale prima di allora non mi pare avesse mai sostenuto questa tesi).
L'esigenza di mantenermi nei limiti di spazio di una lettera mi induce ad arrivare ad una
conclusione. Già in precedenti occasioni vi ho accennato a mutamenti intervenuti nel mio modo di
pensare: vorrei tanto spiegarmi con chiarezza, purtroppo dubito di riuscirvi. Vi ho già parlato
della mia scarsa lucidità e delle difficoltà che incontro a mettere ordine ai miei pensieri, inoltre lo
stato di esasperazione che mi è dato dalla mia condizione mi genera talvolta delle spinte irrazionali
tali da farmi vivere sulle contraddizioni, dubbi e interrogativi senza risposta.
Le mie opinioni di oggi sono più o meno queste. A livello teorico ogni forma di rivolta mi appare,
in sé, positiva ed eticamente lecita; in pratica, però, passando a considerare l'utilità e l'opportunità
di certi gesti, essi mi appaiono molto discutibili e questa considerazione finisce con l'incidere
anche sull'aspetto etico. Una violenza inutile, anche se fatta in nome di motivazioni ineccepibili, si
risolve in un "rito", in una specie di "sacrificio" ad un dio chiamato "rivolta", e questa è una cosa
da evitare perché è in contraddizione con le stesse idee che professiamo. Diventa un'assurdità. Io
avevo fondato tutto il mio modo di pensare (e di conseguenza di agire) sul presupposto che ogni
forma di dominazione si regge sulla disponibilità di altri alla sottomissione. Da ciò avevo dedotto
che l'unico modo per arrivare all'abolizione di ogni forma di potere fosse la diffusione della rivolta
individuale violenta che propagandosi attraverso l'esempio avrebbe finito con il rendere
impossibile ogni forma di società basata sullo sfruttamento e il dominio. Solo allora si sarebbe
potuto sperare di costruire nuove forme di convivenza sociale su basi diametralmente opposte.
Ora penso che il mio errore di fondo sia consistito nell'aver creduto che, anche se in misura
quantitativamente diversa, più o meno tutti coloro che subiscono l'oppressione sociale avessero
subito le mie stesse frustrazioni ed esperienze e avessero sviluppato uno stesso modo di pensare e
considerare se stessi e la società. La tragica contraddizione di questo atteggiamento è che, se così
fosse, ogni atto di rivolta sarebbe sì immediatamente capito ma in simili condizioni non vi sarebbe
neppure il bisogno di attuarlo. Se è vero, che di fronte alla generalizzazione del rifiuto violento
disposto ad arrivare alle conseguenze estreme, nessuno potrebbe resistervi, è anche vero che -
come sosteneva l'Armand - anche di fronte ad un movimento di resistenza passiva che si svolga su
larga scala e sia voluto e deciso individualmente da ciascuno per sua libera scelta, nessun potere,
nessun governo potrebbe fare nulla e sarebbe impotente. (In teoria, come si vede, tutto è
possibile!).
In ultima analisi quello che si oppone alla realizzazione di una società libertaria non è tanto la
"forza" di chi detiene il potere e la sua "violenza"..., quanto l'adattamento psicologico di massa
alla società gerarchizzata, l'accettazione di uno status quo che appare "necessario": chiamiamo
questo come vogliamo, ma si tratta pur sempre di ottusità mentale, in una parola "stupidità". Ma,
contro l'ignoranza e la stupidità umane, a cosa possono servire le bombe?
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