Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 79
dicembre 1979 - gennaio 1980


Rivista Anarchica Online

Coscienza e TV color
di Eligio Bergia

Credo che per capire i motivi che hanno indotto la Fiat ai 61 licenziamenti, sia necessario partire da una breve analisi della situazione che si è venuta a creare all'interno dei suoi stabilimenti. Essi, pur essendo sempre un luogo di lavoro, e quindi di sfruttamento, di alienazione, di fatica, sono molto mutati, da dieci anni a questa parte: non c'è più la feroce prepotenza dei capi, la disciplina di ferro di vallettiniana memoria, la repressione quotidiana di tutto ciò che ha, anche lontanamente, odore di sinistra. Ci sono invece pignole norme antinfortunistiche che hanno sensibilmente ridotto gli incidenti, in tutte le officine, almeno fino ad un anno fa, i ritmi di produzione erano non eccessivamente pesanti. Anzi, c'è la possibilità, più o meno istituzionalizzata, di non lavorare per almeno un'ora durante il turno, con punte che arrivano, a volte, anche a tre ore. Anche i capi si comportano in modo diverso: al posto dell'ingiuria e della minaccia, hanno imparato ad essere, in apparenza, più tolleranti, più "democratici", pur conservando il proprio ruolo di guardiani della produzione. È difficile dire quando tutto ciò sia cominciato e a cosa sia dovuto. Sta di fatto comunque, che in conseguenza di questo clima, ogni anno, per mancata produzione, assenteismo, sabotaggio cosciente e non, furti e, in generale, per il totale disinteresse operaio verso le lavorazioni, la Fiat perde molti miliardi. La situazione non è migliorata con le recenti grosse assunzioni, attraverso le quali sono stati immessi nei circoli produttivi degli stabilimenti dell'area torinese migliaia di nuovi operai. Costoro sono perlopiù giovani e scarsamente politicizzati, ma sono contraddistinti, in gran parte, da una disaffezione per il lavoro ancora maggiore di quella delle vecchie maestranze. In definitiva, la fabbrica oggi è molto diversa dal luogo di patimenti dell'iconografia operaista classica, ma anche molto lontana dall'ideale dei padroni, in quanto una fabbrica così strutturata non rende quanto potenzialmente potrebbe rendere.
Per spiegare questa crisi di produttività, bisogna anche tener conto di fatti che non dipendono dal comportamento degli operai. Il più importante di questi è senz'altro la crisi del settore auto. Essa è una realtà e, indipendentemente da ciò che viene detto e fatto dai dirigenti e dall'idea che ne possono avere i più, continua ad impedire i redditi elevati degli anni '60. A tale proposito si può ricordare la pressione degli industriali giapponesi, volta ad ottenere l'autorizzazione di esportare in Italia le automobili di loro costruzione, a prezzi ultracompetitivi, capaci di mettere in seria difficoltà le vendite Fiat nel nostro paese. Oppure, si può ricordare che alcuni dei nuovi sistemi di elaborazione messi a punto nei giganteschi stabilimenti di Mirafiori, si sono rivelati scarsamente produttivi. In tale situazione, è evidente che, per la dirigenza tecnocratica della Fiat, il problema di salvaguardare i propri guadagni e il proprio potere, è diventato di estrema importanza.
Il licenziamento dei 61 è stato il primo atto di questo tentativo di ripristinare ordine e produttività nelle officine. Per mascherare le proprie intenzioni, la Fiat ha accusato i licenziati di essere terroristi, in modo da impedire, con questa accusa di comodo, ogni forma di solidarietà nei loro confronti. Per molti versi il giochetto è riuscito e ha messo in seria difficoltà il sindacato, che si è visto costretto a fare i salti mortali per difendere i 61 e contemporaneamente professarsi contro il terrorismo. Infatti ogni discorso, ogni azione sindacale a favore dei licenziamenti ha sempre come inizio una prefessione di fede nelle istituzioni democratiche e una presa di posizione contro il terrorismo.
Da queste difficoltà, in cui il sindacato si è trovato a dover operare, è scaturita l'iniziativa assurda, ridicola, demagogica, e insieme tragica, escogitata dalla triplice per dimostrare ai padroni la propria fedeltà al sistema: quella di obbligare chi, dei 61, vuole la difesa degli avvocati sindacali, a giurare di essere contrario non solo al terrorismo, ma anche a qualsiasi forma di violenza. Con questo atto di fede verso il sistema il sindacato è riuscito a dividere i licenziati, di fronte all'opinione pubblica e alla magistratura, in buoni, che possono anche rientrare in fabbrica, e cattivi, filoterroristi, ai quali bisogna impedire ogni contatto con la classe operaia.
Il terrorismo, usato dalla Fiat per motivare i licenziamenti, non è però l'unica causa del disagio sindacale. L'origine profonda, più generale, va ricercata nella politica sindacale perseguita dalla sinistra e particolarmente dal PCI negli ultimi anni, soprattutto da quando il gran burocrate Luciano Lama, fervente comunista, ha rilasciato (due anni or sono) l'ormai storica intervista a La Repubblica. Da allora nelle fabbriche, l'azione sindacale si è conformata alle direttive di Lama, che erano state impartite, però, sulla base di un'errata valutazione della realtà: il PCI, infatti, era convinto (e credo che lo sia stato fino a poco tempo fa) di diventare a breve scadenza partito di governo, e per tale motivo ha dato ordine ai propri quadri sindacali, tramite Lama, di evitare attriti nelle fabbriche, impedendo in qualsiasi modo iniziative autonome da parte degli operai. Di conseguenza, negli ultimi due anni, ogni trattativa a livello di azienda è diventata una sconfitta per la classe operaia, il sindacato ha sempre indietreggiato dalle proprie posizioni, ha accettato senza fiatare aumenti di produzione, ritocchi alla scala mobile, in poche parole ha rivenduto gli operai pur di evitare che nelle fabbriche si instaurasse un clima di lotte dure. Con il sue enorme potere burocratico è riuscito a fabbricare, se non il consenso intorno alle proprie azioni, per lo meno il silenzio, reprimendo ogni dissenso operaio anche in occasione di svendite abbastanza clamorose.
La triplice ha così accontentato i padroni e il PCI, ricevendo in cambio il permesso di ficcare il naso nei problemi inerenti a investimenti e programmazione, ma all'interno delle fabbriche ha decisamente perduto la fiducia degli operai. Così, quando è scoppiato il caso delle 61 lettere di licenziamento, il sindacato si è trovato in una situazione non facile. In sostanza, il dilemma era o accontentare gli operai o la dirigenza Fiat. Nel primo caso, opponendosi ai licenziamenti da posizioni di lotta dura, aveva l'opportunità di recuperare una parte della fiducia operaia, col risultato inevitabile, però, di perdere quella padronale, che gli avrebbe negato in buona parte l'acquisito potere di decisione e di controllo. In altri termini, il padronato ha dimostrato più volte di non voler trattare con un sindacato che si lascia condizionare dalla base. Ma anche nel caso opposto, il risultato non sarebbe stato dissimile; mostrando eccessiva arrendevolezza di fronte ai licenziamenti, la triplice avrebbe aumentato la propria perdita di credito presso gli operai, e cosa serve, ai padroni, un sindacato che continua a perdere affiliati e credibilità? Non è da escludere che un ragionamento del genere sia passato per la testa dei dirigenti Fiat, nel decidere i licenziamenti. Non è da escludere cioè, che la Fiat fosse cosciente della difficoltà in cui veniva a mettere in sindacato e abbia deciso di licenziare anche per questo.
Il sindacato, com'era logico, ha cercato di salvare capre e cavoli. Da una parte ha fatto qualche ora di sciopero, utilizzando per l'occasione i discorsi duri di qualche delegato incazzato, per accontentare gli operai. Dall'altra, però, ha spedito il solito Lama al Palasport di Torino, perché tranquillizzasse il padronato con il suo discorso sui capi (ormai diventato famosissimo) per dire, in sostanza, che anche se si fanno scioperi e assemblee, il sindacato non intende abbandonare la sua posizione a sostegno del sistema di sfruttamento, conquistata con anni di pompieraggio delle lotte e consolidata con gli ultimi due anni di svendita.
Comunque, anche se i licenziamenti hanno messo nei guai il sindacato, il loro scopo principale non era questo, ma piuttosto quello di portare un grosso attacco agli operai e alle loro piccole libertà. Per la dirigenza Fiat, la posta in gioco è molto importante, nonostante venga mascherata con la solita scusa del terrorismo: si tratta di riconquistare il terreno perduto negli ultimi dieci anni, per ottenere una produttività più elevata, per avere la possibilità di spostare gli operai dove fa più comodo, per ridare potere alla gerarchia, per restaurare l'ordine e la disciplina, per riprendere il potere di licenziare. In tutti i paesi del mondo i padroni licenziano ed assumono chi gli pare, in relazione alle esigenze del mercato (si vedano, ad esempio, i casi della Leyland e della Volkswagen).
Non a caso, mentre ancora si parla dei 61 licenziamenti per "terrorismo", già comincia a circolare la voce che altri, e più cospicui, ne sono in arrivo (1.000, 2.000) con motivazioni di assenteismo e scarsa produttività. Se così stanno le cose, è evidente che i 61 sono serviti solo da "battistrada". E non solo in Fiat: tutta la classe sfruttatrice italiana ha alzato la testa, ed ecco l'Olivetti chiedere 4.500 licenziamenti, ecco l'Alfa cominciare a licenziare per assenteismo, ecco altre ditte minori accordarsi con richieste che certamente non sarebbero state proposte se non ci fosse stata la Fiat a spianarle la strada.
A questo punto, data la situazione, c'è qualcuno che afferma che stiamo tornando ai famigerati anni '50. Io non sono del tutto d'accordo. Negli anni '50 la Fiat reprimeva, licenziava i sovversivi e chiunque si ribellasse alle disumane condizioni di lavoro, ma poteva far emigrare dal Sud una gran massa di disoccupati, senza istruzione, senza un minimo di coscienza, senza altra scelta se non quella tra miseria e industria del Nord, a volte perfino con il "mito" della Fiat: una manodopera che per anni ha garantito grande produttività e silenzio. Le cose oggi sono ben diverse, perché il Sud non è più un serbatoio di "carne da macello", disposta passivamente a subire lo sfruttamento. Come quella settentrionale, la manodopera che viene dal Sud è formata in gran parte di diplomati frustrati che odiano la fabbrica, disaffezionati, propensi più all'assenteismo che al sacrificio, certamente poco adatta a rimpiazzare gli eventuali licenziati per scarsa produttività. Un'utilizzazione intelligente di questo tipo di maestranze comporterebbe una profonda riorganizzazione del lavoro in fabbrica, con aumento dell'automazione, riduzione sensibile della fatica individuale, sull'esempio dell'industria automobilistica americana o giapponese. Ma per fare questo ci vogliono capitali e tempo, e la Fiat non è preparata per una ristrutturazione di tale tipo a breve scadenza. Quindi, per ora, l'unica via per sostenere la concorrenza internazionale è quella della repressione e della disciplina, per far "filare dritta" una manodopera scompaginata e scarsamente efficiente.
Al limite, le teste più "calde" potranno essere sostituite con lavoratori turchi, iugoslavi o greci che, a quanto pare, hanno ancora le caratteristiche di docilità e voglia di lavorare dell'emigrato meridionale di vent'anni fa, e possono, inoltre, essere anche ricattati, se cercano di far valere i propri diritti, poiché non hanno la cittadinanza italiana. Alcune migliaia di essi già lavorano in Lombardia, in aziende di medie dimensioni, con piena soddisfazione dei loro padroni.
A dimostrare che, nei 61 licenziamenti, il terrorismo è solo una scusa, c'è anche la totale disomogeneità dei licenziati, dal punto di vista politico: è vero, infatti, che sono stati licenziati esponenti del nuovo dissenso operaio e degli autonomi (ad esempio alcuni compagni del Collettivo Operaio, unico gruppo alla sinistra del PCI nello stabilimento di Rivalta), ma anche vecchi quadri operai di Lotta Continua, inattivi da anni, e altri che amoreggiavano chiaramente col PCI e il sindacato, nonché membri di quasi tutte le formazioni politiche dell'estrema sinistra presenti in fabbrica. Di questi, solo i compagni del Collettivo avevano "fatto qualcosa", nel senso che erano stati visti con simpatia da molti e, con la loro attività, avevano contribuito a diminuire la disciplina e i ritmi di lavoro; curavano anche un "Bollettino Interno dell'Officine Presse", che era abbastanza diffuso e abbastanza letto.
La totale mancanza di affinità tra i licenziati ha, nella pratica, impedito prese di posizione unitarie e ha reso difficile l'opera di controinformazione all'interno e all'esterno della fabbrica. Così, la risposta ai licenziamenti è stata assai poco incisiva: nessuna iniziativa autonoma è riuscita a prendere piede. Tanto per fare un esempio, uno sciopero autonomo alla lastroferratura di Rivalta ha visto la partecipazione di 11 (undici) compagni! Troppo pochi gli elementi politicizzati non intruppati dal sindacato, troppo pedanti con i loro discorsi esasperatamente operaisti che non interessano più nessuno, se non in maniera superficiale: i rari esempi di combattività, come il Collettivo di cui prima parlavo, sono usciti stroncati dai licenziamenti. D'altronde, anche il sindacato non è in grado di fare molto di più: lo sciopero "ufficiale" di due ore, come è noto, è praticamente fallito. Il fatto è che gli operai sono stufi del sindacato, sono stufi di perdere soldi per scioperi inutili, stufi di lotte che per anni sono servite ad ottenere soltanto il solito piatto di lenticchie. Così, anche quando le motivazioni hanno una certa validità, come per scioperi contro i licenziamenti, le adesioni sono scarse e senza entusiasmo. In tale situazione di rassegnazione e disinteresse, ben pochi sono quelli che hanno capito veramente cosa c'è dietro l'intera faccenda, cioè le ragioni profonde che stanno alla base della manovra Fiat.
È successo così che molti dei licenziati hanno firmato il documento di condanna della violenza, accettando la difesa degli avvocati del sindacato. Questo ha voluto dire la rinuncia alla propria identità politica, consegnando nelle mani del sindacato la gestione di ogni iniziativa contro i licenziamenti. Ha voluto dire, anche, avallare di fronte all'opinione pubblica la divisione dei licenziati in buoni e cattivi, come il sindacato aveva cercato di ottenere fin dall'inizio, con tutti i grossi pericoli di criminalizzazione che ciò comporta per i pochi non firmatari.
Forse un giudice democratico riuscirà a far rientrare in fabbrica qualcuno dei licenziati, ma non sarà comunque un risultato di gran peso politico. Molto di più si sarebbe potuto ottenere, gestendo la lotta, in tribunale e fuori, senza sindacato e anzi contro di esso, contro la sua politica dei sacrifici e di collaborazione. Invece, delegando tutto alla triplice la si aiuta a recuperare credibilità, mentre il più generoso tentativo di dar vita ad un collegio alternativo a quello sindacale rischia di non avere prospettive: i compagni che vi partecipano sono già criminalizzati, di fronte alla stampa e all'opinione pubblica, per non aver firmato la delega al sindacato. E anche gli operai in fabbrica, purtroppo, fanno parte dell'opinione pubblica.
Certo, solo aiutando gli operai a ritrovare forme di lotta autonoma e autogestita, fuori dagli schemi sindacali, si può pensare di battere la strategia repressiva della dirigenza Fiat. Ma dopo un anno di esperienza di fabbrica, mi viene spontaneo domandarmi: dove dorme la loro coscienza, nel TV color comperato con tanti sacrifici?